Liberi dai padroni umani e dai lacci della vita addomesticata, vivono la più canina delle vite da cani: dormono quando vogliono, socializzano con amici che scelgono liberamente, fanno pipì quando il bisogno chiama e mangiano quando hanno fame, sempre che riescano a trovare qualcosa da mangiare. Vagando per le strade di Chennai, nel sud dell’India, li abbiamo visti sonnecchiare sui marciapiedi da soli o in compagnia, cercare riparo dal caldo sotto un furgone, osservare i bambini che giocano sulla spiaggia o ricevere le cure dei residenti locali.
Questi cani liberi sono una parte integrante della vita di strada indiana e presentano un netto contrasto con la cultura occidentale sul possesso di animali domestici. Non solo ribaltano l’immagine del cane che scorrazza fuori controllo di cui si legge negli articoli dei giornali dell’ottocento dell’Europa occidentale e del Nordamerica, ma c’invitano a riflettere in modo critico sulle nostre città sterilizzate e la nostra gestione di un mondo con una natura a rischio.
I cani liberi sono una sfida all’idea che gli animali debbano servire a qualche scopo umano. E contraddicono quella secondo cui un cane appartiene a una razza o a un incrocio di razze
I tenaci cani di strada indiani mettono in discussione anche i presunti meriti del pedigree, fondamentale nella nostra idea di allevamento. Uno di noi ha recentemente adottato Bell Kanmani, un cane di strada dalla Romania. Portandola a spasso nel Regno Unito, la sua accompagnatrice umana si trova regolarmente a dover rispondere alla domanda “Di che razza è?”. La risposta “è solo un cane” alimenta ulteriori speculazioni sul mix di razze da cui potrebbe discendere.
Essendo cresciuta in India, l’umana di Kanmani trova strana, e piuttosto inquietante, l’idea che i cani debbano per forza appartenere a una razza in particolare o a un incrocio di razze. È abituata ad animali discendenti da incroci non selezionati e che non si sentono obbligati a rispondere ai comandi. Questi cani senza proprietario o razza sono normalmente conosciuti come cani di strada o di villaggio o, come preferiamo definirli noi, cani liberi.
Spesso in occidente i cani sono legati al loro padrone con collari e guinzagli. Troppi ignorano la realtà della loro convivenza nel sud del mondo. L’India, un paese con un’importante popolazione di cani liberi, è un buon punto di partenza per osservare come condividiamo la vita di strada.
È necessario raccontarlo, dato che i mezzi d’informazione invocano sempre più spesso l’abbattimento di questi animali. L’accusa di essere pericolosi e indesiderati affonda le radici in atteggiamenti di origine coloniale e trascura le loro complesse interazioni quotidiane, spesso positive, con le persone. Descriverli ci aiuterà a riflettere su come l’umanità possa condividere il pianeta con tutte le altre creature che lo abitano.
I cani liberi rappresentano una sfida all’idea che gli animali siano al nostro servizio. E contraddicono la concezione occidentale secondo cui i cani appartengono a una razza o a un incrocio di razze. Dimostrano che questo è solo uno dei tanti modi di considerarli, anche se è quello prevalente in occidente ed è diffuso in tutto il mondo.
L’idea che i cani “legittimi” debbano appartenere a una razza definita da aspetti estetici e standard fisici ha origine nel Regno Unito di metà ottocento, così come i canili per la caccia alla volpe dell’alta borghesia e l’interesse della classe operaia e media per le esposizioni canine. Queste ultime, insieme alla creazione nel 1873 del Kennel club, il più antico circolo cinofilo del mondo, forniscono le infrastrutture per esporre le razze e documentarne le origini. I club e le mostre canine si diffusero in Europa e in Nordamerica, identificando i cani senza razza come inferiori, sgradevoli e degeneri. Il colonialismo mise in circolazione le sue ideologie sulla razza in Africa e in Asia. Nell’India coloniale i britannici importarono animali di “razza pura”, istituendo club cinofili e mostre canine; anche se alcuni cani indiani partecipavano alle competizioni, queste erano dominate dalle razze britanniche ed europee. Eppure i cani esistevano già prima e la maggior parte di quelli che oggi vivono sul pianeta non possono essere classificati seguendo questo criterio. Sono i cani che chiamiamo “liberi”. Altri nomi rimasti in uso sono “randagio” e “vagabondo”, termini che li hanno etichettati come disgustosi, creature che andrebbero soppresse.
In India, dove vive una delle più grandi popolazioni di cani di strada al mondo, queste dinamiche si sono manifestate in modo chiaro. Etichettati come “paria” dai britannici durante il periodo coloniale questi cani erano visti e trattati come emarginati. Paria viene da paraiyar, il nome di una comunità oppressa nel sistema delle caste. I paraiyar, che vengono dall’India meridionale (gli attuali Tamil Nadu, Kerala e Sri Lanka) suonano il tamburo (parai in tamil) ai matrimoni e ai funerali, oltre a svolgere altri compiti umili.
Pur riconoscendoli come vittime dell’oppressione, i britannici ne disprezzavano la presunta immoralità, ubriachezza e bestialità, e scelsero di usare il termine “paria” per riferirsi a tutti gli emarginati, non solo umani. In questo contesto, i cani paria incarnavano il declino e la decadenza dell’India.
Nel 1926 visitando Patan, nel Gujarat settentrionale, lo scrittore e teologo Alban G. Widgery si lamentava sul Times of India di come questa ex roccaforte del dominio Rajput fosse ormai tristemente nota come il regno di “rivoltanti” cani “randagi, pigri e rognosi”, che erano “una minaccia e un problema”. Widgery attribuiva alla comunità giainista della città la responsabilità di questo pietoso stato delle cose. Il rispetto spirituale dei giainisti verso ogni forma di vita impediva un’efficace gestione dei cani: “È motivo di stupore che i seguaci di una religione i cui asceti si distinguono per pulizia ed etica della gentilezza tollerino queste condizioni”. Per Widgery, le apparenti contraddizioni e l’irrazionalità delle credenze religiose indiane avevano generato un’emergenza sanitaria pubblica e uno spettacolo ripugnante.
Questo punto di vista era tutt’altro che isolato e il termine “paria” era usato su giornali, nei rapporti ufficiali e nei libri dell’epoca coloniale. Definiva i cani di strada nel Regno Unito e nelle colonie. Considerati insignificanti, questi animali diventavano i bersagli dei soldati britannici di stanza in India, che si divertivano a sparargli.
La parola “randagio” ha ulteriormente marginalizzato i cani di strada indiani, marchiandoli come creature che si erano allontanate dal posto dove dovevano rimanere, cioè all’interno di un’abitazione umana. I britannici introdussero il termine nella legislazione indiana, considerando i “cani randagi” come sostanzialmente illegittimi, al contrario di quelli da compagnia. Le autorità municipali, incitate dai giornali, adottarono leggi che sottoponevano i cani liberi a sequestro e abbattimento. In tutta l’India coloniale si cominciò a usare metodi diversi per uccidere i cani: avvelenamento e fucilazione da parte della polizia o bastonate, il più delle volte inflitte da uomini di caste oppresse. A questi metodi si opposero alcuni britannici e indiani. A Bombay (l’odierna Mumbai) scoppiarono manifestazioni, proteste e scioperi quando la comunità parsi protestò contro l’inasprimento delle leggi per l’abbattimento dei cani, nell’estate del 1832.
Le autorità britanniche cercarono metodi più efficaci e meno discutibili per eliminare questi animali sgraditi. Nel canile di Madras installarono una camera di soppressione, così come in quello di Bangalore. Le uccisioni “più umane” rimanevano comunque discusse e nel 1916, quando fu introdotta una camera di abbattimento a Bombay, scoppiarono altre proteste.
Dietro il disprezzo verso i cani si celava il timore della rabbia. Pur sapendo che anche i cani da compagnia contribuivano alla diffusione di questa malattia, medici, igienisti pubblici, giornalisti e veterinari occidentali dell’ottocento la imputavano solo ai cani di strada. Marchiandoli come sporchi, malati e sregolati, sostenevano che il loro vagabondare e il loro alto numero fossero una minaccia sanitaria da affrontare con museruole, tasse per i proprietari, catture e abbattimenti. Il colonialismo diffuse questi metodi in tutto il mondo, da Singapore all’Africa meridionale. In India rimase fedele all’idea di cani paria, considerati non solo antiestetici ma anche pericolosi, giustificandone la cattura e la soppressione.
L’eredità del dominio britannico si è mantenuta anche dopo l’indipendenza, fino al 2001, quando nella legge indiana l’espressione “cani randagi” è stata sostituita da “cani di strada” e l’uccisione come metodo per limitarne il numero è diventata illegale. Le leggi sul controllo delle nascite animali del 2001, emanate dal governo centrale indiano, hanno codificato il diritto dei cani a esistere fuori della proprietà umana. I programmi di sterilizzazione e di vaccinazione antirabbica hanno sostituito l’abbattimento, anche se sono proseguite le soppressioni extragiudiziarie, come a Bangalore nel 2007 e in Kerala nel 2021.
Lo status dei cani in India è in netto contrasto con quello dei paesi occidentali, dove sono considerati randagi quando sono trovati a vagare per strada e possono essere sequestrati e abbattuti se non sono reclamati o adottati. La loro soppressione sistematica e l’introduzione della sterilizzazione hanno quasi sterminato le popolazioni di cani liberi in occidente. In paesi come l’India questi animali hanno molte più probabilità di sopravvivere rispetto a paesi come il Regno Unito, dove possono esistere solo in quanto proprietà umana.
L’idea che facciano parte dello spazio pubblico indiano si riflette anche nei termini vernacolari per indicare i cani liberi – theru nai in tamil, galee ka kutha in hindi, vidhi kukka in telugu – che significano tutti “cane di strada” e non “randagio”. Ma mentre la legge e la popolazione ne riconoscono la legittimità, le idee sul benessere degli animali e sulla salute pubblica continuano a mettere in discussione il loro status di esseri autonomi e liberi. Anche se in India non possono essere uccisi, sono spesso trattati come animali da controllare o da salvare, a volte entrambe le cose. Le norme sull’igiene, sul disturbo e sullo sviluppo fanno dei cani liberi delle creature da gestire attraverso il “trasferimento” verso luoghi e destini non specificati.
Accanto alle iniziative di salvataggio e adozione per offrire ai cani di strada i vantaggi della vita addomesticata, troviamo anche programmi di sterilizzazione e vaccinazione per contenere le nascite e ridurre la diffusione della rabbia.
Per sterilizzazione si intende la castrazione nei maschi e l’ovarioisterectomia nelle femmine, entrambi interventi chirurgici invasivi che hanno un impatto a lungo termine sulla vita di ogni animale operato. Gli effetti collaterali si sommano ai gravi danni che possono derivare dalla cattura, dal trasporto e dalla vita in canile. La sterilizzazione è comunque considerata la pratica migliore per via delle norme occidentali sulla presunta “inferiorità” della qualità di vita degli animali che non sono di proprietà dell’uomo.
Uno sguardo più attento ai cani che vivono in libertà offre un quadro diverso. Lungi dallo scroccare cibo tutto il giorno, in India passano la maggior parte del tempo a rilassarsi e a dormire (e a volte in posti insoliti, per esempio intrufolati tra due motociclette).
Questo non significa che la loro vita sia un letto di rose: devono procurarsi da mangiare, acqua e riparo senza garanzie di successo e sono soggetti a danni accidentali e intenzionali causati dall’uomo, come incidenti stradali, caccia, abbattimento e crudeltà.
Conducono comunque una vita relativamente autonoma. Possono fare la pipì e la cacca quando ne hanno bisogno e scegliere i propri amanti e amici (umani, canini, felini), giocare liberamente, restare soli quando vogliono. E hanno la possibilità di sfuggire alle attenzioni indesiderate o nocive dell’uomo, a differenza dei cani da compagnia, costretti nei confini della proprietà umana.
Le persone interagiscono con questi cani in modo complesso. La questione è particolarmente sentita a Chennai, dove, nel 2017, abbiamo condotto un sondaggio tra i cittadini per vedere quale fosse il sentimento popolare. La maggior parte delle persone con cui abbiamo parlato era indifferente: “Ogni strada ospita circa due o tre cani, ma non ci ho mai fatto molto caso”, ha detto Kanakam.
Di solito chi appartiene alle classi medie e alte li considera una scocciatura. “Non credo che in nessun altro paese del mondo esistano cani randagi. I cani hanno sempre dei proprietari”, si è lamentata Mini. Alcuni si sono spinti oltre, paragonandoli a umani che vivono e lavorano per strada, insistendo sul fatto che dovrebbero essere tutti rimossi. Questo conflitto tra le tradizioni di convivenza tra specie diverse e le nuove idee di una società più asettica ed evoluta porta a un maggiore consenso verso la sterilizzazione o l’abbattimento.
Altri, invece, avevano stretto rapporti di amicizia con gli animali. Karuppiah, una persona che vive per le strade di Chennai, ci ha detto: “Gli diamo delle gallette, così si abituano alla nostra presenza. Interagiamo, no? Quel cane gioca con noi amorevolmente, no? Dormiamo insieme. Quando ci addormentiamo, riposano sulle nostre gambe”. Velu, un addetto ai rifiuti, ha detto: “Gli do tutto il cibo che trovo nei bidoni. A volte c’è, a volte no”. Anche chi li ha definiti dei parassiti, di solito ammetteva che si tratta di creature vulnerabili che avevano il diritto di vivere in città. Come ci ha detto Gokul: “Penso che siano un fastidio. Non sono addestrati, mangiano dalla spazzatura e sparpagliano rifiuti dappertutto. Quelli che dormono nelle strade sono un problema anche per i pedoni. Però non si può semplicemente scacciarli. Anche loro hanno il diritto di vivere lì”.
La maggioranza era d’accordo sul fatto che fossero un problema (71,6 per cento), ma credeva anche che avessero il diritto di vivere nello spazio pubblico.
Esiste un patrimonio di conoscenze, soprattutto tra le persone che vivono e lavorano per strada, su come interagire con i cani liberi in modo sicuro. Ramu, un operatore ecologico, ha spiegato: “Non bisogna spaventarsi, correre o fare movimenti improvvisi. Si avvicineranno molto, ma non morderanno. Rilassatevi, se ne andranno. Continueranno ad abbaiare, ma dopo un po’ smetteranno. Parlateci. Dite cose come ‘Che vuoi?’. Oppure, con gentilezza: ‘Fai silenzio’. La prossima volta assicuratevi di dargli qualcosa da mangiare. L’importante è essere disinvolti. Non abbiatene mai paura”.
La vita dei cani di strada indiani ci sfida a esaminare la mentalità e la cultura nell’era dell’antropocene, dove l’uomo domina e la natura è assediata dalla crisi climatica e dalla distruzione degli habitat. Prima di salvare la fauna selvatica lontana, potremmo aver bisogno di osservare davvero i cani che vivono liberi, intorno alle nostre case. Possono essere una minaccia per la salute umana, ma anche contribuire al suo benessere attraverso la compagnia e le relazioni di cura reciproca. In India, i gesti quotidiani come fermarsi ad accudire due cani mentre si attraversa freneticamente la metropoli, dimostrano che la convivenza è possibile.
I cani di strada indiani offrono importanti lezioni su come condividere il pianeta con altre creature – che si tratti di lupi, orsi, serpenti o tigri – spesso più ammirate ma certamente più pericolose per noi. La convivenza implica sia la coesistenza sia il conflitto. Sul lungo periodo le interazioni possono far crescere un’etica di tolleranza reciproca su una Terra dominata dall’essere umano.
La maggior parte delle creature oggi protette o considerate fauna selvatica un tempo venivano sterminate perché ritenute minacciose o senza valore. Animali come i lupi e i castori sono perseguitati appena le loro popolazioni si riprendono grazie ai programmi di conservazione. Questo perché vivono in paesaggi dominati e modificati dall’uomo, dove non c’è memoria o conoscenza su come si condividono lo spazio e la vita.
Invece di preoccuparci solo delle specie in via di estinzione, forse dovremmo concentrarci sugli animali che vivono tra noi. Imparare a convivere e a rispettare cani, ratti, gabbiani, scarafaggi e zanzare che vivono in libertà potrebbe essere un passaggio fondamentale per imparare a proteggere leoni, panda ed elefanti. ◆ svb
Questo articolo è uscito sul sito Aeon con il titolo The free dogs of India.
Krithika Srinivasan insegna a Edimburgo, in Scozia, nel Regno Unito, alla scuola di geoscienze e dirige il centro di studi dell’Asia del sud.
Chris Pearson è professore di storia all’università di Liverpool, nel Regno Unito.
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Questo articolo è uscito sul numero 1579 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati