Nel settembre 2020, verso la fine del suo primo mandato presidenziale, Donald Trump aveva patrocinato la firma degli accordi di Abramo tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein sul prato della Casa Bianca. Gli accordi, a cui nei mesi successivi avrebbero aderito anche Sudan e Marocco, furono presentati come “accordi di pace”, ma sarebbe stato più corretto definirli “accordi per emarginare il popolo palestinese”. Il loro obiettivo non era creare la pace – quegli stati non erano in guerra – ma piuttosto stabilire una nuova realtà regionale in cui la lotta di liberazione palestinese sarebbe stata marginalizzata e infine dimenticata.
I successivi quattro anni e mezzo sono stati i più sanguinosi nella storia del conflitto israelo-palestinese. Sei mesi dopo la firma degli accordi, durante il Ramadan, le forze israeliane hanno attaccato i fedeli alla moschea di Al Aqsa e hanno cercato di sfrattare le famiglie palestinesi dal quartiere Sheikh Jarrah di Gerusalemme, scatenando una raffica di razzi di Hamas da Gaza e un’esplosione di violenza intercomunitaria tra ebrei (sostenuti da soldati e polizia israeliani) e palestinesi, che ha travolto l’intero territorio tra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano per la prima volta dal 1948.
Nel 2022 e nel 2023 i soldati e i coloni israeliani hanno ucciso un numero senza precedenti di palestinesi e c’è stata un’impennata di attacchi agli israeliani. Poi è arrivato il 7 ottobre, la prova definitiva che cercare di mettere da parte la lotta palestinese è come ignorare uno spartitraffico: il risultato è una collisione fatale.
Corrente sotterranea
Che Trump lo capisca o meno, la sua nuova proposta dice essenzialmente: se non possiamo aggirare i palestinesi, espelliamoli. “Ho sentito che Gaza è stata una grande sventura per loro”, ha detto in conferenza stampa insieme al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu il 4 febbraio, aggiungendo che sarebbe quindi meglio se l’intera popolazione della Striscia si trasferisse in un “pezzo di terra buono, fresco e bello”.
Come prima cosa è stata esaminata la fattibilità dell’idea. Da questo punto di vista, ovviamente non regge. Le possibilità che più di due milioni di palestinesi accettino di andarsene ora sono prossime allo zero. In gran parte sono rifugiati o discendenti di rifugiati della Nakba del 1948, rimasti nei campi profughi di Gaza per 75 anni pur di non lasciare la loro patria.
La probabilità che paesi come la Giordania o l’Egitto accettino anche solo una frazione di quella popolazione è altrettanto scarsa, dato che una simile mossa potrebbe destabilizzare i loro regimi. E l’idea che gli Stati Uniti, dopo aver messo fine alle lunghe, costose e mortali occupazioni in Iraq e Afghanistan, siano ora disposti a “possedere” Gaza, a governarla e a svilupparla sembra altrettanto inverosimile.
Ma questo piano è peggiore della somma delle sue parti. Anche se non dovesse avanzare nemmeno di un centimetro, ha già avuto un profondo impatto sul discorso politico ebraico-israeliano. Anzi, sarebbe forse più corretto dire che la proposta di Trump ha attinto a una profonda corrente sotterranea della società israeliana.
Netanyahu è stato il primo a congratularsi per l’iniziativa del presidente. “Questo è il tipo di pensiero che può rimodellare il Medio Oriente e portare la pace”, ha dichiarato. Com’era prevedibile, anche i leader della destra messianica israeliana si sono affrettati a esprimere la loro gioia per la proposta, osannando le parole di Trump. Ma non sono stati gli unici.
Benny Gantz, che ha lasciato il governo in polemica per la conduzione della guerra a Gaza, ha descritto il piano di trasferimento di Trump come “creativo, originale e interessante”. Secondo Yair Lapid, capo del partito centrista Yesh atid, la conferenza stampa è stata positiva per Israele. Yair Golan, leader del Partito democratico di sinistra sionista, si è limitato a commentare l’impraticabilità dell’idea. È stato come se i politici di tutto lo spettro sionista avessero semplicemente aspettato il momento in cui la pulizia etnica avrebbe ricevuto il timbro di approvazione “made in America” prima di appoggiarla. Questo veleno della propaganda a favore del trasferimento non sparirà presto da Israele. E le conseguenze potrebbero essere catastrofiche per l’intera regione.
Anche senza l’intervento statunitense sul terreno, la sensazione che Israele si sia imbattuto in un’opportunità storica per svuotare la Striscia di Gaza dai suoi abitanti palestinesi darà un enorme impulso alle richieste dei leader di estrema destra Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, che esortano Netanyahu a far saltare il cessate il fuoco prima che raggiunga la sua seconda fase, a conquistare Gaza e a ricostruire gli insediamenti ebraici nella Striscia. Lo stesso Netanyahu è favorevole all’idea di “sfoltire” la popolazione di Gaza e potrebbe cedere a queste richieste, soprattutto nel timore di perdere la sua coalizione.
Nessun compromesso
Per quanto riguarda l’esercito israeliano, un alto ufficiale citato dal sito israeliano Ynet ha definito l’iniziativa di Trump “un’idea eccellente”. Nel frattempo, il Coordinatore delle attività governative nei territori (Cogat), l’organismo dell’esercito responsabile della supervisione degli affari umanitari a Gaza e in Cisgiordania, ha già cominciato a mettere a punto i piani. Se, per esempio, l’Egitto si rifiuta di consentire l’uso del valico di Rafah per facilitare la pulizia etnica di Gaza, l’esercito può aprire altre rotte “dal mare o dalla terra e verso un aeroporto per trasferire i palestinesi nei paesi di destinazione”.
Anche se il cessate il fuoco procedesse nelle fasi due e tre, gli ostaggi fossero tutti rilasciati, l’esercito si ritirasse da Gaza e si raggiungesse una tregua permanente, il piano di Trump non scomparirà dalla politica israeliana. Quale incentivo avrebbe un governo o un partito a spingere per un accordo politico con i palestinesi se l’opinione pubblica ebraica vede la loro espulsione come una valida alternativa? Ogni accordo, ogni cessate il fuoco, potrebbe essere considerato come nient’altro che un passo temporaneo verso l’obiettivo finale del trasferimento di massa. Le possibilità di un’efficace cooperazione politica israelo-palestinese si ridurranno notevolmente.
E perché fermarsi a Gaza? Non c’è un motivo particolare per cui la proposta di Trump non possa essere estesa ai palestinesi della Cisgiordania – un’altra area che probabilmente lui considera “una grande sventura” per loro – o a Gerusalemme Est, o perfino a Nazareth.
Dal lato palestinese, il piano di Trump non farà altro che logorare ulteriormente qualsiasi idea di riconciliazione con Israele. Con entusiasmo o a malincuore, fin dagli accordi di Oslo del 1993 (e anche prima), la leadership politica palestinese ha accettato la possibilità di vivere accanto a uno stato nato sulle rovine del proprio popolo cacciato nel 1948. Certo, questo non è mai stato lineare; ci sono stati ostacoli, ipocrisia e opposizione violenta – in particolare da Hamas – ma questo approccio è rimasto dominante per decenni.
Una volta che il presidente statunitense propone il trasferimento come soluzione al “problema palestinese”, e una volta che tutto Israele – dalla destra religioso-fascista al centro liberale e perfino alla sinistra sionista – lo accoglie, il messaggio per i palestinesi è chiaro: non c’è possibilità di compromesso con Israele e il suo alleato statunitense, almeno nella sua forma attuale, perché sono determinati a eliminare il popolo palestinese. Ciò non significa per forza che masse di palestinesi cominceranno subito la lotta armata, anche se è un esito possibile. Ma di sicuro qualsiasi leader palestinese che cerchi di raggiungere un accordo con Israele non riuscirà a mantenere il sostegno popolare. La legittimità dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) è già al suo punto più basso; entrando in un processo politico con Israele all’ombra del piano di Trump, non potrà che deteriorarsi ulteriormente.
La stessa conclusione
E il pericolo non finisce qui. Trump, nella sua totale ignoranza della realtà mediorientale, ha “regionalizzato” la questione palestinese: invece di cercare una soluzione che coinvolga gli ebrei e i palestinesi tra il fiume e il mare, ha scaricato la responsabilità sugli stati circostanti. Non solo pretende che Egitto, Giordania, Arabia Saudita e altri paesi accettino centinaia di migliaia di palestinesi nei loro territori, ma gli chiede anche di autorizzare la sepoltura della causa palestinese.
Questa richiesta è una minaccia diretta ai regimi del mondo arabo. Il governo giordano teme che un flusso significativo di palestinesi nel suo regno possa provocarne la caduta, alterando il delicato equilibrio demografico del paese, che già pende fortemente a favore dei palestinesi. Ma anche dove il legame con la Palestina è meno diretto, la situazione è altrettanto fragile. Bastava guardare i canali di informazione sauditi il giorno dell’annuncio di Trump per cogliere il senso di shock, di minaccia e di paura.
Quindici anni prima che l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) raggiungesse uno storico compromesso con lo stato di Israele, l’Egitto era arrivato alla conclusione che poteva non solo accettare l’esistenza di Israele nella regione, ma anche trarne beneficio, e aveva firmato il trattato di pace del 1979. La Giordania ha seguito l’esempio e quattro anni e mezzo fa gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Sudan e il Marocco hanno adottato la stessa linea di pensiero. Pur senza aver normalizzato ufficialmente le relazioni con Israele, il peso massimo della regione, l’Arabia Saudita, sembra aver raggiunto una conclusione simile.
Ma la mossa sconvolgente di Trump, e l’approvazione istintiva di Israele, potrebbero segnalare ai regimi mediorientali –compresi quelli etichettati come “moderati” (in realtà spesso più autoritari degli altri) – che il compromesso è inutile. Suggerisce che Israele, grazie alla sua potenza militare e al sostegno degli Stati Uniti, crede di poter imporre alla regione qualsiasi soluzione desideri, compreso l’allontanamento forzato di milioni di persone dalla loro patria e la negazione del loro diritto quasi universalmente riconosciuto all’autodeterminazione.
Nell’ultimo anno e mezzo, Israele non si è accontentato delle uccisioni di massa a Gaza e della distruzione delle infrastrutture necessarie alla vita umana. Ha anche occupato parti del Libano, rifiutando di ritirarsi in violazione dell’accordo di tregua, e si è impadronito di parti della Siria senza intenzione di andarsene presto. Questa realtà rafforza l’impressione che Israele abbia deciso di stabilire un nuovo ordine in Medio Oriente con la sola forza, senza accordi né negoziati.
La guerra del 1973 è stata l’ultima occasione in cui Israele ha combattuto contro gli eserciti di stati sovrani invece che contro organizzazioni militanti non statali, storicamente molto più deboli. Anche se i libri di testo di storia israeliani oggi affermano che Israele non ebbe alcuna responsabilità per quella guerra, non c’è dubbio che Egitto e Siria la lanciarono perché si resero conto dell’impossibilità di recuperare pacificamente i territori occupati da Israele nel 1967.
Il percorso attuale, seguito sotto l’influenza di Trump, potrebbe sfociare nello stesso risultato, cioè far concludere ai suoi vicini che Israele capisce solo la forza. Middle East Eye ha citato fonti di Amman secondo cui la Giordania è pronta a dichiarare guerra se Netanyahu tenterà di trasferire con la forza i rifugiati palestinesi nel suo territorio.
Tutto questo non è inevitabile. Molto dipende da Trump e dalla sua determinazione a mettere in pratica i suoi propositi nonostante le critiche internazionali. La resistenza deve venire non solo dai palestinesi, ma anche da quegli ebrei in Israele consapevoli di non avere futuro se non si troverà il modo di vivere in condizioni di parità con gli abitanti nativi della terra. Potrebbe anche nascere una nuova coalizione in Medio Oriente e non solo, che si rifiuti di accettare i dettami statunitensi. Per ora è chiaro che i piani bellicosi di Trump e il patetico tentativo di Israele di cavalcare l’onda rischiano di ricevere una risposta basata sulla forza. E questo sarebbe disastroso per tutti. ◆ dl
Meron Rapoport è un giornalista e scrittore israeliano. Lavora per Sikha Mekomit, un sito in ebraico che si occupa di democrazia, pace, uguaglianza, giustizia sociale e lotta contro l’occupazione. Il sito spesso condivide gli articoli con +972 Magazine, dove sono pubblicati in inglese.
◆ Il cessate il fuoco tra Israele e Hamas è in bilico dopo che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump l’11 febbraio 2025 ha minacciato “l’inferno” se il movimento estremista palestinese non rilascerà tutti gli ostaggi israeliani entro il 15 febbraio. Il giorno prima Hamas aveva minacciato di rinviare la liberazione degli ostaggi prevista il 15 febbraio nell’ambito dell’accordo, accusando Israele di averlo violato. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ordinato all’esercito di prepararsi a “tutti gli scenari” e ha inviato rinforzi intorno alla Striscia di Gaza. La prima fase dell’accordo di cessate il fuoco prevede la liberazione di 33 ostaggi israeliani in cambio di 1.900 palestinesi prigionieri in Israele. Nelle mani di Hamas ci sono ancora 73 israeliani, di loro almeno trentacinque sono stati dichiarati morti dall’esercito di Tel Aviv.
◆ L’11 febbraio il re di Giordania Abdallah II è stato ricevuto da Trump alla Casa Bianca per esprimere la sua opposizione al piano del presidente statunitense per Gaza.
◆ Il 9 febbraio la polizia israeliana ha perquisito due librerie della catena Educational bookshop, punti di riferimento culturali di Gerusalemme Est, e ha arrestato i due gestori, Mahmoud Muna e suo nipote Ahmad, con l’accusa di vendere libri contenenti “appelli all’odio”. I due sono stati scarcerati l’11 febbraio, ma dovranno restare agli arresti domiciliari per cinque giorni e non potranno tornare a lavorare per venti giorni. Le due librerie hanno riaperto il 10 febbraio. L’operazione israeliana ha suscitato un’ondata di indignazione locale e internazionale.
Afp, Haaretz
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Questo articolo è uscito sul numero 1601 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati