Non esiste un prezzo del petrolio valido per tutto il mondo. Ci sono decine di quotazioni, una per ogni varietà di greggio. Il mercato finanziario si concentra su due in particolare, Brent e West Texas intermediate (Wti), scambiate rispettivamente a Londra e a New York. Questi due indici al momento suggeriscono un prezzo intorno ai novanta dollari al barile. In Arabia Saudita, invece, il petrolio è già sui cento dollari a barile. Questa discrepanza riflette il potere di dettare il prezzo che Riyadh ha conquistato nell’ultimo anno e mezzo e che ha permesso alla monarchia del Golfo di esigere un sovrapprezzo record per il suo greggio, soprattutto dai clienti statunitensi ed europei in cerca di alternative al petrolio russo.
Il sovrapprezzo è rilevante per il ruolo centrale rivestito dall’Arabia Saudita nei mercati mondiali, visto che nel paese si estrae circa un barile su dieci di tutto il greggio prodotto nel mondo. La strategia di Riyadh sta alimentando le pressioni inflazionistiche globali e potrebbe costringere le banche centrali a mantenere ancora alti i tassi d’interesse. Allo stesso tempo l’Arabia Saudita sta rafforzando la sua posizione politica nella scena mondiale.
Secondo i calcoli di Bloomberg, già da giorni la quotazione europea dell’Arab light, la principale varietà del greggio saudita, gravitava intorno ai cento dollari al barile. Negli ultimi quarant’anni l’Arab light è stato scambiato a un prezzo superiore ai cento dollari solo poche volte: nel 2008, tra il 2012 e il 2014 e nel 2022.
I meccanismi del mercato globale spiegano perché l’Arab light sia scambiato con un sovrapprezzo così alto rispetto al Brent e al Wti. Dopo il crollo del sistema dei prezzi fissi gestito dall’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec), alla metà degli anni ottanta, sono stati i mercati a fissare le quotazioni: l’Opec esercita la sua influenza modificando la produzione. Dal 1988 l’Arabia Saudita ha venduto il suo greggio con contratti a lungo termine basati su una formula che, partendo da un prezzo di riferimento come il Brent, applicava uno sconto o un sovrapprezzo relativamente bassi. Lo standard e la differenza sono diversi a seconda che le vendite avvengano verso gli Stati Uniti, l’Europa o l’Asia. Per gran parte degli ultimi 35 anni, queste differenze sono state misurate in centesimi di dollaro. E, con l’eccezione dell’Asia, erano prevalentemente negative: Riyadh cioè vendeva il suo greggio a un prezzo scontato rispetto alle quotazioni di riferimento europee e statunitensi. L’Asia pagava un sovrapprezzo, ma era relativamente basso. Tra il 2000 e il 2020, il paese mediorientale ha fatto ai compratori europei uno sconto medio rispetto al Brent di circa tre dollari al barile. Di recente, invece, ha applicato un sovrapprezzo che tende ad aumentare costantemente. A settembre i sauditi hanno fissato il prezzo dell’Arab light a un valore di 5,8 dollari al barile in più rispetto al Brent. Per i clienti statunitensi, invece, il sovrapprezzo ha toccato la quota record di 7,2 dollari al barile. Per l’Asia al momento il sovrapprezzo è inferiore, anche se l’anno scorso ha raggiunto un picco di quasi dieci dollari al barile.
Una scelta precisa
La svolta decisa dall’Arabia Saudita è dovuta a due fattori: uno frutto di una scelta precisa, l’altro è della congiuntura internazionale. Il primo, e forse il più importante, è che a Riyadh sta andando una parte della torta che si spartiscono le aziende di raffinazione. In tutto il mondo i margini per la raffinazione – la differenza tra il costo del greggio e il valore della benzina, del diesel e di altri prodotti petroliferi – hanno raggiunto livelli altissimi per una combinazione di domanda in crescita e ridotta capacità di raffinazione.
◆ Le aziende che raffinano il petrolio hanno difficoltà a soddisfare la domanda mondiale di diesel, una situazione che rischia di aggravare l’inflazione in molti paesi e che priva le economie avanzate di un carburante fondamentale per le attività industriali e per i trasporti. Il 14 settembre negli Stati Uniti il prezzo del diesel ha raggiunto i 140 dollari al barile, mentre in Europa la quotazione è cresciuta del 60 per cento durante l’estate. Oltre ai tagli al greggio decisi dall’Arabia Saudita e dalla Russia, ha pesato il caldo torrido estivo, che ha costretto molti impianti a ridurre i ritmi di produzione. Inoltre c’è più richiesta per prodotti diversi dal gasolio e dal carburante per aeroplani. Il sistema infine risente ancora della scomparsa di numerose raffinerie, costrette a chiudere a causa della crisi provocata dal covid-19 e che non hanno mai riaperto. Bloomberg
Ogni mese l’Arabia Saudita calcola il valore dei prodotti che una raffineria potrebbe ottenere cono l’Arab light. Nel settore questo valore è noto come gross product worth (gpw, valore lordo del prodotto). Più il gpw sale, più alto è il prezzo che un venditore può esigere da una raffineria, senza che il compratore se ne lamenti. Il gpw saudita continua ad aumentare dalla metà del 2022. Riyadh quindi si sta assicurando che le raffinerie condividano parte di questi profitti supplementari.
Il secondo fattore è che il mercato globale del petrolio è particolarmente affamato del tipo di greggio prodotto dall’Arabia Saudita. In larga misura è il risultato dei profondi tagli alla produzione decisi quest’anno da Riyadh. Riflette però anche il fatto che una delle varietà di greggio più diffuse – quella statunitense ricavata con la tecnica del fracking – è molto diversa dalla saudita. Per molte aziende di raffinazione con strutture ultramoderne in grado di spezzare le molecole più resistenti di idrocarburi, il greggio saudita è un prodotto di base che permette di far funzionare al meglio gli impianti. È particolarmente adatto alla produzione di diesel, il cavallo da tiro dell’economia globale. Il greggio da fracking statunitense, invece, permette di ottenere una quantità relativamente superiore di prodotti petrolchimici.
Morale della favola: i prezzi del petrolio non solo sono alti e destinati ad aumentare ancora, ma sono anche molto più cari di quanto suggeriscono i due più importanti indici di riferimento, come quelli basati sul Brent e sul Wti. Come nel 1973-1974, ai tempi della prima crisi petrolifera, quando la varietà saudita era il principale riferimento per i mercati, le banche centrali devono tenere d’occhio l’andamento dell’Arab light per valutare l’inflazione. E per come stanno le cose, il quadro non è dei più rosei. Anzi, sta peggiorando. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1530 di Internazionale, a pagina 107. Compra questo numero | Abbonati