All’alba del 10 agosto il portavoce dell’esercito israeliano ha informato i giornalisti di un attacco contro un “comando militare situato nel complesso scolastico di Al Tabaeen, che serve da rifugio per gli abitanti della città di Gaza”. Il quartier generale, ha continuato il portavoce, “lo usano i terroristi di Hamas come nascondiglio. Da lì pianificano attacchi contro i soldati e i cittadini di Israele. Per ridurre la possibilità di causare danni ai civili sono state prese misure come l’uso di munizioni di precisione, strumentazioni video e informazioni d’intelligence”.
Poco dopo sono cominciate a circolare le immagini sconvolgenti della scuola di Al Tabaeen, in cui si vedevano mucchi di carne e resti umani portati via in sacchetti di plastica. Si parlava di cento palestinesi uccisi nell’attacco, in gran parte mentre seguivano la preghiera dell’alba all’interno della struttura.
La dichiarazione del portavoce dell’esercito è indicativa della radicale trasformazione all’interno della società israeliana nei confronti della vita dei palestinesi a Gaza. L’esercito sapeva che nella scuola c’erano gli sfollati. Il portavoce non ha parlato di colpi di arma da fuoco o di razzi sparati da Hamas dall’edificio e non ha neanche detto che fosse stato dato un avvertimento. In altre parole, l’esercito ha bombardato un rifugio pieno di persone, consapevole di quali sarebbero state le conseguenze.
Nessun rimorso
Non deve sorprendere che i mezzi d’informazione israeliani abbiano fatto propria la versione dell’esercito. Quando si tratta di uccidere palestinesi, non c’è spazio per lo scetticismo: a Gaza i militari hanno sempre ragione. Ogni guerra comporta un certo livello di disumanizzazione del nemico. Ma nell’attuale operazione militare a Gaza sembra che la disumanizzazione dei palestinesi sia quasi totale.
Dopo ogni guerra combattuta dagli israeliani negli ultimi decenni c’erano sempre state manifestazioni pubbliche di rimorso. La guerra dei sei giorni del 1967 fu seguita dalla pubblicazione di un libro con le testimonianze di soldati alle prese con dilemmi morali. Dopo i massacri di Sabra e Shatila del 1982 in Libano, centinaia di migliaia di israeliani protestarono contro i crimini dell’esercito. Durante la prima intifada molti soldati denunciarono gli abusi contro i palestinesi. Dalla seconda intifada era nata l’ong Breaking the silence. Il dibattito sulla moralità dell’occupazione può essere stato ipocrita e limitato, ma almeno esisteva.
Questa volta no. L’esercito israeliano ha ucciso quasi 41mila palestinesi a Gaza, circa il 2 per cento della popolazione del territorio. Ha seminato la devastazione, distruggendo sistematicamente quartieri, scuole, ospedali e università. Centinaia di migliaia di soldati israeliani hanno combattuto a Gaza negli ultimi dieci mesi, eppure il dibattito è pressoché inesistente. I soldati che hanno parlato dei loro crimini o espresso rimorso, anche anonimamente, si contano sulle dita di una mano. Paradossalmente la distruzione che l’esercito sta infliggendo a Gaza si può vedere dalle centinaia di video girati dagli stessi soldati israeliani orgogliosi delle loro azioni e inviati ad amici e familiari.
Il generale Dan Goldfuss ha detto in un’intervista: “Non provo dispiacere per il nemico. O lo uccido o lo catturo”. A proposito della missione di giugno per liberare quattro ostaggi israeliani, in cui sono stati uccisi più di 270 palestinesi, è stato chiesto al comandante delle operazioni con i droni dell’aeronautica israeliana: “Come identificate chi è un terrorista?”. Ha risposto: “Abbiamo attaccato sul lato della strada per far andare via i civili, e chi non è fuggito, anche se disarmato, per noi era un terrorista. Tutti quelli che abbiamo ucciso dovevano essere uccisi”.
Questa disumanizzazione ha raggiunto un nuovo apice nelle ultime settimane con il dibattito sullo stupro dei prigionieri palestinesi. Yehuda Shlezinger, un “commentatore” del quotidiano di destra Israel Hayom, ha proposto su Channel 12 che lo stupro dei prigionieri sia istituzionalizzato come parte della prassi militare.
Ma il premio va al ministro delle finanze Bezalel Smotrich. Il mondo “non ci permetterà di far morire di fame due milioni di persone, anche se questo potrebbe essere morale e giustificabile finché i nostri ostaggi non saranno restituiti”, ha detto ad agosto. I suoi commenti sono stati condannati in tutto il mondo, ma in Israele sono stati accolti con indifferenza. Se i semi della disumanizzazione non fossero già cresciuti e legittimati, Smotrich non avrebbe osato dire una cosa simile.
Quando si parla della corruzione morale che l’occupazione porta con sé tornano in mente le parole del filosofo e chimico israeliano Yeshayahu Leibowitz, che nel 1968 scrisse: “Uno stato che controlla una popolazione ostile di due milioni di stranieri diventerà per forza uno stato dei servizi segreti, con tutto quello che ne consegue per lo spirito dell’educazione, la libertà di parola e di pensiero e le istituzioni democratiche. La corruzione tipica dei regimi coloniali infetterà anche Israele”.
Se guardiamo all’abisso morale in cui si trova oggi la società israeliana è difficile non riconoscere una capacità profetica a Leibowitz. Ma a un’analisi attenta le sue parole rivelano un quadro più complesso.
Processi complementari
Nel 1968 Israele era un paese ancora meno democratico di oggi. Era un sistema monopartitico governato dal Mapai (il precursore del Partito laburista), che escludeva non solo i cittadini palestinesi, ma anche gli ebrei mizrahi originari dei paesi arabi e musulmani e gli ebrei praticanti e ultraortodossi. I mezzi di informazione non criticavano quasi mai il governo. Dentro i confini della linea verde (che segna le frontiere tra Israele e Cisgiordania precedenti alla guerra dei sei giorni) oggi Israele è più progressista. Ci sono più donne in posizioni di potere, per non parlare della condizione delle persone lgbt+. Israele è un paese molto più libero rispetto all’economia centralizzata e statalista degli anni sessanta (parallelamente anche le disuguaglianze sono aumentate) ed è più connesso al resto del mondo.
Non è una contraddizione, sono processi complementari. L’occupazione non solo ha arricchito Israele (le esportazioni per la difesa hanno raggiunto la cifra record di 13 miliardi di dollari nel 2023, per esempio), ma ha anche contribuito a mantenere due sistemi paralleli di governo – colonialismo e apartheid nei territori occupati, e democrazia liberale per gli ebrei all’interno della linea verde – e forse perfino due sistemi morali paralleli.
Lo scollamento tra l’affermazione dei diritti dei cittadini israeliani e la cancellazione di quelli dei palestinesi è diventato parte integrante dello stato. Il governo fascista di Israele ha turbato un equilibrio delicato. Facendo del “liberalismo” un nemico, diversi politici hanno cercato di abbattere la barriera tra quei due mondi paralleli con una riforma della giustizia da molti considerata un colpo di stato. Gli incarichi al vertice assegnati a razzisti e fascisti come Smotrich e Itamar Ben Gvir hanno contribuito al processo.
Di fronte alle atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre 2023, quella di questi fascisti israeliani resta la voce principale nel dibattito pubblico, perché i presunti progressisti, che da anni ignorano la realtà dell’occupazione, non hanno saputo collocare la violenza di Hamas in un più ampio contesto di oppressione strutturale e apartheid. Così siamo arrivati al punto in cui nella società israeliana non esiste una vera opposizione alla disumanizzazione totale dei palestinesi.
La macchina omicida israeliana non sa come fermarsi, ha scritto la giornalista Orly Noy dopo il bombardamento della scuola di Al Tabaeen: “Va avanti per inerzia perché fermarla vorrebbe dire interiorizzare quello che ha prodotto, l’atrocità che porta la sua firma. E qui entra in gioco il ragionamento tautologico: finché uccidiamo è ovvio che meritano di morire”.
Eppure, dentro la linea verde ci sono ancora una società civile e uno schieramento progressista con una notevole influenza, come dimostrano le manifestazioni settimanali contro il governo. La questione è cosa accadrà se sarà raggiunta una tregua e la “macchina di sterminio” israeliana sarà costretta a fermarsi. Parti della società si renderanno conto che la violenza scatenata da Israele dopo il 7 ottobre, e le forze della disumanizzazione che la spingono, minacciano l’esistenza stessa dello stato?
“Il silenzio è spregevole”, scrisse Ze’ev Jabotinsky nella poesia diventata inno del movimento sionista revisionista Beitar, precursore del Likud. Il motivo per cui il premier Benjamin Netanyahu e i suoi alleati vogliono il costante rumore della guerra è chiaro. La domanda è perché i progressisti restino in silenzio. ◆ fdl
◆ Diciannove persone sono morte e decine sono rimaste ferite il 10 settembre 2024 in un bombardamento israeliano nella zona umanitaria di Al Mawasi a Khan Yunis, nella Striscia di Gaza. Israele ha affermato di aver preso di mira un “centro di comando” di Hamas.
◆ Nella notte tra l’8 e il 9 settembre alcuni raid attribuiti a Israele contro siti militari nella Siria centroccidentale hanno ucciso almeno quattordici persone. Dall’inizio della guerra civile siriana, nel 2011, Israele ha effettuato centinaia di attacchi contro le forze del presidente Bashar al Assad e i gruppi filoiraniani che lo sostengono. I raid si sono intensificati dopo l’inizio della guerra a Gaza.
◆ Tre guardie di sicurezza israeliane sono state uccise l’8 settembre dal conducente di un camion al valico di frontiera di Allenby, tra la Giordania e la Cisgiordania, che è controllato da Israele. L’aggressore è stato ucciso e il passaggio è stato chiuso fino al 10 settembre.
◆ Il 6 settembre l’esercito israeliano si è ritirato dalla città di Jenin, nella Cisgiordania occupata. Il 28 agosto aveva lanciato una vasta operazione nella parte settentrionale del territorio, dove sono attivi alcuni gruppi armati. Secondo il ministero della salute dell’Autorità nazionale palestinese, sono state uccise trentasei persone di età compresa fra i 13 e gli 82 anni.
◆ Lo stesso giorno le forze israeliane hanno aperto il fuoco per fermare una protesta contro un avamposto di coloni israeliani a Beita, un villaggio palestinese in Cisgiordania. Aysenur Ezgi Eygi, un’attivista turca-statunitense di 26 anni, è rimasta uccisa. L’esercito israeliano ha riconosciuto il 10 settembre che “molto probabilmente” Ezgi Eygi è stata colpita “involontariamente” dai suoi soldati.
◆ Sempre il 6 settembre il ministero della salute palestinese ha annunciato la morte di Bana Laboum, una palestinese di 13 anni uccisa dall’esercito israeliano mentre si trovava in casa nel villaggio di Qaryut, nel centro della Cisgiordania.
Afp, Haaretz
Meron Rapoport è un giornalista e scrittore israeliano. Lavora per Sikha Mekomit, un sito in ebraico che si occupa di democrazia, pace, uguaglianza, giustizia sociale e lotta contro l’occupazone. Il sito spesso condivide gli articoli con +972 Magazine, dove sono pubblicati in inglese.
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Questo articolo è uscito sul numero 1580 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati