Michela Murgia ha da poco raccontato la sua malattia, il suo avvicinarsi inesorabilmente alla morte. È stata una delle persone più importanti della mia vita: mia figlia si chiama Morgana – la sorella potente del re Artù, che dà il titolo al podcast fatto da Murgia con Chiara Tagliaferri, poi diventato un libro – nella speranza che impari per nome ricevuto la lotta per la verità di cui Murgia è stata portatrice sana per questo paese. Molti, che non hanno avuto la fortuna di conoscerla personalmente, si sono detti “spiazzati” dalla sua lucidità. Ma perché? Michela Murgia ci ricorda che si muore, che ci si ammala, e che la vita umana non è niente di più che una vita animale: aver rimosso la morte dalla dimensione del racconto, del quotidiano, ha spesso anche viziato un’idea del vivere che invece per lei è sempre stata chiara. Militate, godete di ogni attimo, non sforzatevi di piacere ma dite sempre ciò che pensate, non ragionate troppo sul risultato finale perché il percorso è più interessante e può, come in questo triste caso, finire improvvisamente. Ogni tanto nel mondo vengono mandati altri animali, chiamiamoli pure “alieni”, a ricordarci che il senso della vita sta anche nel suo terminare: intanto, come ha fatto Murgia nei suoi cinquant’anni, si deve ballare al ritmo di una musica che proviene solo dal proprio cuore. “Sii legge solo a te stesso”, diceva Kant, ed è così che vivono animali rari, speciali, e troppo spesso fragili come Michela Murgia. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1511 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati