A lle 7.36 del 28 aprile Francia Márquez Mina, femminista, attivista per i diritti umani e l’ambiente e candidata alla presidenza della Colombia con il movimento indipendente Soy porque somos, ha twittato: “Oggi sciopero per la vita, la dignità e la pace”. Il paro nacional, lo sciopero nazionale che dura da più di un mese, contesta il progetto di riforma fiscale presentato al congresso e poi ritirato dallo stesso presidente Iván Duque il 2 maggio in risposta alle rivolte sociali.

Francia Márquez è una delle migliaia di giovani che scendono in piazza fin dal primo giorno. Trentanove anni, pantaloni attillati, maglia con la scritta “Black lives matter”, zaino di tela, orecchini e braccialetti artigianali e capelli ricci raccolti sopra la testa.

Se dovessimo riassumere la sua candidatura in una sola frase potrebbe essere: prendersi cura della vita

Francia Márquez ha partecipato alle proteste a Bogotá per poi spostarsi nel sud­ovest del paese, a Cali, città in cui vive con i suoi due figli e da cui continua a seguire le manifestazioni. Ricorda la prima giornata di questa mobilitazione, organizzata per rivendicare il diritto all’istruzione, al lavoro, al salario minimo e per chiedere l’attuazione dell’accordo di pace con i guerriglieri delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc), la fine dei massacri degli attivisti e il ritiro dal parlamento del progetto di legge sul lavoro e la sanità: “Ho l’impressione che ci sia un popolo che nonostante le avversità sceglie la piazza come teatro di resistenza contro una politica di morte imposta dallo stato”, spiega Márquez. “È stato doloroso vedere così tanti giovani che piangevano e mi abbracciavano dicendo: ‘Grazie per essere qui con noi, siamo stanchi, la pandemia che viviamo non è solo quella del covid, è quella della fame, dei proiettili’. Ma mi ha anche riempito di speranza. Ho visto un popolo disposto a cambiare il corso della storia”.

Durante l’intervista su Zoom, Francia Márquez indossa un turbante giallo, azzurro e rosso. Ha lo sguardo attento e l’espressione solenne. A differenza di quello che farebbero gli altri candidati alla presidenza colombiana, mentre parla non si ripete, non ricorre a frasi fatte o a promesse altisonanti. Il tema delle origini ricorre spesso nei suoi discorsi.

Márquez è nata nel 1982 a Yolombó, nel dipartimento di Cauca, nel sudovest del paese. Il suo villaggio si trova all’interno del distretto di La Toma, un territorio abitato dai discendenti degli africani che furono ridotti in schiavitù, un reticolo di fiumi e montagne, una zona ricca d’oro in cui dal seicento si praticano l’estrazione artigianale, l’agricoltura e la pesca, e che nel 1993 fu riconosciuta dal governo come proprietà collettiva di una comunità nera.

“Sono cresciuta in una comunità in cui nessuno ragionava da individuo. Quello che succede al mio vicino m’interessa. Se qualcuno muore, non è solo un problema della sua famiglia, ma un problema di tutti; se qualcuno si ammala le donne attingono al loro sapere ancestrale per trovare la cura. È solidarietà, è relazionarsi, è unione, comunità. Forse essere nati con poco ci ha regalato questa visione, ma quando dico poco parlo in termini materiali, perché in realtà siamo cresciuti nell’abbondanza”, spiega l’attivista.

Parlando della sua terra usa l’espressione “dov’è sepolto l’ombelico”, perché lì il cordone ombelicale dei neonati viene seppellito per creare un vincolo con la terra, un legame con gli antenati. O le antenate, come preferisce dire lei.

La cura della vita

La vocazione per la difesa del territorio e l’impegno femminista sono entrati presto nella vita di Márquez. In famiglia erano tutti attivisti per l’ambiente. Dalla nonna ha imparato a relazionarsi con le persone, dal nonno a riconoscere i bisogni degli altri. “Quando non c’era niente da mettere in tavola mia mamma andava al fiume a pescare, per fare in modo che i suoi figli non andassero a letto con la fame. Lavorando come domestica e nelle miniere si è consumata le dita per crescerci. Penso che il femminismo sia questo: prendersi cura della vita”, spiega. “Le donne mi hanno insegnato a occuparmi del territorio come spazio di vita, mentre gli uomini della famiglia mi hanno insegnato a seminare la terra e a essere solidale con gli altri nelle miniere, perché tutti dovevano tornare a casa con un po’ d’oro”.

Quest’abbondanza di risorse idriche e soprattutto di riserve d’oro fu sfruttata già nel quattrocento dalla corona spagnola, che usò gli schiavi, e poi da diverse imprese di estrazione. Ed è anche la ragione per cui, dice Francia Márquez, “ancora oggi ci uccidono, ci escludono, ci minacciano, ci allontanano dalle nostre case e ci rendono la vita impossibile”.

Nel 1994 partecipò a un’azione collettiva per impedire la deviazione del fiume Ovejas, accampandosi per alcune notti accanto al fiume, cullata dal mormorio delle sue acque. Dietro questo progetto c’era l’azienda spagnola Unión Fenosa, che voleva deviare il fiume per aumentare la capacità della diga Salvajina, costruita a Suárez nel 1985 per produrre energia elettrica e prevenire le inondazioni controllando il flusso del fiume Cauca, il secondo più importante del paese.

La Corporación autónoma regional di Cauca cominciò i lavori promettendo alle comunità indigene, afrodiscendenti e contadine investimenti per l’istruzione, la sanità e le infrastrutture. Neanche la metà delle promesse fu mantenuta. “Alla comunità dissero semplicemente: ‘Dobbiamo costruire una diga, vi pagheremo qualcosa per la terra’. E la obbligarono a vendere”, ha raccontato Francia Márquez in un’intervista al quotidiano El País di Cali. Lei aveva tre anni, ma vide i suoi zii e i suoi nonni opporsi, li sentì parlare dei danni provocati dalla diga: il prosciugamento delle zone umide, l’inondazione dei campi, lo strano microclima che riduceva la resa dei raccolti.

Per questo quell’anno protestò insieme ai vicini e ai parenti, quelli che chiama “la sua famiglia allargata”, contro la deviazione del fiume. Riuscirono a bloccare il progetto grazie al primo esempio di consultazione preventiva che ha coinvolto una comunità nativa. Tuttavia sorse un problema più grande: il boom dell’estrazione mineraria. Le compagnie avevano ottenuto le autorizzazioni dallo stato, ma per Márquez quei permessi sono incostituzionali perché non sono rispettosi del territorio.

Negli anni duemila, mentre studiava all’università Santiago de Cali, Marquez lottò come rappresentante del consiglio comunale di La Toma contro quel modello e a favore di una consultazione preliminare con le popolazioni locali. Fu minacciata spesso dai paramilitari

Nel 2014 partì per un percorso di 538 chilometri a piedi fino a Bogotá insieme ad altre quindici donne, che alla fine sarebbero diventate ottanta, per chiedere al governo garanzie sulla mobilitazione delle donne nere per la tutela della vita e dei territori ancestrali, conosciuta anche come “marcia dei turbanti”. Dopo 22 giorni di proteste, il ministero dell’interno le ha ascoltate, facendo rimuovere duecento retroescavatori usati per l’estrazione illegale.

Fino all’Avana

“I diritti degli indigeni e degli afrodiscendenti sono sempre arrivati tardi e solo dopo qualche lotta”, prosegue Márquez. “Nella visione colonialista dell’élite che ci governa, i nostri diritti ostacolano il progresso. Questo pensiero nasce nell’epoca in cui fu pensato uno stato-nazione basato sul razzismo e sul patriarcato. Quando è nata la necessità di un accordo di pace con il gruppo guerrigliero delle Farc, sono andata all’Avana con un documento della popolazione nera, dicendo che volevamo partecipare a una sottocommissione etnica. Mi hanno risposto che non era possibile. Poi, con molti sforzi, ci siamo riusciti. Tuttora però siamo visti come una minaccia per lo stato. Il governo del presidente colombiano Duque non ha favorito il rispetto degli accordi di pace del 2016 nei nostri territori, da sempre minacciati dalla violenza dei guerriglieri e dei gruppi criminali. Gli accordi continuano a non essere osservati”.

Biografia

1982 Nasce nel dipartimento di Cauca, nel sudovest della Colombia.
1994 Partecipa per la prima volta a una manifestazione a difesa del territorio contro un progetto dell’azienda Unión Fenosa.
2018 Vince il premio Goldman per l’ambiente in onore del suo impegno contro le miniere d’oro illegali.
agosto 2020 Annuncia la sua candidatura alle elezioni presidenziali colombiane del maggio 2022.


Dopo l’esperienza nel consiglio comunale di La Toma, nel 2018 Márquez si è candidata per il seggio della camera dei rappresentanti riservato alle comunità afrodiscendenti, ottenendo 13.352 voti, che però non sono stati sufficienti. Dal 2020 presiede il Consiglio nazionale della pace, della riconciliazione e della convivenza, un organo consultivo del governo in cui si sente bloccata, come lei stessa dichiara: “Non mi lasciano fare niente, non ci sono i presupposti né lo spazio per voci fuori dal coro”.

In esilio

Nell’ottobre del 2014 le minacce che ha ricevuto per la sua opposizione ai progetti di estrazione l’hanno costretta a lasciare la sua casa a La Toma per trasferirsi a Cali. “L’esilio fa male, ha un impatto sulle persone. L’ho vissuto con i miei figli e ci ha fatto male, ha fatto entrare la paura nelle nostre vite. Tornare a casa nostra ci spaventava, andarci a dormire anche solo per una notte era diventato angosciante. Quando l’abbiamo lasciata per dormire in un’altra casa abbiamo passato la notte aspettando l’alba. E quando dovevamo tornare i miei figli non ci volevano più stare, avevano paura che venissero a prenderci. Questo è l’esilio: rendere insostenibile il pensiero di tornare a casa propria, in quel luogo dov’è sepolto l’ombelico. Quando siamo arrivati a Cali ai miei figli ha fatto strano scoprire che una banana costava mille pesos. A casa nostra non era così, potevamo mangiare senza bisogno di soldi”.

Quando le chiedo come sia arrivata a candidarsi alla presidenza torna a parlare del passato: “Vengo da un popolo di afrodiscendenti, ma anche da voci diverse che lottano contro situazioni d’ingiustizia. Nella mia regione d’origine il conflitto armato ha lasciato tracce. Non ci arriva l’acqua, ma i proiettili sì. Far parte di un popolo che cresce nella resistenza, che vive il quotidiano immerso nell’incertezza è ciò che ci spinge ad alzare la voce, anche se ogni volta che lo facciamo siamo martoriati dal sistema perché lo stato è in mano a una minoranza, alla supremazia bianca che ha legami con le mafie che si sono tenute strette il potere a scapito delle maggioranze. È da questa periferia che abbiamo deciso: candidiamoci alla presidenza, andiamo a prenderci questo spazio che abbiamo ceduto a loro per troppo tempo”.

Francia Márquez fa parte del Proceso de comunidades negras, una rete di organizzazioni del Pacifico, dei Caraibi e del centro della Colombia che dal 1993 s’impegna per preservare la cultura afrocolombiana e per il riconoscimento dei diritti etnici, territoriali e politici. Il movimento con cui lei aspira a diventare presidente guarda alla filosofia sudafricana ubuntu, che nelle lingue zulù e xhosa signifi­ca “umanità” o “sono perché siamo”.

Quando il 5 aprile la sua candidatura è stata sostenuta dalla Convenzione nazionale femminista, ha detto: “Sono un anello della catena e la catena non si spezza qui”. “La nostra prima sfida è costruire un programma collettivo. La maggior parte dei candidati si riunisce attorno a un tavolo con quattro, cinque persone, interroga esperti e gli esperti riportano i desideri di un paese. Quando parlo di programma collettivo immagino una partecipazione reale, anche in termini di riparazione per le ingiustizie razziali, patriarcali e climatiche. I popoli indigeni hanno una visione precisa di come creare un governo proprio, condiviso e diverso. È un’esperienza che il nostro paese non conosce ma che credo dovrebbe fare”, spiega l’attivista.

Se dovessimo riassumere la sua candidatura in una frase potrebbe essere: prendersi cura della vita, quello che le hanno insegnato da piccola. Márquez aspira a un governo veramente inclusivo, ma è conscia del fatto che nel mezzo di una pandemia che attraversa un nuovo picco di contagi, entrare a pieno in una campagna è difficile.

A un anno dalle elezioni presidenziali (il primo turno è previsto il 29 maggio 2022), non è ancora chiaro quale sarà il panorama elettorale né la lista definitiva dei candidati. Secondo i primi sondaggi, il senatore Gustavo Petro – candidato del Pacto histórico, una coalizione di partiti e movimenti progressisti e di sinistra – è in testa nei sondaggi.

Anche se Francia Márquez lo ha sostenuto nelle presidenziali del 2018, per ora rimane indipendente. Per questa scelta ha ricevuto critiche dai sostenitori di Petro, convinti che l’unico modo per sconfiggere l’uribismo (il movimento politico ispirato al pensiero dell’ex presidente Álvaro Uribe, di destra) oggi al potere sia stringere un’alleanza forte.

“Vogliamo un governo al servizio della vita, dal basso, che sappia cosa significhi patire la fame o vedere una leader assassinata, che riconosca la necessità di mettere fine alla guerra”, spiega Márquez. Quest’anno ricorre il duecentesimo anniversario dalla ley de vientres, una legge voluta dalle antenate per liberarci dalla schiavitù. Ma lo stato patriarcale ci ha rese di nuovo schiave e ci ha spinte a fare figli da mandare in guerra. Siamo ancora le stesse donne impoverite e il nostro ventre continua a essere schiavo della guerra”.

Un’idea precisa

Nel 2018 Márquez ha vinto il prestigioso premio Goldman per l’ambiente, un riconoscimento internazionale. Durante il suo discorso di ringraziamento ha detto: “Faccio parte di un processo, di una storia di lotta e resistenza cominciata dai miei antenati portati qui come schiavi”. Le sue email finiscono sempre con “un abbraccio ancestrale”.

Márquez ha un’idea precisa di cosa significa governare. “Sappiamo come prenderci cura del territorio. È la parte più importante del nostro sapere. Non credo alle storie sulle competenze, al fatto che bisogna andare a Harvard per governare. Quelli che ci sono andati non hanno imparato la lezione. Dovevano imparare a prendersi cura della vita e quello che hanno fatto è stato riprodurre la politica della morte”. ◆ cp

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Questo articolo è uscito sul numero 1414 di Internazionale, a pagina 72. Compra questo numero | Abbonati