Il primo libro di consigli di bellezza di cui si abbia notizia s’intitola Venustà e si apre con una promessa: “Questa nuova e gradevole opera insegna come elaborare composti profumati per abbellire qualsiasi donna”. Pubblicato in Italia nel 1526, non è il più antico del suo genere, ma ha segnato una rivoluzione, per via del prezzo accessibile (un soldo, meno di una pagnotta) e perché scommetteva sul fatto che tutte le donne avrebbero avuto accesso ai cosmetici. Una delle ricette più apprezzate era quella di un unguento che si diceva fosse usato dalla regina di Ungheria, fatto con lumache, grasso di capra e midollo. La pratica di spalmarsi il caviale in faccia arriverà molto più tardi.

Instagram rinascimentale

Nel suo saggio How to be a renaissance woman, Jill Burke, ricercatrice dell’università di Edimburgo, esplora la vita delle donne attraverso la cultura della bellezza, diffusa grazie all’arte, ai dipinti, e alle incisioni che ne fissavano i canoni. Una sorta di Instagram dell’epoca. Venustà, con le sue poche pretese, aveva innescato una democratizzazione, evidenziando l’importanza dell’estetica nel rinascimento. Una ricerca appassionante.

Burke scopre che l’autore di Venustà era specializzato nella scrittura di manualetti di ogni tipo che si vendevano per pochi soldi ma in abbondanti quantità (come scrivere una lettera d’amore, come apparecchiare una tavola eccetera). Il fatto che non esistessero i diritti d’autore permetteva agli scrittori di rubarsi a vicenda questi umili best seller, dunque le stesse opere venivano ripubblicate in versioni identiche ma con un titolo diverso.

Le “storie culturali” si sono trasformate in una nicchia di grande successo, probabilmente perché vanno oltre fatti e oggetti concreti creando piccoli compendi dell’umanità. Prendiamo L’arte di stare sdraiati, di Bernd Brunner (Raffaello Cortina Editore 2013). L’autore presenta una “filosofia dell’orizzontalità” partendo dalla visione predominante della persona distesa come figura pigra e passiva. Eppure, nella nostra lotta costante contro la gravità, questa postura ci regala un legame più profondo con la terra rispetto allo stare eretti sui piedi. I diversi modi di distendersi fanno parte della personalità. Condividere il letto è il frutto di condizionamenti sociali. Dormiamo in letti a baldacchino o in giacigli di spine, ma come dormono gli animali?

John William Waterhouse, Circe invidiosa (Alamy)

Proseguendo con le domande e le posizioni orizzontali, in Perché dormiamo (Espress edizioni 2019), Matthew Wal-ker spiega che evidentemente ne abbiamo bisogno, ma lo facciamo sempre meno e sempre peggio, non solo perché nasciamo con un cronotipo inamovibile di allodola o gufo, ma perché le esigenze economico-sociali del momento ci obbligano a sottrarre ore al sonno, con conseguenze preoccupanti soprattutto in materia di salute pubblica.

Tutto il contrario della fretta è Taming fruit, dove ritroviamo come autore Bernd Brunner. Il saggista parte da un elemento su cui solitamente sorvoliamo: “Lo sviluppo biologico della frutta è stato accompagnato da una lunga evoluzione storica che può paragonarsi a quella dell’addomesticamento del cane, del bestiame o delle galline”. È un “ballo co-evolutivo” fatto di apprendimento per errori, come lo ha descritto Darwin nella sua Origine delle specie, e che “è consistito nel coltivare sempre la varietà più rinomata fino a quando, per caso, appariva una verità leggermente superiore che la soppiantava, e via dicendo”. Una storia di semine, migrazioni, appetiti e mode.

Altre mode e ossessioni sono meno innocenti. The ugly history of beautiful things di Katy Kelleher indaga, come dice il titolo, su ciò che sta dietro gli oggetti desiderati e consumati senza troppe preoccupazioni, come i profumi o i cosmetici, tra problemi di sicurezza relativi agli ingredienti, dolore provocato dalla loro produzione e sfruttamento dell’ambiente. Ci affascina il marmo, ma non pensiamo alla polvere che si disperde dalla pietra e viene respirata da altri. Quello di Kelleher è un altro modo di vedere gli oggetti, più onesto, più pulito.

Ritratto di Helena, marchesa di Northampton (Universal History Archive/Universal Images Group/Getty)

Memorie di un’orologiaia di Rebecca Struthers (Garzanti 2024) è invece un’indagine sull’uso che abbiamo fatto del tempo attraverso la storia e di come abbiamo creato strumenti per domarlo. Alla fine del settecento la maggior parte delle chiese europee aveva un orologio sul campanile che permetteva di organizzare il tempo comunitario. L’introduzione dell’orologio da polso ha creato la possibilità di disporre di un tempo personale e portatile, il tempo come individualismo. Esaminando un orologio e le sue decorazioni possiamo intuire il tipo di società che ne ha prodotto la fabbricazione.

Liberi di circolare

In License to travel. A cultural history of the passport, Patrick Bixby s’immerge in questo “libretto di una trentina di pagine di carta spessa, con una copertina di cartone e inciso a rilievo con il nome di un paese e il suo simbolo”, diventato “un talismano dei giramondo e il riassunto della storia di una vita, per il turista privilegiato come per il migrante disperato”. Un oggetto, il passaporto, dove s’incontrano la dimensione privata e quella politica, che promette indipendenza e mobilità “ma al contempo si converte in strumento essenziale della vigilanza”, oggi come quando il re Tushratta di Mitanni conferì il salvacondotto più antico di cui si abbia notizia, nel trecento.

“È una vecchia abitudine tra la gente di mare affidare alle onde dell’oceano messaggi che i marinai non possono diffondere in un altro modo”. In Message in a bottle, Wolfgang Struck presenta una selezione commentata della collezione raccolta dallo scienziato tedesco George Neumayer nell’ottocento, un catalogo di curiosità che dicono molto del comportamento umano: dagli addii in piena tempesta destinati ai familiari fino alle poesie e perfino ai necrologi. Risultano altrettanto affascinanti i racconti di come sono state ritrovate le bottiglie.

“La storia dei veleni è la storia dell’umanità”. Non possiamo certo negare questa affermazione di Daniel Torregrosa, autore di El olor de las almendras amargas (L’odore delle mandorle amare) Già dalle frecce avvelenate vecchie di 72mila anni risulta chiaro che il veleno è sempre stato uno strumento usato dagli umani per fare del male, ma ha anche consentito importanti passi avanti nella scienza e nella medicina. Liste di veleni, un percorso lungo la loro presenza nell’arte, nella letteratura e nel cinema e un chiarimento: il sapore delle mandorle amare è dovuto all’amigdalina, “e nonostante sia certo che mangiando mandorle amare stiamo ingerendo cianuro, ne serve una grande quantità per provocare la morte. Di sicuro moriremmo prima di disgusto”. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1571 di Internazionale, a pagina 74. Compra questo numero | Abbonati