Quando gli chiediamo cosa voglia dire per lui l’inflazione, Yücel Parlak, un pensionato di 66 anni, ammutolisce come i pesci agonizzanti che ha nel secchio. A Istanbul, seduto sulla riva del Bosforo, strizza gli occhi fissando l’estremità della sua canna da pesca, puntata verso la parte asiatica della città. Quando un pesce abbocca, l’estremità della canna si abbassa leggermente. Parlak è deciso a non lasciarselo sfuggire. Alla fine però parla: “La crisi ha distrutto tanta gente. A me ha tolto il piacere più grande”.
Parlak è sempre venuto a pescare per hobby sulla riva del Bosforo fin da quando era piccolo. Ma ora tutto è cambiato: i pesci che prende sono diventati parte integrante della sua dieta. E se non pesca niente, a volte deve accontentarsi solo del pane. Con una pensione di 140 euro al mese Parlak non ha mai fatto la bella vita, ma con il forte aumento dei prezzi dei generi alimentari la situazione si è fatta disastrosa. Rispetto a un anno fa, un chilo di carne costa quasi tre volte tanto. E lo stesso vale, più o meno, per formaggi, yogurt e uova. Nell’ultimo anno nessun altro paese dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha registrato un aumento dei prezzi alimentari pari a quello turco. In media, i 64 prodotti alimentari più consumati sono rincarati del 150 per cento.
Parlak ha fatto l’operaio edile per trent’anni, contribuendo a rendere Istanbul quella che è oggi: una metropoli in pieno boom. “Ora i miei soldi non valgono quasi più niente e a volte mi chiedo a cosa sia servita tutta quella fatica”. Fa male, aggiunge sommessamente.
Come si vive in un paese in cui i prezzi cambiano praticamente una volta al mese e portafogli sempre più gonfi si accompagnano a carrelli della spesa sempre più vuoti? Attraversiamo la Turchia facendo le stesse domande nelle sale da tè sul mar Nero, alle fermate dell’autobus nella regione dell’Egeo e nei mercati dell’Anatolia. Le risposte sono sempre uguali, nell’est conservatore come nell’occidente liberale del paese. Quando raccontano, le persone scuotono la testa.
In una sala da tè di Istanbul un uomo spiega che per risparmiare non fa più colazione. Una donna in un mercato di Izmit dice: “Prima tornavo a casa con tre buste piene di frutta e verdura. Ora dobbiamo cavarcela con una busta sola”. E in Anatolia un fornaio ci parla dei prezzi della farina, più che quadruplicati nel giro di un anno. In Turchia l’inflazione è in crescita da diciassette mesi: è cominciato tutto durante la pandemia, quando sono aumentati i prezzi sul mercato mondiale. In Turchia, dove le importazioni superano di gran lunga le esportazioni, c’è stato un rialzo di quasi tutti i prodotti. Ma, a differenza di quant’è successo in molti altri paesi, la banca centrale turca non ha voluto aumentare i tassi d’interesse. Anzi, il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha annunciato un ulteriore abbassamento. Invece di introdurre tassi più alti per ridurre la liquidità sul mercato, Erdoğan sta destabilizzando ulteriormente la valuta nazionale, la lira, rendendola poco attraente per gli investitori. Ma a lui non interessa: pensa che l’inflazione si combatta stimolando investimenti ed esportazioni con tassi d’interesse bassi, e che solo così l’economia possa crescere ancora. Questa tesi è in contraddizione con qualsiasi dottrina economica, ma tutti i banchieri centrali che si sono opposti al presidente hanno dovuto dimettersi: negli ultimi cinque anni è successo quattro volte.
Intanto, secondo Türkstat, l’istituto di statistica turco, a settembre il tasso d’inflazione è arrivato all’83,4 per cento. Le cifre ufficiali, tuttavia, non coincidono con quelle di Veysel Ulusoy, 58 anni, economista e uno dei maggiori critici della politica economica di Erdoğan. Ulusoy insegna all’università Yeditepe di Istanbul e ha fondato l’Enag, un gruppo di ricerca sull’inflazione. Quando la stampa straniera parla dell’inflazione in Turchia, spesso cita i dati dell’Enag, perché molti dubitano di quelli ufficiali. I dati di Ulusoy sono pubblicati lo stesso giorno in cui escono quelli di Türkstat (è uno dei motivi per cui a giugno Erdoğan ha vietato la pubblicazione di statistiche che si discostino da quelle governative). E li superano di oltre il doppio. Secondo le ultime stime dell’Enag, il tasso d’inflazione è pari al 186,27 per cento.
In una delle tante giornate calde di Istanbul, Ulusoy è seduto nel suo bistrot preferito di piazza Taksim. All’ombra dei pochi alberi accanto al bar, i venditori del mercato nero cercano di rifilare profumi ai turisti, mentre qualche poliziotto gira per la piazza fumando una sigaretta dopo l’altra. Solo tre giorni prima uno dei principali quotidiani del paese ha chiesto l’arresto del professore per i dati dell’Enag. Lui si aspetta di “poter essere arrestato in ogni momento”, perché non è solo la stampa di regime, ma è proprio lo stato a esercitare pressioni sempre maggiori: “Il governo ci ha portato in tribunale quattro volte”, racconta Ulusoy. Finora, però, ha vinto tutte le cause, anche se lui non riesce spiegarsi come sia stato possibile.
Perché i suoi dati si discostano tanto da quelli dell’istituto nazionale di statistica? “Vede”, risponde Ulusoy, mentre il cameriere gli serve il caffè, “a causa dell’inflazione i prezzi delle varie tipologie di caffè hanno avuto andamenti diversi. Se nelle nostre rilevazioni tenessimo conto esclusivamente del caffè più economico, quello di produzione turca, otterremmo un tasso d’inflazione diverso da quello a cui arriviamo considerando anche il caffè d’importazione e quello solubile”. Insomma, tutto dipende dagli articoli che si mettono nel paniere dell’inflazione. Secondo il professore, è in questo modo che il governo falsifica consapevolmente i dati. Türkstat ed Enag usano lo stesso metodo per calcolare l’inflazione, ma il fatto che ottengano risultati così diversi è dovuto necessariamente ai prezzi di partenza diversi. E il governo sceglie quelli più bassi.
Passiamo una serata a Istiklal Caddesi, una delle vie commerciali più famose di Istanbul. Merve, 23 anni, piercing al naso e sul labbro, top con la pancia scoperta, si fa strada tra la folla. Sta andando nel suo club preferito. Vive con i genitori – un artigiano e una casalinga – in un piccolo appartamento nella parte settentrionale della città. “In realtà quest’anno mi sarebbe piaciuto andare via di casa, vivere finalmente da sola”, racconta. “Solo che non riesco a trovare un appartamento, gli affitti sono troppo alti”.
Secondo l’Ocse, a livello mondiale Istanbul è la città che ha subìto l’aumento maggiore degli affitti, cresciuti più del 66 per cento nell’ultimo anno e mezzo. Nel 2020 un appartamento in città costava in media 145 euro al mese, ora si è arrivati a 240 euro. Il governo ha introdotto un tetto agli affitti, ma i prezzi continuano a raddoppiare e a triplicare perché il limite non si applica ai nuovi contratti.
Spesso Merve resta in giro giorno e notte per sfuggire all’angustia dell’appartamento e della stanza che condivide con i fratelli. Indica un negozio di vestiti con le vetrine illuminate: “Ci lavoro quattro giorni alla settimana”. Racconta come si sente dietro al banco: “I turisti fanno sempre più acquisti, perché la nostra moneta vale pochissimo. Mi pare assurdo, c’è chi compra dieci o perfino venti magliette in una volta, spendendo quello che i miei genitori non possono permettersi neanche in un anno”.
La lira turca continua a svalutarsi: negli ultimi due anni ha perso più del 50 per cento e ora un euro vale 18 lire. Per questo le valute straniere non le vogliono solo le banche: se in un negozio il cassiere capisce che hai degli euro nel portafogli, tira fuori lo smartphone, divide l’importo in lire per 18 e ti offre di pagare in euro.
Le cose belle ma non strettamente indispensabili qui non le compra più nessuno, osserva Merve. La sua famiglia ha venduto i braccialetti d’oro che per tradizione la famiglia dello sposo regala alla sposa in occasione del matrimonio. Da bambina Merve era così affascinata dai grossi anelli d’oro della madre che sognava di diventare designer di gioielli, ma ora cerca solo un lavoro sicuro. Una settimana fa ha fatto domanda per un posto nella scuola di polizia. A un certo punto Merve raggiunge un palazzo stretto, bussa a una porta di legno scuro, che subito si apre di un palmo. Sussurra qualcosa ai due ragazzi che sono dietro la porta e le aprono. Poi sguscia all’interno e scompare.
Boom economico
Se chiediamo non solo dell’inflazione, ma anche delle responsabilità del governo, persone come Merve o Ulusoy abbassano la voce per paura delle conseguenze. Erdoğan, che dal 2002 in veste di primo ministro e dal 2014 come presidente ha regalato al paese il boom economico, ormai combatte per non farlo finire. Ogni giorno spiega che l’inflazione non ha niente a che fare con lui e che in fondo la Turchia non è messa peggio del resto d’Europa. Ma, se vogliamo prestar fede al governo, il tasso d’inflazione turco supera quello tedesco di 73,45 punti percentuali. O di 176,27 punti, se vogliamo dar retta a Ulusoy.
La carriera politica di Erdoğan è andata di pari passo con la rinascita economica del suo paese: negli ultimi vent’anni milioni di persone hanno lasciato le campagne per le città, dove hanno trovato lavoro nelle fabbriche sul mar di Marmara e in Anatolia. Il tenore di vita è migliorato e i finanziamenti a tassi bassi hanno trasformato contadini poveri in cittadini proprietari di automobili, televisori e condizionatori. Tra il 2002 e il 2013 il debito delle famiglie turche è decuplicato: lo zoccolo duro dell’elettorato di Erdoğan si concentra tra chi si è indebitato molto, tra gli operai soprattutto.
Ci sono suoi elettori anche a Düzce, 250 chilometri a nordest di Istanbul. Negli ultimi anni migliaia di contadini si sono trasferiti in questa cittadina circondata da colline verdeggianti per lavorare come saldatori, meccanici e magazzinieri, trasformandola in un centro economico importante con 1,5 milioni di abitanti: qui Erdoğan alle presidenziali del 2018 ha ottenuto più del 70 per cento dei voti.
A Istanbul si parla spesso dell’aumento dell’inflazione in Germania e nel Regno Unito, ma raramente si citano numeri
Tra gli operai che l’hanno votato c’è Fuat Yildrim, 30 anni, che mette in moto la sua Fiat Punto con una chiave su cui spicca una piccola bandiera turca. Si dirige verso una piccola fabbrica a venti chilometri dal centro della città per dedicarsi a un’attività che una volta considerava “sovversiva” e “sbagliata”, ma che ormai è imprescindibile: scioperare. Da otto giorni Yildrim e i suoi colleghi, assemblatori di sistemi di pompaggio nell’azienda Masdaf, lottano per ottenere salari più alti e il diritto di iscriversi a un sindacato.
Come più del 40 per cento dei turchi, Yildrim e i suoi colleghi ricevono il salario minimo, che equivale a circa trecento euro al mese: secondo la confederazione sindacale Türk-Is, la cifra è un buon 20 per cento al di sotto della “soglia di sussistenza”. Secondo le stime di Türk-Is, con l’attuale tasso d’inflazione per vivere servirebbero almeno 6.840 lire al mese, l’equivalente di 374 euro.
“Finisco i soldi il 15 del mese”, racconta Yildrim mentre percorre le strade polverose che portano fuori città. Allo specchietto retrovisore ha attaccato un rosario rosso, che tintinna piano quando l’auto sfreccia sopra le buche. Yildrim si volta di continuo verso i sedili posteriori dove sono posizionati due pentoloni che oscillano di qua e di là. “Mia moglie ha passato la mattinata a preparare sarma per i miei colleghi”. Sta portando le foglie di vite ripiene di riso alla fabbrica, che è occupata da otto giorni.
Quando è vicino allo stabilimento, suona due volte il clacson. Alcuni uomini si avvicinano all’alta recinzione di filo spinato che circonda la struttura. “Fuat, cane maledetto, ma quanto ci hai messo?”, chiede un collega ridendo, mentre un altro prende in consegna i pentoloni che Yildrim gli passa sopra la recinzione. “Sarma!”, esclamano gli operai scoperchiando le pentole.
Il loro portavoce si chiama Ridvan Ates, ha 46 anni, capelli grigi e vene sporgenti sugli avambracci muscolosi. Ates spiega che nella fabbrica ci sono 64 lavoratori in sciopero. All’inizio dormivano nelle tende, ma gli addetti alla sicurezza le hanno portate via. Poi hanno chiuso anche i bagni.
“Se dovessimo lasciare la fabbrica, la sicurezza c’impedirebbe di rientrare e saremmo licenziati”, continua Ates. “Non abbiamo più niente da perdere. Continuando a lavorare come se niente fosse non avremmo abbastanza soldi per dar da mangiare alle nostre famiglie”.
La maggior parte degli uomini dietro la recinzione vota per il partito di Erdoğan, l’Akp (Partito della giustizia e dello sviluppo). Il loro non è uno sciopero politico, dicono. Come molti altri in Turchia, credono a Erdoğan quando dice che lui non è responsabile della crisi che sta attraversando il paese.
Anche Ates ripete le parole pronunciate spesso da Erdoğan: solo restando uniti i turchi riusciranno a superare le difficoltà. Yildrim e gli altri uomini intorno a lui annuiscono. Cinque giorni dopo saranno tutti licenziati via sms.
Non tutti gli elettori dell’Akp sono così fedeli al presidente. Lo dimostrano i sondaggi, secondo i quali il partito di Erdoğan registra consensi poco inferiori al 30 per cento, il dato peggiore degli ultimi quindici anni. È stato quasi raggiunto dal maggior partito d’opposizione, il Partito popolare repubblicano (Chp). Visto che alle ultime grandi crisi economiche turche – quella del 1999 e quella del 2001 – seguirono cambi di governo, per Erdoğan la crisi in corso è una minaccia, perché l’anno prossimo si vota.
Secondo molti esperti questo spiega perché Erdoğan sta cercando di minimizzare il problema dell’inflazione. Il presidente turco si trova di fronte a un dilemma: se dovesse adattare i tassi d’interesse all’inflazione, il costo dei prestiti aumenterebbe a dismisura, gravando ulteriormente sulla domanda di beni. Diminuirebbero profitti e investimenti, mentre aumenterebbe solo il numero dei disoccupati. Anche Ulusoy ritiene che la recessione sarebbe molto rischiosa: “Per un’economia come quella turca, la cui crescita si è basata tantissimo sui finanziamenti a condizioni favorevoli, le conseguenze sarebbero fatali”. Ecco allora il dilemma di Erdoğan: inflazione o recessione. Secondo Ulusoy, Erdoğan aspetta il voto. “Fino ad allora ripeterà che lui con l’inflazione non c’entra niente”.
Strade di campagna
In effetti sui vistosi schermi pubblicitari alle stazioni dei pullman, nei centri commerciali e nelle strade di Istanbul si parla spesso dell’aumento dell’inflazione in Germania e nel Regno Unito, ma raramente si citano numeri. Secondo gli economisti turchi più critici con il governo, Erdoğan sarebbe perfino disposto a perdere la fiducia degli investitori stranieri, i quali sanno bene che i dati del governo sull’inflazione non corrispondono al vero e che il presidente si sta perdendo nei meandri di una teoria economica fai da te. Secondo Ulusoy, l’inflazione rischia di spingere il paese indietro di anni.
Ma alcune zone della Turchia sono ancora poco toccate dalla crisi. Nella regione dell’Egeo, quasi 550 chilometri a sud delle fabbriche di Düzce, sta per maturare la prima uva. Il clima mediterraneo e la fertilità della terra hanno protetto la regione dagli eccessi dell’industrializzazione. Qui sono ancora molti i piccoli agricoltori che si guadagnano da vivere coltivando frutta, mais, cotone e olive. Intorno alle strade di campagna e ai piccoli villaggi si estendono ettari di uliveti. Molti alberi sono più vecchi dello stato turco, muti testimoni di un’epoca in cui la popolazione viveva quasi esclusivamente di agricoltura.
In turco collina si dice tepecik: così si chiama anche un piccolo paese che, com’era prevedibile, sorge su una collina. Tra i circa duecento abitanti di Tepecik c’è Furkan Turkcan, 23 anni, figlio di un contadino del posto. Lui e il cugino più grande, Serdar, vanno verso il campo di famiglia, tremila ettari di terreno su cui coltivano uva e mais.
I due giovani osservano il raccolto dal trattore, si mettono a riparare una pompa e intanto ci raccontano della libertà di cui godono in campagna, dell’indipendenza economica della regione, della politica di Ankara. Sembrano dare per scontato che qui la crisi non arriverà mai.
“Per noi l’inflazione non è un gran problema”, dice Serdar. Solo il prezzo del gasolio per il trattore è aumentato un po’. “Ma tutto il resto di quello che ci serve per vivere o lo coltiviamo noi o lo barattiamo con gli altri abitanti del villaggio. Così riusciamo perfino a risparmiare”, aggiunge. I due contadini sperano che Erdoğan perda le elezioni del 2023. “Soprattutto la politica estera aggressiva non può portare a nulla di buono”, spiega Serdar.
In effetti da qualche mese i toni di Erdoğan nei confronti di greci, curdi e armeni si stanno inasprendo. Il presidente punta su mezzi tradizionali: una politica estera aggressiva per rafforzare la coesione interna dei turchi.
Ma a quest’equazione, così efficace in passato, si è aggiunta una variabile: i turchi sono sempre più arrabbiati. Molti cittadini non sembrano ancora in rotta con il presidente. All’inizio di ottobre Erdoğan ha fatto di nuovo appello all’unità dei cittadini, dichiarando che l’inflazione non sta danneggiando la Turchia. Per lui, chiunque la veda diversamente scambia una pulce per un cammello. ◆ sk
◆ Il 20 ottobre 2022 la banca centrale turca ha ulteriormente tagliato il costo del denaro, abbassandolo dal 12 al 10,5 per cento nonostante l’inflazione ormai superiore all’83 per cento. L’istituto ha dichiarato che potrebbe esserci un altro taglio a novembre. La politica monetaria intanto permette a Recep Tayyip Erdoğan di finanziare generosi interventi pubblici. L’obiettivo è rafforzare i consensi in vista delle elezioni del 2023. Il presidente turco ha appena presentato un progetto da cinquanta miliardi di dollari che prevede sussidi all’acquisto della prima casa. Ma è solo l’inizio di una poderosa campagna di investimenti. Cnbc, Financial Times
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Questo articolo è uscito sul numero 1484 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati