L’occidente è davvero “tornato?” Questo era l’interrogativo che aleggiava sul vertice del G7 a Carbis Bay, nel Regno Unito, terminato il 13 giugno. L’evento era stato presentato come una celebrazione del ritorno del multilateralismo e dell’alleanza occidentale dopo la presidenza di Donald Trump, l’ascesa della Cina e il trauma della pandemia di covid-19. Per il nuovo presidente statunitense Joe Biden la riunione dei leader delle sette grandi democrazie ricche (più l’Unione europea e quattro paesi ospiti) doveva essere il trampolino di lancio per una nuova alleanza democratica con cui contenere la Cina. Biden è convinto che sarà su questo tema che la storia giudicherà la sua presidenza.

Dal punto di vista dell’immagine, il vertice è stato un successo. A Carbis Bay, in Cornovaglia, splendeva il sole, e ci sono state fotogeniche passeggiate sulla spiaggia. Le smorfie e le tensioni che hanno caratterizzato i G7 dell’era Trump erano evidentemente scomparse. “È fantastico avere un presidente degli Stati Uniti che fa parte del club ed è molto disponibile a collaborare”, ha dichiarato il presidente francese Emmanuel Macron, i cui scambi pubblici con Biden sono stati particolarmente cordiali. Il premier britannico Boris Johnson si è rivelato un ospite opportunamente gioviale.

Il comunicato concordato e pubblicato il 13 giugno contiene tante belle parole che riflettono i princìpi occidentali ampiamente condivisi e molte delle priorità della nuova amministrazione statunitense in materia di multilateralismo e democrazia liberale, che la rendono così diversa dalla precedente. “L’occidente è tornato”, ha proclamato Johnson per fugare ogni dubbio.

Questo per quanto riguarda lo stile. Ma la sostanza? Mi sembra corretto giudicare il vertice in base ai quattro temi generali messi in programma dal Regno Unito, a cui spettava la presidenza di turno: ripresa dopo la pandemia, commercio libero ed equo, cambiamento climatico e valori democratici condivisi.

A proposito della ripresa, le belle parole hanno nascosto l’enorme distanza tra gli impegni presi e la sfida che dovrebbero affrontare. Anche se la promessa di donare 870 milioni di dosi di vaccini nel corso del prossimo anno è meglio di niente, la cifra è molto inferiore a quella che sarebbe necessaria per proteggere il mondo intero. Se volessimo misurare il ritorno dell’occidente con il metro della leadership mostrata nella lotta alla pandemia, restano parecchi dubbi.

Impegni troppo vaghi

Sul commercio libero ed equo il linguaggio del comunicato è sorprendentemente vago. Durante il vertice gli scambi più importanti a proposito del commercio sono andati in senso contrario rispetto a questa priorità: a margine della riunione, infatti, ci sono stati scontri molto duri tra i rappresentanti dell’Unione europea e quelli del Regno Unito a proposito del cosiddetto protocollo per l’Irlanda del Nord dell’accordo sulla Brexit, che hanno fatto temere la possibilità di una guerra commerciale. Detto ciò, il punto più significativo nelle sezioni del comunicato che riguardano la prosperità economica è l’impegno a fissare una tassa minima globale del 15 per cento per le grandi aziende, una mossa positiva per mettere fine agli stratagemmi che facilitano l’elusione fiscale.

Da sapere
Le altre tappe del tour di Biden

◆ Dopo il G7 di Carbis Bay, il presidente statunitense Joe Biden ha proseguito il suo tour europeo partecipando al vertice della Nato del 14 giugno a Bruxelles. Nell’occasione l’alleanza atlantica ha inserito per la prima volta la Cina tra le sue priorità strategiche, affermando che “le sue ambizioni dichiarate e il suo comportamento aggressivo pongono delle sfide sistemiche all’ordine internazionale”. La svolta, dovuta soprattutto alle pressioni di Biden, ha incontrato la resistenza di molti paesi europei, che temono ricadute sui rapporti economici con Pechino e preferiscono che la Nato continui a concentrarsi sulla Russia. La risposta cinese non si è fatta attendere: Pechino ha replicato che l’espansione delle sue capacità militari ha uno scopo puramente difensivo e che la Nato dovrebbe smettere di “usare i suoi interessi legittimi come scusa per alimentare la competizione geopolitica”. Il giorno successivo Biden ha presenziato al vertice bilaterale tra Stati Uniti e Unione europea, in cui le due parti hanno concordato di mettere fine alla disputa sui sussidi statali alle aziende aeronautiche Boeing e Airbus, cominciata nel 2004, e di revocare le tariffe commerciali imposte reciprocamente. Il 16 giugno, infine, Biden ha incontrato il presidente russo Vladimir Putin a Ginevra, in Svizzera. I due hanno stabilito di far tornare al loro posto i rispettivi ambasciatori, che erano stati richiamati nei mesi scorsi, e hanno annunciato l’avvio di un “dialogo sulla stabilità strategica”, che dovrebbe portare a nuove misure per il controllo degli armamenti e la riduzione dei rischi. Reuters


Anche sul clima l’esito del vertice è deludente. Il comunicato ha promesso di “accelerare la transizione internazionale verso l’abbandono del carbone”, ma non ha fissato nessuna scadenza. Gli attivisti speravano in una data precisa, anche perché se le democrazie ricche non sono capaci di essere chiare sulla fine del carbone è difficile che possano ispirare la Cina e i paesi ancora più poveri a fare lo stesso, magari in occasione del vertice sul clima (Cop26) in programma a novembre. La dichiarazione finale è ancora meno ambiziosa di quella fatta dai ministri dell’ambiente a maggio, che conteneva almeno l’impegno a “decarbonizzare radicalmente la produzione di energia nel prossimo decennio”. Intanto la vecchia promessa di stanziare cento miliardi di dollari per sostenere le economie in via di sviluppo nella decarbonizzazione continua a essere un’aspirazione assolutamente vaga. Forse i padroni di casa britannici avrebbero potuto essere dei mediatori più convincenti se non avessero da poco annunciato un taglio al bilancio per gli aiuti.

Sui valori democratici condivisi – il campo che riguarda più strettamente la sfida con la Cina – ci sono stati invece impegni concreti. Mentre la superpotenza asiatica non era quasi menzionata nel comunicato dell’ultimo vertice, nel 2019, stavolta era uno dei punti centrali. I leader occidentali hanno chiesto un rapporto “tempestivo, professionale, trasparente e scientifico” sulle origini del virus sars-cov-2. Hanno citato esplicitamente Taiwan, Hong Kong, lo Xinjiang e il ricorso al lavoro forzato (un altro riferimento allo Xinjiang). Inoltre hanno proposto “un cambio di passo nell’approccio agli investimenti e alle infrastrutture”, una mossa assai celebrata per contrastare l’iniziativa cinese della nuova via della seta, “moltiplicando il sostegno” da parte del Fondo monetario internazionale.

Tuttavia questo piano d’investimenti merita una buona dose di scetticismo: non solo è chiaramente impostato in riferimento a un modello creato dalla Cina (l’equivalente occidentale di qualcosa che Pechino ha già fatto può essere un segno di leadership?), ma data la vaghezza del linguaggio sembra improbabile che la sostanza sia all’altezza delle ambizioni. Più in generale, nonostante i toni prevalentemente amichevoli, le spaccature più profonde all’interno dell’alleanza transatlantica rimangono.

Uno scenario intermedio

Prima del vertice avevo ipotizzato tre scenari indicativi per il futuro dell’occidente: quello inquietante di una permanente “assenza dell’occidente”, quello ottimistico di una “pienezza dell’occidente”, e infine uno scenario intermedio, in cui alcuni aspetti dei valori e della potenza occidentale sopravvivono mentre altri svaniscono. Il vertice di Carbis Bay indica decisamente il terzo scenario.

Certo, i leader delle più grandi economie occidentali hanno ricordato al mondo che possono essere civili e collaborativi e fare affari tra loro. Possono trovare un linguaggio comune per parlare di obiettivi comuni, e raggiungere accordi in ambiti che fino a un certo punto riflettono la portata delle sfide attuali. Eppure gran parte di quello che è stato stabilito in Cornovaglia equivale a ciò che Laurence Tubiana, una dei principali negoziatori alla conferenza sul clima di Parigi del 2015, ha definito “rispondere con un piano il cui obiettivo è preparare un altro piano”. Tubiana si riferiva alla dimensione ambientalista del vertice, ma il concetto si adatta benissimo anche agli altri grandi temi. Se questa accozzaglia di piccoli e medi impegni avvolti in un linguaggio amichevole ma vago è quello che s’intende con il “ritorno dell’occidente”, allora viene da chiedersi quali siano le vere ambizioni e capacità dell’occidente nel prossimo decennio e oltre.

Quello in Cornovaglia non è stato un cattivo vertice. I partecipanti hanno avuto i toni e le immagini che volevano. E non è stato nemmeno un incontro senza conseguenze. Ma dal momento che non è andato oltre e non ha ottenuto di più in settori che richiedono disperatamente un maggiore impegno da parte dei leader del G7, ha anche offerto una chiara dimostrazione dei limiti dell’occidente. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1414 di Internazionale, a pagina 28. Compra questo numero | Abbonati