Il 1 gennaio 1994 un amico che chiamerò Andrés ebbe la sfortuna di essere morso da un cane rabbioso. Doveva sottoporsi a un trattamento di quattordici iniezioni, uscì di casa per andare in farmacia e s’imbatté in un’altra forma di rabbia: l’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) aveva preso la città di San Cristóbal de Las Casas, in Chiapas, nel sud del Messico. Da allora Andrés non ha mai smesso di viaggiare per lo stato. Quel giovane che a vent’anni percorreva strade senza elettricità in cerca di un farmaco, oggi ha trovato una cura contro lo sconforto grazie al movimento che ha trasformato le condizioni di vita della regione e ha influenzato le lotte sociali di molti altri paesi. Prima delle proteste di Seattle e di Porto Alegre, i maya dei nostri tempi avevano già invitato a lottare contro i disastri della globalizzazione.
Alla fine del 2023 sono andato con Andrés al caracol (“chiocciola”, il nome delle comunità autonome zapatiste) Dolores Hidalgo. Durante il tragitto abbiamo parlato delle minacce che tengono in ansia il Messico. Il tratto da San Cristóbal a Ocosingo, teoricamente pattugliato dagli agenti della guardia nazionale, era considerato pericoloso; da Toniná a Dolores Hidalgo, invece, avremmo attraversato un paese nel paese, dove convivono logiche diverse. Nelle zone zapatiste esistono villaggi che non sono zapatisti. La strada era interrotta da dossi che ci obbligavano a frenare accanto a bancarelle dove si vendevano bibite di ogni tipo. Abbiamo visto un negozio di polli arrosto, una chiesa di Cristo, una casa con un immenso stemma della squadra del Guadalajara e la stella rossa dipinta su assi di legno, a indicare che la regione era zapatista.
Abbiamo anche trovato striscioni di accoglienza con frasi scritte nel tipico stile ironico che da sempre contraddistingue l’Ezln. Uno diceva “Svegliatevi, dormiglioni”, un altro “Perché sei qui? Ci stai o non ci stai?”.
Uno striscione imitava i cartelli stradali e annunciava che al caracol mancava un chilometro. Alcuni viaggiatori ci hanno creduto e sono scesi dai camion che gli avevano dato un passaggio. Ma gli zapatisti giocano con il tempo e lo spazio. Il fuso orario è un’ora avanti rispetto al centro del paese e i chilometri per loro possono essere un’ipotesi o uno scherzo. Chi ha scelto di proseguire a piedi ha dovuto chiedere un altro passaggio. La meta zapatista non è quantificabile: si rivela quando la raggiungi.
Il paesaggio, ricoperto da pini che si alternano a palme, sembrava una citazione di Goethe: le colline ci circondavano con la loro imponenza, ma “su ogni cima imperava la calma”. Andrés ha improvvisato un aforisma per spiegare la tranquillità del posto: “La gente si prende cura della gente”. Non poteva succederci nulla se eravamo in tanti e, soprattutto, se eravamo benvenuti.
Il 29 dicembre 2023 quasi novecento persone si erano registrate all’università della terra di San Cristóbal per partecipare al doppio anniversario zapatista: quarant’anni di lotta e trent’anni d’insurrezione. Nel 1994 l’Ezln prese San Cristóbal de Las Casas e altre zone vicine per protestare contro l’entrata in vigore dell’accordo di libero scambio tra Messico, Stati Uniti e Canada (Nafta), che favoriva il libero mercato da cui erano esclusi i più poveri del paese. Chiedevano un trattamento dignitoso che mettesse fine a cinquecento anni di oblio: “Mai più un Messico senza di noi”.
A differenza della convenzione di Aguascalientes, che nell’agosto 1994 aveva riunito seimila persone della società civile nella foresta del popolo tojolabal, questa volta i partecipanti non erano solo stranieri. I tagli alla moicana e i tatuaggi della classe media internazionale si mescolavano con i sombreri, i cappellini da baseball e i tessuti regionali del Messico. Le espressioni estreme del mondo globale e dell’universo locale si sono ritrovate sulla spianata verde di Dolores Hidalgo.
Una delle prime dichiarazioni sui festeggiamenti metteva in guardia sulla violenza che dilaga in Chiapas: blocchi stradali, richieste di denaro per l’uso dei terreni, sequestri ed estorsioni. Viaggiare attraverso lo stato significa subire diverse forme di abuso. Chi è arrivato in aereo a Tuxtla Gutiérrez, il capoluogo del Chiapas, e ha noleggiato un’auto ha scoperto che “non ce n’erano più”. Invece di offrire un’altra auto al prezzo già pagato, le agenzie hanno chiesto cinque volte tanto per l’“unico” furgone disponibile. Nelle zone più remote la corruzione si manifesta in altri modi: il villaggio di Oxchuc, tra San Cristóbal e Ocosingo, si è trasformato in una frontiera difficile da attraversare. L’esistenza di problemi reali ha dato vita a una protesta fatta di posti di blocco dove si chiede denaro per sopravvivere e continuare la lotta. Con il tempo, il mezzo è diventato un fine.
L’abitudine di bloccare il traffico ha fatto scuola. Improvvisamente, quattro o cinque bambini piazzano dei rami in mezzo alla strada e li rimuovono solo in cambio di qualche moneta per un presunto “lavoro di pulizia”. Sono i lievi fastidi di uno stato in cui i migranti che arrivano dall’America Centrale sono vittime di rapimenti che condannano le donne a prostituirsi e gli uomini a fare da sicari.
Quanto basta
Nonostante le difficoltà per arrivare, alla fine c’erano più di mille pellegrini. La prima cosa di cui si parlava davanti ai chioschi di legno di Dolores Hidalgo, che offrivano caffè e tamales fumanti (involtini a base di mais ripieni), era l’enigma dell’arrivo. I comunisti di Nayarit, uno stato nell’ovest del paese, avevano viaggiato a piedi per venticinque ore, uno sforzo immane ma minimo se confrontato ai racconti di chi era arrivato dalla Grecia, dall’Italia e dalla Germania, per non parlare di chi veniva dall’Iran. Itinerari molto complessi avevano permesso a tutti di unirsi alla marea multicolore di tende da campeggio, di avere ottimi pasti a prezzi bassi, di sopportare il disagio del terreno ammorbidito dal fango e la sfida delle latrine. Non c’è pellegrinaggio senza ricompensa, ma nemmeno senza penitenza.
Il caracol Dolores Hidalgo è sorto appena tre anni fa ed è scarsamente popolato. Ci sono poche tracce di vita umana nell’enorme valle che si estende verso un imponente faraglione di colline dritte verde bluastro ricoperte di vegetazione. Il 30 dicembre aveva piovuto, la nebbia oscurava il cielo e nuvole bianchissime scendevano a cascata sulle vette circostanti. Che tipo di persone partecipavano all’evento?
Abbiamo viaggiato insieme ai Payasos en rebeldía (Pagliacci in rivolta). Sono di Lugo, in Spagna, e cercano di far riflettere la gente attraverso la risata in posti dove la realtà cospira contro l’umorismo. Di recente, per esempio, sono andati nella Striscia di Gaza. I pellegrini arrivati da lontano erano tanti quanti i nativi che s’incontravano per la prima volta. Nell’ambulatorio del caracol ho ascoltato un dialogo tra un uomo e una donna che procedeva con rispettosa lentezza, come se ogni domanda sfociasse in un’altra domanda. Dopo un po’ ho saputo che lui parlava tzeltal, la variante maya locale, mentre lei tzotzil, perché veniva dagli altipiani del Chiapas. Gli ho chiesto se riuscivano a capirsi. “Quanto basta”, ha risposto l’uomo con un sorriso. Eravamo in un territorio di segni e rappresentazioni in cui avremmo capito “quanto basta” senza che molte cose perdessero il loro mistero.
Gli zapatisti sono organizzati in caracoles, l’equivalente dei comuni. Fino a poco tempo fa erano gestiti dalle cosiddette giunte di buon governo. Alla fine del 2023 l’Ezln si è ristrutturato introducendo i governi autonomi locali (Gal). Invece di avere un “capoluogo municipale” dove si decide la gestione pubblica, ora ogni villaggio può avere un Gal. Nella zona zapatista ci sono abitanti dei villaggi che non appartengono all’Ezln, e questa nuova forma di organizzazione permetterà di avere amministrazioni condivise. L’idea è evitare spostamenti eccessivi per risolvere questioni burocratiche e controllare in modo più orizzontale e sicuro un territorio sotto minaccia permanente. Prima di arrivare a Dolores Hidalgo ho visitato il sito di Toniná con Juan Yadeun, un archeologo che lavora nell’area da 43 anni e ha ricostruito piramidi di altezza senza precedenti nel mondo maya. Il suo lavoro ha suscitato polemiche, come succede spesso in una professione in cui le congetture hanno la meglio sulle certezze. Altri archeologi preferiscono consolidare le scoperte senza intervenire su di loro. Le conoscenze di Yadeun in materia di archeologia, astronomia e numerologia, e la sua passione nel metterle in pratica, gli hanno permesso di ricreare una cittadella non solo spettacolare, ma anche perfettamente verosimile.
Ogni piramide è un orologio di pietra che misura il funzionamento del cosmo. Sui lati, 52 gradini sommano il “fascio degli anni” del mondo mesoamericano. Ogni lato ha una scala, ma solo una conduce al tempio. È possibile salire e scendere dagli edifici senza sosta, rendendo il percorso una forma di preghiera. Secondo Yadeun, i caracoles zapatisti sono legati a quest’area archeologica: “Per i maya, caracol equivale a città”, mi ha detto con il suo solito entusiasmo. Abbiamo visitato il giardino della sua casa, dove ha riprodotto le piramidi in modelli di cemento bianco. “La grande porta sulla facciata del museo di Toniná è un caracol che dà accesso alla piazza circondata da quattro piramidi, simile all’arco d’ingresso di Labná” (nello Yucatán). A Toniná gli edifici seguono l’orientamento della croce maya, che rappresenta l’intersezione della Via Lattea con le altre galassie. Nella cosmogonia locale, la stella polare si trasformò in un uccello che, avvicinandosi alla Terra, si trasformò a sua volta in Sole, generò calore e consentì la nascita di altre specie tra cui le vipere: un antecedente, secondo Yadeun, dello stemma nazionale messicano.
Ogni sito archeologico contiene indizi sull’origine. Vere o false, scientifiche o leggendarie, le spiegazioni alludono a un mondo di cui si è persa la chiave di accesso. La possibilità di controversie moltiplica il numero d’interpretazioni. Il caracol che abbiamo visitato non è meno misterioso delle quattro direzioni del cielo e dei tre livelli di realtà del mondo maya.
A Toniná, una struttura senza finestre fungeva da scuola serale. Lì gli astronomi si abituavano all’oscurità per affinare la vista; quando tornavano all’aria aperta in cerca di stelle, i loro occhi erano preparati a vedere meglio. Anche a noi servirebbe una cosa del genere, ma non esiste una scuola serale per i movimenti sociali.
Rappresentare la realtà
Il 30 dicembre 2023, sulla spianata verde di Dolores Hidalgo, grande come tre o quattro campi da calcio, sono andate in scena alcune opere teatrali, con il palco principale a un’estremità e piccole tribune di legno coperte da foglie di palma ai lati.
Lo zapatismo si è affermato negli spazi agricoli che producono fagioli, cacao, caffè, mais, miele e coriandolo, che migliora gli stufati delle città del Chiapas. La sua idea di progresso va contro la storia dello sfruttamento agricolo. Ne ho parlato con Carlos González, avvocato del consejo indígena de gobierno (consiglio indigeno di governo). Poco tempo fa la legislazione zapatista ha approvato una nuova norma: la non proprietà della terra. Invece di collettivizzare il territorio, la natura è considerata l’unica proprietaria della terra. Solo se necessario, e chiedendo il dovuto permesso, può essere trasformata in materiale di lavoro.
González è abituato a occuparsi di dispute che si tramandano di generazione in generazione e che derivano da torti commessi ottanta o cent’anni fa. Ha appena recuperato 2.585 ettari che erano stati sottratti al popolo huichol. “Gli allevatori sostenevano che le terre non appartenevano ai nativi perché questi non le avevano mai coltivate”, spiega.
È un’idea basata su una mancanza di comprensione dei popoli indigeni, che non si concentrano sullo sfruttamento massimo della natura, ma sulla sua conservazione. Non si tratta di terre “incolte”, ma preservate.
Gli zapatisti usano gli stessi criteri per proteggere la biodiversità. La biologa Julia Carabias, che è stata ministra dell’ambiente, delle risorse naturali e della pesca dal 1994 al 2000 e ora lavora alla stazione Chajul, nella Selva Lacandona, mi ha detto: “Gli zapatisti hanno gestito molto bene le foreste temperate, dove crescono pini e querce. Ottengono la legna che gli serve senza distruggere l’ecosistema”.
Le rappresentazioni teatrali messe in scena da diversi caracoles hanno affrontato la questione del possesso della terra. In uno degli spettacoli, una ragazza esclama: “Dobbiamo cambiare il mondo!”, ricevendo una risposta di distanziamento brechtiano: “Questo è teatro”. La ragazza allora risponde che anche il teatro cambia la realtà.
Il 31 dicembre, poco prima delle undici di sera secondo il fuso orario del Messico centrale (mezzanotte zapatista), è cominciata la celebrazione dell’anniversario dell’insurrezione. Senza grandi cerimonie, un corteo di centinaia di miliziane e miliziani ha marciato al ritmo della cumbia. Non portavano armi se non i bastoni che battevano a ritmo di musica. Se una parata militare è soprattutto un’esibizione di forza, in questo caso la coreografia era una disciplinata esibizione estetica. Quando hanno ricevuto l’ordine di rompere le righe, le miliziane sono passate dalla marcia alla danza.
Maestri delle aspettative, gli zapatisti hanno fatto salire l’attenzione con l’attesa. Dal 23 ottobre hanno parlato dell’anniversario con messaggi diretti, lirici o allegorici. In un comunicato, il subcomandante Moisés annunciava che l’incontro sarebbe stato “proprio lì, dietro la collina”. Non era facile capire l’allusione. La citazione si riferiva al filosofo popolare messicano José Alfredo Jiménez, che in Camino de Guanajuato canta: “Allí nomás tras lomita / se ve Dolores Hidalgo” (Proprio lì, dietro la collina / si vede Dolores Hidalgo). Ma quasi nessuno sapeva che in Chiapas esiste un caracol con quel nome.
Dopo venti comunicati, lunghe peripezie per raggiungere un luogo senza connessione internet né localizzazione su Google maps, una notte in tenda su un terreno bagnato di pioggia e un’intera giornata di opere teatrali, ci aspettavamo una sorta di miracolo. Anche se l’alcol è proibito nelle zone zapatiste, i balli, le risate e gli abbracci scambiati avevano prodotto una felice ebbrezza. Perfino un’amica sopravvissuta alle prove della dittatura e ai travagli della guerriglia, che ha sviluppato un sottile senso di paranoia e trova soddisfazione nella rabbia, sembrava contenta. È in questo clima di comunione che il subcomandante Moisés ha preso la parola.
Dopo aver rinnovato la comunicazione con un efficace teatro di gesti, un fiume di storie, proclami e aforismi, e avventure particolari come l’invio di sette zapatisti in Europa in barca a vela, l’Ezln è passato a un’altra variante del discorso: l’ermetismo. Non si tratta di occultamento: la sua trama simbolica è decifrabile, ma richiede chiavi di lettura nuove per essere compresa.
Normalità eccentrica
A metà degli anni novanta visitarono la regione tra gli altri Oliver Stone, José Saramago, John Berger, Danielle Mitterrand e Manuel Vázquez Montalbán. In quel periodo il subcomandante Marcos rilasciava interviste ai principali mezzi d’informazione internazionali. Oggi, per ragioni insondabili, l’Ezln evita la pubblicità.
Nel 2014 Marcos è scomparso come figura politica ed è diventato Galeano, in omaggio a un insegnante zapatista ucciso quell’anno. Per alcuni, in questo modo ha sprecato il capitale mediatico accumulato nei vent’anni precedenti. Ma ha anche dimostrato che la causa non era legata a una figura carismatica. Diventando Galeano, Marcos ha smesso di essere il portavoce dell’Ezln e ha perso protagonismo. È riapparso come Marcos nel 2023, con il grado di capitano, forse in allusione a compiti difensivi. Curiosamente molte delle persone che lo accusavano di aver favorito l’idolatria oggi hanno nostalgia della sua presenza iconica.
Pochi leader fanno il passo indietro di Marcos. Il suo gesto ha confermato che lo zapatismo non cerca di occupare spazi di potere, neanche al suo interno. “Per noi, niente” o “Aiutateci a scomparire, a non essere possibili” sono alcuni degli slogan più ripetuti. Ma l’allontanamento di Marcos dalle telecamere e dai microfoni ha indebolito la comunicazione zapatista e oggi l’Ezln ostacola anche le conferenze stampa e le interviste. Nel 2021, 150 zapatisti sono arrivati in Europa come parte di una “squadriglia aerea” per creare dei legami con i collettivi che difendono il territorio e la biodiversità. Non hanno agito in segreto, ma non hanno nemmeno cercato di rendere visibile il loro lavoro. Ne ho parlato con Andrea Cegna, giornalista italiano impegnato in un’associazione zapatista a Brescia che scrive per il manifesto e Il Fatto quotidiano. “Non capisco bene il nuovo rapporto con i mezzi d’informazione”, mi ha detto a Dolores Hidalgo. “Il subcomandante Moi ha tenuto una conferenza stampa a Vienna, ma poi non è stato possibile parlare con loro. E non mi riferisco all’atteggiamento verso i giornali generalisti, ma verso quelli indipendenti, che li hanno sostenuti. Vogliamo diffondere le loro idee, ma non sempre possiamo”. Questo ripiegamento rimane un enigma: i giocolieri si sono volontariamente legati le mani? Il loro silenzio è una cassa di risonanza per quello che hanno già detto? Aspettano un altro momento per ritrovare la loro eloquenza?
Pensiero collettivo
Il 30 dicembre i mezzi di informazione non hanno avuto accesso a Dolores Hidalgo. La giornata è stata dedicata alla presentazione di spettacoli di teatro. Non c’erano ragioni evidenti per tenere lontani i giornalisti, e questo ha contribuito ad accrescere la perplessità: eravamo davanti a una rara variante del proselitismo, che alimenta il desiderio attraverso il divieto? Le nuove linee di comando diffidano dell’apertura con cui si agiva in passato?
Gli zapatisti, esperti di comunicazione, ora privilegiano lo smarrimento, una forma di comunicazione alternativa.
Erano attesi vari oratori, tra cui Marcos o una delle tante donne che hanno accompagnato la campagna presidenziale della nativa Marichuy Patricio nel 2017 e nel 2018. Tuttavia, solo Moisés è apparso sul palco, con i comandanti seduti alle sue spalle. Non ha rievocato gli anni di lotta in toni festosi o epici né ha fatto annunci sul futuro del movimento. Per venti minuti ha parlato in tzeltal, improvvisando passaggi che poi ha tradotto in spagnolo. Si è riferito alla vocazione pacifista dello zapatismo, ma anche alla sua determinazione a difendersi, e ha parlato degli assenti, ricordati con delle sedie vuote: dalle donne che vogliono conoscere la sorte dei loro figli ai caduti nella lotta, passando per gli antenati che chiedono giustizia dall’oltretomba.
Le sue parole sono state chiare e prevedibili. Quello che abbiamo sentito era normale, ma gli zapatisti di rado lo sono. Ho pensato al romanzo di Erich Maria Remarque dal titolo volutamente ambivalente: Niente di nuovo sul fronte occidentale. Lo stupore principale derivava dalla mancanza di notizie. Gli zapatisti consegnavano una busta urgente, ma la lettera dovevano mettercela i destinatari. Tutto questo non ha smorzato l’entusiasmo dei presenti.
Grazie allo zapatismo, da trent’anni siamo entrati in contatto con altri modi di valutare la rappresentazione degli eventi. Iván Prado, del gruppo Payasos en rebeldía, mi ha raccontato il suo stupore nei primi contatti con il pubblico dei caracoles: la gente non rideva. Prado pensava che lo spettacolo non gli piacesse, ma alla fine della rappresentazione gli hanno spiegato la causa del silenzio: “Se ridiamo, smettiamo di capire”. Il dramma della commedia è che, quando tocca il pubblico, scatena risate che rendono impossibile seguire lo spettacolo; quello che si guadagna in empatia si perde in significato. Un anno dopo Iván è tornato in Chiapas. Chi l’aveva ascoltato in silenzio ha recitato puntualmente le sue battute.
Jordi Savall, virtuoso della viola da gamba, racconta di aver ricevuto in Chiapas il più grande elogio per un concerto, quando un nativo gli ha detto: “Mentre l’ascolto, sento di amare di più mio figlio”. Questa traslazione delle emozioni – grazie a una cosa sentirne un’altra – racchiude l’essenza dell’arte. Un’altra esperienza particolare c’era stata al festival cinematografico al caracol di Oventik nel 2018 in occasione della prima messicana del film Roma, di Alfonso Cuarón. Durante la scena del parto, molti zapatisti si sono portati le mani sotto i passamontagna per asciugarsi le lacrime. Nonostante questa prova di empatia, gli europei che assistevano alla proiezione sentivano che mancava qualcosa: volevano ascoltare l’opinione delle comunità. È normale pensare che ogni spettatore si relazioni individualmente a quello che guarda, ma gli zapatisti hanno altre convenzioni. Alla domanda sul film, hanno risposto: “Dobbiamo riunirci per sapere cosa pensiamo”.
Un francese che lavora per il festival di Biarritz mi ha detto che gli sembrava un atto di censura: ogni spettatore doveva essere libero di esprimersi. Ma la ragione di questo comportamento era un’altra. Nella maggior parte delle comunità indigene il significato è costruito collettivamente. È solo attraverso la discussione di gruppo che si chiariscono le idee; quello che uno pensa è irrilevante rispetto a quello che si pensa in comune. In fondo, la pratica non è troppo lontana da ciò che succede anche nelle città. Quando un film è bello, se ne parla anche dopo a cena. Per questo il regista e drammaturgo argentino Mauricio Kartun dice che ogni opera di successo “fa dimenticare la cotoletta in tavola”. Riuniti davanti a un piatto parliamo non per imporre opinioni individuali, ma per capire cosa pensiamo. Quest’esercizio manca di prestigio culturale, ma spesso è più istruttivo di quello della critica specializzata.
Il raduno di Dolores Hidalgo ha affrontato la sfida della comprensione: quali messaggi ha colto il pubblico che beveva punch di frutta mentre si aggirava sulla spianata erbosa, schivando i bambini che correvano? C’erano contadini che parlavano quaranta lingue native, pensionati delle guerriglie latinoamericane, missionari dell’alterità, persone fuoriuscite da partiti politici scomparsi, europei alla ricerca di una geografia senza mappe, cristiani estranei alla gerarchia ecclesiastica, romantici dediti al compito, spesso sacrificale, di migliorare il mondo. Le uniche cose certe erano la sicurezza e il chiasso dei bambini.
Il giornalista e regista Diego Enrique Osorno è arrivato a Dolores Hidalgo per presentare La montaña, un documentario sull’avventura nautica degli zapatisti. Con lo sguardo allenato a registrare il dialogo tra la realtà e i suoi testimoni, mi ha fatto notare che durante la giornata Moisés era rimasto sul palco principale, una piattaforma di legno decorata solo con le foto dei morti zapatisti da cui ha guardato tutti gli spettacoli. In un passo suggestivo del suo discorso ha sottolineato l’importanza del modo in cui i giovani rappresentano la realtà. Ha elogiato il significato del teatro, ma ha chiesto di portare quel messaggio nel mondo concreto. E ha aggiunto qualcosa che sembrava rivolto ai visitatori: “Bisogna organizzarsi”. Per trent’anni i devoti della causa sono andati in Chiapas alla ricerca di nuova luce. La sfida che rimane aperta è essere zapatisti fuori del territorio zapatista.
Chi di noi arrivava da lontano ha avuto un’iniezione di adrenalina. In questo senso l’esperienza era pienamente giustificata. Il dubbio era cosa fare dopo, come non lasciarsi sfuggire l’esperienza, come prolungarla in condizioni e scenari molto diversi. A prescindere dal prossimo appello zapatista, possiamo organizzarci da soli?
Alcuni lo stanno già facendo. Un collettivo greco è arrivato con il calendario che vende ogni anno a sostegno dell’Ezln. I testi riprendono testimonianze di narratori orali per accompagnare il passare dei giorni. I soldi che raccolgono a favore delle comunità zapatiste è impressionante, ma soprattutto ci ricordano che la misurazione del tempo è un fatto politico.
Dall’alba del 1 gennaio 1994 gli zapatisti hanno visto passare sei presidenti alla guida del Messico. La loro lotta resiste in mezzo alle evanescenti dispute di partito. “Andiamo piano perché la strada è lunga”, dicono, per indicare che calcolano il tempo in modo diverso.
Dopo trent’anni di albe ci siamo riuniti in una regione governata dai cicli cosmici fin dall’antichità maya. Gli ordinati passaggi del Sole hanno sostenuto la causa: molto opportunamente, il futuro, il 1 gennaio 2024, è cominciato di lunedì. Il sobrio discorso del subcomandante Moisés è stato accolto da un applauso, seguito da uno scoppio. L’aria si è riempita dei razzi e dei fuochi d’artificio che non possono mancare in nessuna festa messicana.
Ho raggiunto Andrés al centro del campo. Trent’anni prima aveva sentito un altro tipo di detonazione e da allora aveva contratto la “dignitosa rabbia” zapatista. Ora la polvere da sparo era la munizione dei festeggiamenti. Le persone che venivano da lontano e da vicino, riunite per un appuntamento irripetibile, si sono messe a ballare finché il Sole non ha ristabilito il suo dominio. A poco a poco il fumo si è dissolto ed è apparsa la Luna piena. Le persone non adempiono sempre ai loro compiti, ma la coreografia astrale era perfetta. Tutto era in equilibrio. Poi una nuvola ha coperto la Luna, ricordandoci che quella notte tutto era fragile e resistente come i sogni.◆ fr
◆ Il 1 gennaio 1994 nello stato del Chiapas, in Messico, l’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) guidato dal subcomandante Marcos diede il via a un’insurrezione per protestare contro l’entrata in vigore dell’accordo di libero scambio tra Messico, Stati Uniti e Canada (Nafta). L’esercito messicano represse l’insurrezione. L’Ezln chiedeva anche il riconoscimento dei diritti delle popolazioni native. Le loro richieste, inizialmente a carattere locale, acquistarono risonanza a livello internazionale. Nel 1995 l’Ezln e il governo messicano raggiunsero un accordo per concedere più autonomia ai nativi maya del Chiapas. A marzo del 2001 gli zapatisti organizzarono una marcia fino a Città del Messico per chiedere al governo il riconoscimento costituzionale dell’autodeterminazione indigena, ma tutti i partiti si opposero. Da allora l’Ezln ha sospeso i rapporti con tutta la classe politica, anche con la sinistra. Bbc
Juan Villoro è un giornalista e scrittore messicano nato nel 1956. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Il testimone (gran vía 2016).
Iscriviti a Sudamericana |
Cosa succede in America Latina. A cura di Camilla Desideri. Ogni due settimane, il venerdì.
|
Iscriviti |
Iscriviti a Sudamericana
|
Cosa succede in America Latina. A cura di Camilla Desideri. Ogni due settimane, il venerdì.
|
Iscriviti |
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1550 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati