Le chivas, autobus colorati, sono esseri di un altro tempo, dall’apparenza vistosa e dal design sfavillante. Belle, robuste e impetuose, ma di un’altra epoca: appartengono a quel tempo che trascorre senza ansia sui sentieri e nei villaggi della Colombia. Gli autisti le preparano per il primo viaggio della giornata nel chiarore dell’alba. Riscaldano il motore tra ronzii e borbottii di fumo grigio, mentre alcune ombre corrono a occupare le panche e gli aiutanti danno una mano a caricare pacchi e fagotti sul tetto.

In Colombia ci sono chivas che vanno da un confine all’altro del paese. Dal dipartimento di Nariño a quello della Guajira, a nord, e dalla regione degli Llanos all’oceano Pacifico. Ma da nessuna parte esistono chivas come quelle delle piantagioni di caffè, nella zona centroccidentale del paese. Lì sono bambine viziate dai loro proprietari: carrozzerie decorate, lamiere brillanti e luci a non finire. In alcune zone della Colombia le chiamano buses de escalera, autobus a scala. Nacquero con questo nome a Medellín all’inizio del novecento. In realtà le prime chivas erano camion o autobus con una carrozzeria modificata per trasportare carichi, animali e passeggeri. Veniva aggiunto anche qualche foglio di acciaio alle sospensioni per poter affrontare i sentieri di montagna. A questa capacità, impensabile per un altro tipo di veicolo, si deve il nome chiva, cioè capra.

Il conducente ha sistemato Sandra López Coy sulla panca della prima fila. “Qui si sentono meno le buche della strada”, le ha detto

Sono andato a cercarle a sudovest del dipartimento di Antioquia e a nord del dipartimento di Caldas, all’inizio per una semplice curiosità da turista. Da Caldas ho seguito le loro tracce attraverso Riosucio, Pácora e Aguadas. Una mattina piovigginosa sono partito da Pensilvania (nel Caldas) in direzione di Arboleda. La sera ci ha sorpresi vicino a Nariño, a sud di Antioquia. Il giorno dopo abbiamo raggiunto Sonsón e da lì siamo passati ad Andes e Jardín.

Ho trovato le chivas nei villaggi con i balconi di legno e le facciate dai colori stridenti, con gerani che spuntavano da bacinelle, brocche e vecchie pentole. Ho accompagnato i contadini sui sentieri in mezzo alla boscaglia e lungo strade che si snodavano sull’orlo di precipizi, tra le vette delle montagne che formano un profilo azzurro fino a fondersi con l’orizzonte. Sui sentieri ho scoperto che la chiva non è solo un mezzo di trasporto. Sopra ci viaggiano anche la cesta di more o il casco di banane insieme al contadino che torna dal mercato. Sulla chiva si diffondono voci, si commentano le notizie, si conoscono i nuovi arrivati, si va a scuola, si raccontano i progetti, si concordano visite, si vendono vitelli, si conquista una ragazza, si trasportano armadi e si va a una festa o a un funerale.

Con la chiva si arriva alle piantagioni di caffè, si trasportano il pergamino e i pesticidi. Gli autisti sono confidenti, uffici per l’invio di denaro e messaggeri di amori furtivi. Sui sentieri di montagna le chivas si sono trovate faccia a faccia con la morte che si aggira in alcune zone rurali del ­paese.

Ho raccolto alcune delle storie che vagano per i sentieri di un paese dalla pelle ruvida, collegato da questi veicoli il cui numero diminuisce con l’avanzare dell’asfalto: sulla strada le chivas possono essere sostituite dagli autobus, asettici, uniformi, individualisti, più redditizi e inaccessibili per i sacchi di caffè e di legumi o i caschi di banane. L’asfalto è la morte lenta delle chivas.

La maggior parte di queste storie brevi è stata pubblicata in Chivas, arcoíris del camino (Chivas, arcobaleno della strada) del fotografo Carlos Pineda.

La nebbia
Jardín, dipartimento di Antioquia
Da quando è uscita dal villaggio, alle prime luci dell’alba, la chiva viaggia avvolta in una nuvola bianca che impedisce di vedere al di là del filo spinato, dei crepacci in fondo ai quali scorrono rivoli d’acqua e dei noceti che affiancano la strada sterrata. Avanza barcollando. Antonio, l’autista, schiaccia il pedale del freno e una luce rossa si accende ai piedi di un crocifisso di plastica. Una pioggerellina leggera bagna il parabrezza. I passeggeri dormono nei loro poncho, con la testa che ciondola. Uno scapolare del Signore dei miracoli di Buga oscilla appeso allo specchio retrovisore. La nebbiolina non accenna ad andarsene. Ogni tanto s’intravede il profilo di un cavallo nero in mezzo ai pascoli.

Abitante di due mondi
Tragitto Villamaría-Manizales, dipartimento di Caldas
L’asfalto ci ha sorpresi davanti a un bosco di eucalipti. La chiva avanzava goffamente su un rettilineo fiancheggiato dal filo spinato. All’improvviso Giovanny Cardona, il conducente, ha alzato la mano destra dal volante e ha puntato l’indice verso un punto all’orizzonte, dove la strada diventava liscia, di un grigio quasi nero.

“Lì c’è l’asfalto, vedi?”, ha urlato per sovrastare la voce del cantante argentino Leonardo Favio che usciva potente dagli altoparlanti. L’autista ha accelerato un po’, sfruttando il rettilineo. L’asfalto ci è arrivato addosso, fino a occupare quasi tutto il parabrezza. Da un momento all’altro le vibrazioni nel veicolo sono cessate, la nuvola di polvere è rimasta alle nostre spalle sul sentiero di ghiaia, fino a svanire nel vento mattutino.

Viaggiavamo sul Cordobés, una chiva con nove panche scesa dalla montagna con a bordo tredici passeggeri, sei sacchi di caffè, tre sacchi di arance, una bicicletta e due caschi di banane verdi e rachitiche a causa di un parassita che ha colpito le piantagioni nella parte alta del comune di Villamaría.

La comparsa improvvisa dell’asfalto ha un significato profondo quando si torna in città da un luogo lontano e isolato. È una frontiera a cui il corpo è grato dopo ore di sobbalzi e, in estate, di una polvere quasi invisibile che entra nelle orecchie e nel naso. Il gesto tra i passeggeri è istintivo: gli uomini allontanano il poncho dalla faccia e alcune donne tirano fuori uno specchietto per aggiustarsi il trucco.

Ci trovavamo sul sentiero la Floresta, in un punto chiamato Arquería, a pochi minuti da Manizales. Ma potevamo essere tra la Casiana e Jardín, nel dipartimento di Antioquia, o sul sentiero in salita dal fiume Arma a Sonsón. L’immagine nella chiva era la stessa: i viaggiatori con gli stivali infangati si preparavano a entrare in un mondo in cui la gente si fa lustrare le scarpe agli angoli delle strade.

El Cordobés ha cominciato ad addentrarsi in città per strade secondarie. Dieci minuti dopo è arrivato a destinazione in un parcheggio accanto alla piazza del mercato. Lì c’erano anche i fuoristrada e altre chivas dirette a Riosucio. El Cordobés fa parte di questa regione rurale, è stato pensato per passare su strade che spezzerebbero qualsiasi altro autobus. È come il salotto di una casa: i passeggeri si salutano, gridano, scherzano e si raccontano pettegolezzi. Nei giorni in cui c’è il mercato si passano una bottiglia di acquavite per bere in compagnia.

Per chi viaggia sulle chivas la piazza del mercato è la porta d’ingresso e di uscita della città. I passeggeri girano nei corridoi e nei padiglioni del mercato o vanno in altre zone di Manizales. Dopo alcune ore i contadini tornano sui loro passi carichi di viveri, vestiti, machete, telefoni cellulari e varie cianfrusaglie. Qualcuno compra anche frigoriferi e altri elettrodomestici.

Prima, fino alla metà del novecento, i contadini caricavano i loro acquisti sui muli, ma da quando hanno aperto la strada la chiva è diventata il mezzo di trasporto per eccellenza per andare dalla campagna alla città. A molti non piace restare troppo a lungo in mezzo al cemento: quando hanno comprato quello che gli serve salgono sulla chiva e, tra sobbalzi e scomodità, tornano sulle loro montagne. D’inverno queste stesse strade diventano pericolose.

La studente
Andes, dipartimento di Antioquia
Questa chiva ha avuto diversi nomi. Quando la guidava mio padre si chiamava el Puñal sevillano, come la canzone di Adolfo Carabelli che si sentiva spesso nei locali del posto. La canzone dice così:

Morena, me hirió de muerte

Con un puñal sevillano

Escucha, no llores y júrame por Dios

Que vas a matarlo al que me asesinó

(Mora, mi ha ferito a morte con un pugnale sivigliano. Ascolta, non piangere e giurami per Dio che ucciderai chi mi ha assassinato).

Al suono di questa musica i raccoglitori di caffè si ubriacavano o facevano a botte. A volte per soldi e a volte per le donne: per qualsiasi motivo. C’erano molto alcol e decine di belle donne. Arrivavano dall’entroterra il venerdì pomeriggio e se ne andavano il lunedì, quando avevano speso fino all’ultima moneta e cercavano qualche spicciolo per tornare sui campi.

Poi mio padre ha cambiato nome alla chiva e l’ha chiamata Paciencia, hermano (Pazienza, fratello), perché era quello che diceva ai suoi amici quando qualcuno aveva un problema. Ha avuto anche altri nomi, come Samaritana e Rumbera. Oggi si chiama la Colegiala. E finché sarò vivo e la guiderò io, continuerà a chiamarsi così.

Ho scelto il nome più di trent’anni fa, quando ho conosciuto la donna che poi sarebbe diventata mia moglie: María Ofelia Saldarriaga Henao. Era una studente della scuola di Tapartó.

All’epoca guidavo la chiva da Andes a Tapartó, una località dove si dice che vivessero i nativi tapartoes. Poi è arrivato un signore che l’ha ribattezzata Villa César, per questo oggi il villaggio è noto con questi due nomi. Partivo la mattina presto e andavo a prendere gli studenti nella zona del Bosque. Dopo passavo per La Camelia, Los Ranchitos, La Lejía, Porvenir, La Perlada, Puente Nuevo e, alla fine, Tapartó. Caricavo cinquanta o sessanta studenti.

María Ofelia saliva a El Porvenir. Arrivava con una camicetta bianca e una gonna blu a quadretti. Io la guardavo dallo specchietto retrovisore: aveva i capelli neri, era magra e sorridente. Le facevo segno di sedersi sul sedile accanto a me. Quel posto è per la donna che piace all’autista, la fidanzata, la moglie o l’amica. Un giorno ho preso coraggio e le ho detto: “Regina, per favore, siediti qui”. Lei ha esitato, poi ha accettato e da allora ha sempre viaggiato accanto a me. Parlavamo del tempo e della strada, e ogni tanto le facevo qualche complimento.

Le dicevo: “Bellezza, quando parliamo un po’ sul serio io e te? Dammi un’opportunità, mettiamoci insieme, guarda che ho intenzioni serie”. Lei rispondeva sempre di no, ma io insistevo. Poi una mattina, quando stava per scendere, mi ha detto: “Un giorno di questi ti faccio sapere”. E se n’è andata con un sorriso. Io sono corso in officina e ho fatto cambiare il nome alla chiva: è diventata la Colegiala, la studente.

Quando ci siamo rivisti ci siamo dati il primo bacio.

Poi sono andato dal padre di María Ofelia e gli ho chiesto di poter sposare sua figlia, per formalizzare la nostra relazione. Il fidanzamento è durato sei anni, ci siamo sposati nel 1988, nella chiesa di Tapartó. Quel giorno mi sono svegliato presto e insieme ai miei fratelli abbiamo preparato la chiva. L’abbiamo ripulita dal fango con acqua e sapone, l’abbiamo proprio rimessa a nuovo. Ho lucidato le gomme e l’ho addobbata con girandole e palloncini bianchi. Era uno splendore. Sulla prima panca viaggiavano i miei genitori; dietro c’erano i miei undici fratelli e gli amici.

Parliamo di trentotto anni fa. Oggi abbiamo due figli molto studiosi e lavoratori, grazie al cielo. María Ofelia e io siamo invecchiati, ma la Colegiala è ancora tutta intera, come puoi vedere.–Testimonianza di Jorge H. Ramírez, detto el Muelón (il Dentone).

Lo sguardo della madonna
Guatapé, dipartimento di Antioquia
Albeiro dipingeva le madonne più belle di Medellín. Soprattutto quella del Carmine. Aveva imparato nel quartiere Barrio Triste guardando, come quasi tutti noi. Ma Albeiro non dipingeva le carrozzerie, non gli piaceva. Di quello mi occupavo io, con il righello e il compasso. Geometria pura! Lui preferiva le figure, i paesaggi come quello innevato che vede sul bagagliaio di quella chiva.

Un giorno ci hanno chiamato da Guatapé per dipingere una Ford 65. Abbiamo preso gli attrezzi e i pennelli e siamo partiti. Dipingevamo per strada, davanti a tutti. Dodici ore al giorno. Abbiamo lavorato così tanto che in due mesi la chiva era quasi pronta.

“Andiamo a prenderci un caffè”, mi ha proposto Albeiro una mattina, mentre stavo ritoccando alcune linee sullo scapolare della madonna.

“Stavo proprio per proportelo io”.

Mentre lui puliva i pennelli, ho guardato la madonna. Era uguale ai quadri di mia nonna: aveva uno sguardo profondo e triste, come se fosse sul punto di piangere. Non dico bugie, le madonne di Albeiro ti guardano come se conoscessero tutti i tuoi peccati.

Il bar era a tre isolati, nella via dei negozi. Era un giorno di mercato e c’era musica ovunque. Il villaggio era pieno di contadini scesi dalle montagne sulle chivas, sulle jeep e a cavallo.

Con Albeiro ci siamo messi a parlare di una chiva che dovevamo dipingere a Santuario. Il proprietario voleva un Gesù bambino per farsi benedire la chiva dal prete. Qui c’è quest’usanza. Il giorno della madonna del Carmine c’è una sfilata di chivas addobbate di azzurro e bianco. Le lavano, ci mettono i palloncini, i fiori e le bandiere. I proprietari e gli autisti vanno a messa, bruciano della polvere da sparo e a volte preparano del sancocho, una zuppa. Quel giorno i parroci benedicono le chivas e spruzzano acqua benedetta dal sagrato della chiesa, per proteggerle dalle disgrazie.

Quando siamo usciti dal bar si sentiva la voce di Darío Gómez che cantava. Abbiamo tagliato per una strada dove c’era puzza di urina e di sterco di cavallo. Abbiamo camminato tra gli animali, alcuni già carichi per tornare sulla montagna, e siamo arrivati sulla strada dove avevamo lasciato la chiva. Appena abbiamo girato l’angolo mi sono fermato di botto e ho dato una gomitata a Albeiro.

“Guarda, guarda là”, gli ho detto.

C’era una coppia di contadini avanti con l’età. Avranno avuto sui settant’anni. Avevano appoggiato a terra le borse della spesa e si erano inginocchiati per pregare davanti alla madonna che Albeiro aveva appena dipinto.

Il parto
Aguadas, dipartimento di Caldas
I dolori del parto sono aumentati poco dopo le sei di mattina. José Santiago ha preparato un cavallo ed è partito al trotto per raggiungere la strada e fermare la chiva delle sette. A Sandra López Coy avevano detto che il bambino sarebbe nato il 15 gennaio. Era il 15 gennaio, ma la donna se n’è ricordata solo quando sono cominciate le prime contrazioni. José Santiago è riuscito a fermare la chiva ed è tornato a casa passando da una mulattiera per portare sua moglie a cavallo. Sandra López Coy è salita come poteva sull’animale. Aveva piovuto e a causa del fango l’animale sollevava le zampe a fatica. Procedevano a rilento.

Quando sono arrivati sulla strada principale, i dolori erano diventati insopportabili. Il conducente ha sistemato Sandra López Coy sulla panca della prima fila. “Qui si sentono meno le buche della strada”, le ha detto. La Melliza, una chiva marca International, trasportava una decina di passeggeri e più di venti sacchi di caffè e arance. Quando l’autobus si è rimesso in moto, López Coy si stava contorcendo dal dolore.

Venti minuti dopo la donna non ce l’ha fatta più. “Si fermi dove può, don Hernán, il bambino sta arrivando”, ha detto gridando per sovrastare il rumore di una canzone di Vicente Fernández. Era sudata e ansimava. Si trovavano a metà strada, sul sentiero di Guaymaral. Don Hernán ha accostato vicino al burrone e ha chiesto agli altri passeggeri di scendere dall’autobus.

“Ho preparato un letto di fortuna sulla panca di mezzo con dei sacchi, e per una coincidenza della vita tra i passeggeri c’erano anche due ostetriche”, racconta Hernán Londoño, il proprietario della Melliza.

Le tre donne sono rimaste sole. José Santiago si è seduto sotto i rami di un albero di guayaba e ha aspettato, in ansia, finché non ha sentito il pianto di un neonato. “È una bambina”, ha urlato una delle ostetriche. Tutti i passeggeri hanno applaudito. Alcuni si sono fatti il segno della croce. Una donna che viveva vicino, in una casa di canne e fango, ha portato delle forbici e un filo per tagliare il cordone ombelicale e mettere due punti. Un’altra donna, che abitava poco lontano, ha portato alla partoriente una tazza di cioccolata calda.

La bambina oggi ha tredici anni. Si chiama Dahiana, va a scuola e non crede alla madre quando le racconta com’è venuta al mondo.

San Carlos, dipartimento di Antioquia, novembre 2018 - Joaquín Sarmiento, Afp/Getty ImageS
San Carlos, dipartimento di Antioquia, novembre 2018 (Joaquín Sarmiento, Afp/Getty ImageS)

Commissioni
Confine tra i dipartimenti di Antioquia e Caldas
Mentre è al volante della sua chiva, una Ford chiamata la Paisita, John Fredy parla delle commissioni imprevedibili che i contadini gli affidano.

“Una donna anziana un giorno mi ha aspettato sulla strada per chiedermi di comprarle un ago al villaggio. Un ago! Doveva rammendare dei vestiti. Mi ha dato una moneta da cento pesos (due centesimi di euro)”. John Fredy sorride ricordando l’episodio: non tanto per la richiesta, ma perché una volta tornato con l’ago, la signora ha voluto indietro i cinquanta pesos di resto.

Su queste montagne, dove a volte c’è il segnale per il cellulare, gli autisti delle chivas si trasformano in messaggeri: “Di’ ad Arnulfo che venga a prendere i polli che aveva ordinato”. Oppure in corrieri per la consegna di denaro: “Conosci il ‘Mono’ Ortega, quello che vive alla deviazione per Los Pinos? Fammi il favore di dargli questi soldi. Lui sa di cosa si tratta. Ci sono un milione e mezzo di pesos, contali”.

Per i contadini gli autisti comprano “mangime per polli, pile per le torce, medicine per l’influenza, carne a poco prezzo, qualche uovo, assorbenti”. A volte i contadini gli chiedono di pagare per loro le bollette o la tv via cavo. Altre volte gli autisti sono messi a parte di questioni intime, quando acquistano “il Viagra, o preservativi e la pillola anticoncezionale”. E spesso diventano complici di amori furtivi: “Dalle questa lettera. Sai dove trovarla”.

Sulle montagne capita che ricevano richieste insolite. Una volta un autista di Andes, nel dipartimento di Antioquia, è stato avvicinato da un uomo dall’aspetto misterioso, che gli si è rivolto a bassa voce: “Voleva che cercassi una persona al parco e che le portassi delle munizioni per la pistola. Ho avuto paura e quello stesso giorno ho chiesto all’azienda di spostarmi su un altro tragitto”, dice l’autista.

Dopo aver costeggiato un precipizio per mezz’ora, la Paisita attraversa una zona di piantagioni di canna da zucchero e arriva in un campo di caffè dai chicchi ancora acerbi. Più avanti spuntano tre case di canne con i tetti di fango. Avvicinandosi, l’autista nota un uomo alto e magro con il machete sul fianco, gli stivali di gomma e un cappello liso a tesa larga. Dice tra sé e sé: “Dev’essere lui”, e preme sul freno.

“Lei è Jairo?”, chiede Fredy.

“In persona”.

Dipartimento di Antioquia, ottobre 2019. Una chiva attraversa una zona in passato controllata dalla guerriglia - Joaquín Sarmiento, Afp/Getty ImageS
Dipartimento di Antioquia, ottobre 2019. Una chiva attraversa una zona in passato controllata dalla guerriglia (Joaquín Sarmiento, Afp/Getty ImageS)

“Le mandano dei chiodi e del filo spinato dal ferramenta”.

Poi riparte. Ora guida sull’orlo di una gola. Sotto, nascoste dalla nebbia, ci sono le cupole argentate della chiesa e il villaggio dove Fredy torna ogni sera con la lista delle commissioni dei contadini. Oggi per prima cosa deve andare a pagare una messa per il trigesimo di un defunto.

Accostamenti di colore
Sudovest di Antioquia e nord di Caldas
Gilberto e Zarco (azzurro, per i suoi occhi chiari) hanno perso il conto delle chivas che hanno decorato nei dipartimenti di Caldas e Antioquia. I loro disegni viaggiano di villaggio in villaggio: si macchiano del fango secco dei sentieri, sono rigati dai rami o nascosti dalla polvere estiva e si scoloriscono sotto il sole e la pioggia delle montagne.

I loro disegni sono geometrici, accentuati da una gamma di colori vistosa e inattesa come le facciate delle case nelle zone delle piantagioni di caffè: azzurro acquamarina e giallo acido, verde foresta e mandarino. Il colore dà personalità al veicolo, come le piume ai pappagalli. È un grido in mezzo alla boscaglia e ai sentieri serpeggianti di montagna. La chiva dev’essere riconoscibile da lontano: ecco la Consentida! Oppure: “Mamma, corri che la Reina è già all’altezza dell’albero di guayaba”.

“Avrà più di trenta colori”, spiega Gilberto Castañeda, di Aguadas, silenzioso e introverso. Traccia le prime linee sulla carrozzeria che el Llanero esibirà sui sentieri di Pácora.

“La sera mi sdraio e mentre mi addormento penso a come dipingere la chiva. Vedo i colori. Appena mi alzo prendo in mano il pennello”.

Zarco lavora così. Vive a Pensilvania, dove ci sono diciotto chivas di quelle che chiamano Carebola (paffuta), per la forma del cofano. Oggi sta ritoccando un tettuccio arancione che si è rigato per i rami, due giorni fa ha dipinto di un verde stridente il paraurti di una Dodge e domani gli arriverà una Ford per dei ritocchi in rosso Ferrari.

Le chivas non sono state sempre così appariscenti. Le prime che circolavano a Medellín erano molto semplici: due colori di fondo e, a volte, una striscia laterale. Partivano dalla piazza del mercato di Cisneros e salivano con merci e passeggeri su nelle zone di montagna.

Poi i proprietari hanno perso la paura del colore: arancio per i fianchi, blu cobalto per il predellino, giallo canarino per il tettuccio. Gli autisti chiedevano sempre nuovi modelli e combinazioni. Volevano anche santi, madonne e paesaggi di montagna. Moda, religione e terra. Facevano a gara a chi aveva la chiva con più vernice e più lampadine. Così è nata quell’inusuale pigmentazione che attraversa i sentieri più accidentati della regione delle piantagioni di caffè.

Accoglienza
Sudovest di Antioquia
Guarda l’alba: il sole non è ancora spuntato, ma si nota già come brilla dietro quelle vette blu. Vedi la linea dorata sul profilo delle montagne? Quella è la cordigliera. Dall’altra parte c’è Jericó. Quello sì che è un bel villaggio. Da ragazzo ho avuto una fidanzata di Jericó, ero uno che girava moltissimo. Lavoravo in una piantagione di caffè vicino al villaggio e le domeniche andavo in centro. L’ho conosciuta così. Una mattina sono salito sulla chiva e mi sono trovato davanti la sua faccia da gatta, con gli occhi color caffè, misteriosi, inquieti, e i capelli biondi, mossi, come i filamenti del mais. Era una vera bellezza. E molto intelligente. Ci dovevamo sposare, ma poi si è trasferita lontano con una zia.

Quando finisce questo boschetto ti faccio vedere dov’è la mia terra. C’è una sorgente di acqua cristallina sopra i pascoli. Devi venire a visitarla uno di questi giorni. Ho delle mucche, due mule, delle galline e dei maiali quasi pronti da ammazzare. L’anno scorso ho seminato più caffè, una varietà resistente ai parassiti così non bisogna usare troppo insetticida. Ho anche avocado, arance, gulupas. Facciamo prima se vieni a trovarmi, così ti faccio vedere tutto.

Vedi quella valle? Qui davanti, in fondo, dopo questo bosco di yarumos e questa piccola gola. Quelle sono le mie terre. Guarda i campi di caffè. Vedi la casa con il tetto di tegole? Io vivo lì con mia moglie e una figlia. Ormai abitiamo qui da anni, e stiamo bene, in pace. In passato abbiamo sofferto molto. Era arrivata della brutta gente da fuori. Erano armati. Siamo dovuti andare via, a Medellín. Abbiamo lasciato tutto qui: gli animali, il raccolto. Abbiamo perso tutto. Ma quella gente se n’è andata diversi anni fa. Nessuno l’ha più vista. È tornata la tranquillità e ci siamo rimessi a coltivare i campi. Oggi si vedono passare le chivas piene di gente e di cose. E non è ancora il periodo della raccolta del caffè, quando c’è più movimento.

Io scendo dove ci sono quei bambù, laggiù in fondo. C’è un sentiero che porta fino alla mia terra. Lo vedi? È il sentiero di terra nera che scende in mezzo al pascolo. Qui si può andare in giro tranquilli. Non succede nulla. E quando fa buio basta chiedere ospitalità a un contadino, sicuramente non te la negherà. Anzi, ti offrirà anche la colazione e la merenda. Da queste parti siamo così.

Preghiere e pallottole
Montagne di Caldas e Antioquia
La chiva che arriva da Pensilvania, nel dipartimento di Caldas, ha superato l’ultima salita e pochi minuti dopo il rumore del suo clacson rimbalza contro le facciate della strada principale di Arboleda, un villaggio arroccato tra le montagne, nel nord della regione.

Il tragitto dura circa sei ore, sull’orlo di precipizi e valli seminate a caffè, banane e altra frutta, sempre in mezzo a gole strette dove in fondo, invariabilmente, brillano le acque cristalline di un fiumiciattolo.

“Prima questo viaggio era un incubo”, mi aveva detto un passeggero vestito con un poncho, un cappello bianco e un coltello sul fianco, quando ci siamo fermati a fare colazione a Puerto Buñuelo, un punto sperduto della cordigliera.

L’incubo di cui parlava l’uomo non erano i burroni che fiancheggiano la strada, ma i gruppi armati, la guerriglia e i paramilitari che si contendevano buona parte del territorio colombiano, soprattutto le zone rurali, con i loro sentieri stretti e sterrati su cui transitano le chivas.

Sulla piazza principale di Arboleda, proprio dove ora scendono una ventina di passeggeri stanchi e insonnoliti, svettano tra i pini un’araucaria e degli alberi di melarosa. Su un piedistallo sono incisi i nomi di un sergente, un vicecaporale e dieci agenti di polizia uccisi nel 2000, durante un attacco compiuto da circa trecento guerriglieri.

Gli abitanti raccontano che il villaggio fu quasi distrutto dall’attacco, durato poco meno di due giorni. I combattenti avevano mitragliatrici ed esplosivi. Le chivas e le altre macchine non potevano passare perché i guerriglieri si erano appostati nelle case che si trovavano lungo la strada che arriva da Pensilvania, attraversa Arboleda e prosegue verso Nariño e Sonsón, nel dipartimento di Antioquia.

Questo succedeva più di vent’anni fa. Prima i paramilitari e poi i guerriglieri delle Farc hanno deposto le armi in seguito a un accordo con il governo colombiano. E Arboleda, come altri villaggi di montagna dove riescono ad arrivare solo le chivas, è stato ricostruito. La tranquillità si respira nella musica del cantante venezuelano Pastor López che si sente in lontananza, nei contadini con i fagotti e gli attrezzi sulle spalle e nelle risate stridule dei ragazzi che escono da scuola, pronti a salire sulla chiva per tornare verso i villaggi disseminati lungo la strada.

Autisti e aiutanti raccontano dei posti di blocco e dell’uccisione di colleghi o passeggeri, che erano obbligati a scendere dal veicolo, e degli avvertimenti lapidari quando se ne andavano: “Qui nessuno ha visto nulla”, intimavano.

E in effetti gli autisti non vedevano nulla e non sentivano nulla. Si raccomandavano solo al cielo per il viaggio successivo e proteggevano i fianchi della chiva con una legione di santi, angeli e madonne; le innaffiavano con l’acqua benedetta, le pulivano delicatamente, attaccavano scapolari sulla leva del cambio o sullo specchietto retrovisore ed erano devoti partecipanti alle processioni della madonna del Carmine.

La chiva annuncia con il suo clacson che torna verso Pensilvania, passando dai villaggi lungo la strada. Gli ultimi passeggeri salgono correndo. Il conducente si fa il segno della croce, mette la prima e preme sull’acceleratore. ◆ fr

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Questo articolo è uscito sul numero 1420 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati