Sono passati tre anni dagli eventi più tragici della storia della Bielorussia moderna. Nell’agosto del 2020 il regime di Aleksandr Lukašenko ha represso violentemente le proteste scoppiate in seguito alle elezioni presidenziali, vinte dal presidente in carica grazie a brogli e irregolarità. Migliaia di persone sono state “guarite” dal male della dissidenza con le torture nei centri di detenzione. Nelle strade di Minsk ci sono stati morti. In seguito a processi farsa, i partecipanti alle proteste sono stati spediti in carcere e colonie penali. Solo in pochi sono riusciti a fuggire all’estero.
Mese dopo mese il regime ha stretto la sua morsa e la spirale del terrore è cresciuta a dismisura. Le autorità bielorusse hanno preso di mira anche Andrzej Poczobut, attivista della minoranza polacca del paese, giornalista e corrispondente di giornali polacchi. Poczobut è stato arrestato nel 2021 e un anno dopo condannato a otto anni di lavori forzati per “incitamento all’odio” e “propaganda nazista”. Poczobut non temeva il carcere: era finito dentro già diverse volte. Il Kgb (i servizi di sicurezza bielorussi) lo fermava quasi una volta all’anno, a volte per arrestarlo, altre per un semplice interrogatorio. Ma nel 2021 ha subito capito, insieme a più di trenta altri giornalisti arrestati, che quella detenzione aveva qualcosa di drammaticamente diverso dalle precedenti. Dai laconici messaggi trasmessi da sua moglie, sappiamo che Poczobut è sistematicamente sottoposto a torture psicofisiche e soffre di ipertensione. Si teme che non uscirà vivo dal carcere. In situazioni simili ci sono molti altri giovani giornalisti che hanno ricevuto condanne durissime, fino a dieci anni di carcere.
Nel 1994 l’arrivo al potere di Aleksandr Lukašenko mise fine al breve periodo di relativa democratizzazione della società bielorussa. Per più di due decenni il regime ha alternato periodi di repressione a momenti di distensione e relativa liberalizzazione. Ma oggi, dopo le proteste del 2020, nel paese sono calate le tenebre del terrore. Nessuno può sentirsi al sicuro e il regime – che lotta per la sua stessa sopravvivenza – ha preso la strada del controllo orwelliano della vita pubblica e privata.
Fotogramma per fotogramma
Passo in rassegna un archivio digitale con i numeri di telefono di conoscenti, scrittori, giornalisti e attivisti di ong bielorusse. E presto mi rendo conto che praticamente tutte queste persone, per lo più conosciute una decina di anni fa a Minsk o a Grodno, sono in carcere o (se hanno avuto fortunate) hanno trovato rifugio all’estero: un rifugio tutt’altro che sereno, però, se i loro cari sono rimasti in patria. Essere parente di un oppositore è ragione sufficiente per finire nel mirino dei servizi di sicurezza.
In prigione è anche il politico Pavel Sevjarynets. Nel 2020 aveva organizzato un picchetto prima delle elezioni, attività che nel linguaggio del regime si chiama “organizzazione di disordini di massa”. Per questo è stato condannato a sette anni da scontare in un carcere di massima sicurezza. Ma le autorità odiano in particolare i giornalisti. Molte testate (come il settimanale Naša Niva) sono state dichiarate “estremiste” e messe al bando. Per la sua attività giornalistica è stato arrestato anche l’attivista Pavel Mažejka, condannato a sei anni in una colonia penale di massima sicurezza per aver “favorito attività estremiste”. Non è la prima volta che Mažejka finisce in carcere. Tanti anni di lotta e le persecuzioni del regime lo hanno fatto invecchiare precocemente, ma quando gli si dice che è un “dissidente” è ancora capace di rispondere scherzando: “Ma quale dissidente…”. Anche Ales Bjaljatski, attivista per la difesa dei diritti umani e premio Nobel per la pace nel 2022, sta scontando una condanna a dieci anni in una colonia penale di massima sicurezza. Come lui, oggi si trovano in prigione molti altri cittadini bielorussi: studenti, politologi, attivisti, blogger.
Ai pochi giornalisti, o semplicemente conoscenti, che sono rimasti in libertà, non oserei mai chiedere un’intervista o anche solo un commento per un articolo. Non mi sogno neppure di scrivergli un messaggio sui social media. So bene quanto per loro sia pericoloso. I servizi di sicurezza continuano a organizzare retate di oppositori. Quando fermano qualcuno, la prima cosa che fanno è controllare i telefoni. Come prova di colpevolezza può bastare il numero di qualche contatto in Polonia, una battuta scherzosa in una chat o perfino un emoji. Nessuno che abbia partecipato alle proteste di tre anni fa può sentirsi al sicuro. Gli agenti di Lukašenko continuano instancabilmente ad analizzare filmati e fotografie di quei giorni di agosto. Fotogramma per fotogramma, vengono esaminati volti e figure nella folla. Chi è identificato, il giorno dopo si troverà il Kgb alla porta e finirà in prigione o in un campo di lavoro. Il regime non perdona i traditori.
Chiedo a un’intellettuale bielorussa che vive in Polonia come vivono i suoi familiari e gli amici rimasti in patria. Mi risponde che non vivono più, ma “lottano per la sopravvivenza”: “Certo, non siamo ancora al ‘grande terrore’ staliniano, ma quando si esce di casa è meglio non dimenticare lo spazzolino da denti”. Bisogna anche fare molta attenzione a quello che si pubblica sui social network: in nessun caso devono essere contenuti di natura politica. La politica è diventata tabù. In particolare è molto rischioso esprimere solidarietà all’Ucraina. Molte persone sono state incarcerate a causa di post su Facebook. Il risultato è che i bielorussi portano con sé un telefono “sterile”, cioè accuratamente ripulito da messaggi, chat e foto. Al lavoro non parlano con nessuno. Tacciono in metropolitana e nelle riunioni di famiglia (è più sicuro così, perché in ogni famiglia non solo c’è sempre almeno una persona in carcere, ma anche un informatore o un dipendente del Kgb). “La gente ha smesso di avere opinioni”, mi scrive l’intellettuale bielorussa. E nessuno crede più in un futuro migliore.
Assicurando il suo appoggio alla Russia nella guerra contro l’Ucraina, la Bielorussia è diventata un vassallo di Mosca. Dal punto di vista politico Lukašenko dipende da Vladimir Putin. Se perderà il potere sarà perché lo ha deciso il presidente russo. In ogni caso è difficile immaginare che il suo posto sia preso da un leader più democratico e che i prigionieri politici siano rimessi in libertà. ◆ dp
Małgorzata Nocuń è una giornalista polacca. Si occupa di spazio postsovietico, in particolare di Ucraina, Bielorussia e Caucaso.
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Questo articolo è uscito sul numero 1529 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati