Beatriz Médicci aveva 22 anni quando entrò per la prima volta nella sezione 4 del Comcar (oggi Santiago Vázquez), il carcere uruguaiano in cui insegna da trent’anni. Il 6 luglio 2020, nell’ex sezione 14 del Comcar, è stato inaugurato il polo educativo Beatriz Médicci. Lo hanno dedicato a lei, come riconoscimento per il suo impegno.
Médicci, che ha 53 anni, ha mosso i primi passi in alcune scuole dei quartieri benestanti. Racconta che la sua vita cambiò in modo radicale quando ricevette l’anello con l’ape in argento, il dono che si fa alle neolaureate e future insegnanti. Questo anello è il simbolo “della dedizione costante al servizio e del lavoro onesto e silenzioso”. Médicci incarna tutto questo.
“L’insegnamento mi ha sempre appassionata”, dice. “Mi sono laureata nel 1990 e sono stata assegnata al quartiere di Malvín Norte. È stato lì che ho capito quello che volevo fare nella vita. Il lavoro sul campo fatto in quella zona di Montevideo mi piaceva molto. Andavamo a visitare le famiglie ed entravamo in contatto con una realtà molto diversa dalle scuole in cui avevo lavorato prima. Poi sono passata ai quartieri di La Teja e Cerro Norte, dove sono rimasta fino al 2011, e infine a Paso de la Arena, dove lavoro ancora. Ho insegnato sempre in contesti difficili”.
Era laureata da poco quando trovò nel giornale della domenica un annuncio che attirò la sua attenzione: “Coppia cerca docente per dare lezioni al figlio in situazione particolare”. Contattò quei due genitori. La situazione particolare consisteva nel fatto che il ragazzo stava scontando una condanna al Comcar. Cominciò a fargli lezione. La paga era buona e lei si sentiva a suo agio nel ruolo. “Erano altri tempi. Il carcere era diverso, c’erano dei codici. Forse i crimini erano più brutali, ma tra i detenuti non c’erano bambini come adesso. All’epoca nel Comcar c’erano settecento persone detenute, oggi sono 3.600”, racconta.
I primi tempi portava con sé libri e materiale ciclostilato “perché le fotocopie erano carissime”. Fu un periodo molto pesante. Il Comcar fu costruito 35 anni fa. Ancora oggi la fermata più vicina all’istituto per chi arriva con i mezzi pubblici è a più di un chilometro di distanza, in una zona senza marciapiedi e difficilmente accessibile. E poi bisogna attraversare a piedi un’autostrada per arrivarci. “All’inizio alle guardie non importava nulla di cosa facevo, ero semplicemente una persona che veniva a visitare i detenuti”, ricorda. “Con il passare del tempo la situazione è cambiata, hanno cominciato a chiedermi: ‘Maestra, come sta?’. Io gli portavo torte e cose buone da mangiare. Questo mi risparmiava fastidi inutili. Portavo due torte salate e dicevo alle guardie che una era per loro, potevano scegliere quella che preferivano”.
“Dopo una perquisizione non faccio lezione. Facciamo terapia”
Per Médicci una delle esperienze che l’ha arricchita di più è stato insegnare nella sezione 4, al di là del varco 22, che separa l’ala più tranquilla del carcere dalla zona dove la convivenza tra i detenuti è più difficile. “Avere a disposizione uno spazio per ore, fino a mezzogiorno passato”, significava poter cambiare quel mondo. “Ricordo che usavamo grandi tavole su cui poggiavo libri di letteratura, storia, geografia e biologia. Tutti lo rispettavano. Per me era diventato più difficile entrare e uscire dal quartiere di Cerro Norte che entrare e uscire dal carcere di Comcar”. In Uruguay gli insegnanti che lavorano in carcere sono impiegati della Dirección de educación de jóvenes y adultos. Dipendono dalla Administración nacional de educación pública, un ente autonomo. Médicci è l’unica docente di ruolo che dipende direttamente dal ministero dell’interno. “Nel 2006 aprirono un bando per tre posizioni che facevano capo al corpo di polizia”. Il concorso consisteva in una prova pratica, ossia fare lezione in carcere, e si svolgeva al Comcar.
Un mese dopo uscirono i risultati del concorso, si erano candidati in cinquanta. Lei era arrivata prima. “Non so descriverti l’emozione che ho provato. Sono stata convocata nel carcere di Cabildo, dove a chi aveva vinto il concorso hanno chiesto di indicare una lista con le tre sedi preferite”. Lei scrisse: “Comcar, Comcar e Comcar”, perché c’era già stata e perché era vicino a casa. Ottenne il posto. “Continuo a essere l’unica insegnante di ruolo assunta come poliziotta al Comcar”.
Fuori la rabbia
Médicci prova sempre a guardare il lato positivo delle cose, anche quando gli studenti sono arrabbiati o tristi. Non dà punizioni né note. “Faccio in modo che buttino fuori la loro rabbia contro il mondo. Noi abbiamo le occasioni per stare da soli. In carcere invece l’intimità non esiste. Non ci sono momenti in cui puoi fermarti un po’ e pensare a cosa ti sta succedendo o a come potrai gestire il futuro che ti aspetta”. È per questo che “i brutti momenti devono essere superati insieme, parlando e dando più affetto possibile”. Un momento che esprime la tensione dentro il carcere è quello che segue una perquisizione. “Dopo una perquisizione non faccio lezione. Facciamo terapia. Tutti, anch’io. Dopo una cosa del genere non posso mettermi a insegnare geometria. Preferisco parlare, cercare di combattere l’angoscia”.
Dice che i suoi alunni non le hanno mai rubato neanche una matita o una gomma e che, al contrario, si prendono cura di lei e delle sue cose. “Sanno qual è il limite. Sanno che con l’insegnante non si può negoziare e che, per quanto lei ami i suoi allievi, non farà mai entrare un cellulare in carcere”. Alcuni oggetti però li ha portati, dopo aver chiesto l’autorizzazione, per esempio sapone e lampadine per leggere di notte. Tra le cose che sono cambiate dagli anni novanta a oggi, oltre al tipo di persona che finisce in carcere, Médicci racconta che c’è anche l’introduzione della figura degli educatori penitenziari. “Sono civili con i requisiti giusti e un sacco di entusiasmo. All’inizio ci sono stati momenti di rivalità tra educatori e poliziotti, mentre ora regna un clima di pace. C’è armonia”.
Un piccolo passo
“Nel quartiere di Cerro Norte ho vissuto momenti molto difficili”, ammette Médicci con espressione cupa. Ricorda le sparatorie tra le bande. “Vivevamo la ricreazione con il cuore in gola, è stato un momento durissimo”. Nonostante questo, l’anno dopo scelse di restare là. “Anche se succedevano queste cose, si lavorava benissimo. Si può fare. Ne sono sempre stata convinta. Il giorno in cui non lo penserò più, leverò le tende e me ne andrò. Credo che se tutti noi ogni giorno facciamo un piccolo passo, possiamo venirci incontro”.
Un giorno all’ospedale Maciel di Montevideo, dove andava per fare visita alla madre, una persona l’ha fermata da dietro toccandole la spalla. Era un ex studente del Comcar che stava lavorando come barelliere all’ospedale. “Un ragazzino che quando era dentro mi diceva: ‘Maestra, lo sa perché non mi taglio? Perché diventerò infermiere. E visto che in estate avrò la divisa a maniche corte, non mi taglierò mai. Ma se solo lei vedesse le cose che succedono qui dentro!’”. Se lo ricorda come “un ragazzo che nessuno andava mai a trovare”, ma che aveva la forza di volontà e l’amor proprio di quelli che sanno che usciranno. E così è stato. “I ragazzi come lui sono la minoranza, ma ti danno la forza per continuare”.
Médicci prosegue: “Quando sono entrata al Comcar è stato come vedere il mondo da una nuova prospettiva. Fare lezione agli adulti è impegnativo. Molti non hanno neanche mai messo piede a scuola, si sono persi questa fase. Io provo a fargliela recuperare. Sono tappe che vanno vissute, e anche se a volte si tratta solo di qualche mese, devono godersele”. Cerca di fare proposte adatte agli adulti, ma quando insegna il suo metodo è lo stesso che usa con i bambini. Riconosce che “non avendo vissuto un’esperienza scolastica all’età giusta, tutto diventa più difficile, imparare a leggere o a fare i calcoli è un’impresa. Fortunatamente però ci sono sempre allievi che vogliono imparare: analfabeti a marzo che a fine anno superano tutte le prove”.
Basta scambiare due parole con Médicci per rendersi conto che la vita del mondo carcerario non ha cambiato la sua indole. “Amo quello che faccio”, dice. Aggiunge che al Comcar andrebbe a lavorare anche gratis. Si commuove quando parla dei detenuti: “Li amo e glielo dico. Ci sono molti ragazzi che fin da piccoli sono etichettati come ‘il figlio del ladro’, ‘il figlio del violentatore’, ‘il figlio di…’. Quando arrivano a Comcar hanno già questo enorme stigma addosso. Ed è difficile perderlo. Il loro più grande ostacolo è l’indifferenza delle persone fuori, convinte che questo non succederebbe mai a loro o ai loro figli, quando in realtà tutti per un motivo o per l’altro potremmo finire in carcere”.
Corsi più vari
Médicci spera che la fine della pandemia arrivi presto, per tornare alla normalità e a tutto quello che ne consegue. E pensa che, in ogni caso, l’istruzione nelle carceri uruguaiane vada migliorata.
“A volte alcuni studenti restano tagliati fuori anche se seguono le lezioni. E questo perché l’istruzione avrebbe bisogno di un approccio nuovo. Oltre alle solite materie, si dovrebbe offrire una varietà di corsi, come nelle scuole a tempo pieno”. Secondo lei andrebbero approfondite di più le materie dell’ambito culturale, l’arte, la musica e la danza. E aggiunge: “Tutti noi insegnanti abbiamo la stessa missione. Sicuramente io la sento in modo molto forte, ho tanta determinazione. Ma ne è valsa la pena. E non potete neanche immaginare quanto c’è ancora da fare!”. ◆ cp
◆ 1968 Nasce a Montevideo, in Uruguay.
◆ 1990 Si laurea e comincia a lavorare nel quartiere di Malvín Norte. In seguito risponde a un annuncio per dare lezioni private a un ragazzo detenuto nel carcere di Comcar.
◆ 2006 Vince un concorso per insegnare dentro il carcere, dove lavora ancora oggi.
◆ luglio 2020 Nella prigione di Comcar viene inaugurato il polo educativo “Beatriz Médicci”, dedicato a lei.
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Questo articolo è uscito sul numero 1418 di Internazionale, a pagina 106. Compra questo numero | Abbonati