Da più di trent’anni la storia della tassazione delle imprese somiglia a una corsa al ribasso. Dal 1985 al 2018 l’aliquota media dell’imposta sui redditi societari è scesa a livello globale dal 49 al 24 per cento. Il taglio più netto c’è stato nel 2017, quando il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato il Tax cuts and jobs act, con cui ha abbassato l’aliquota dal 35 al 21 per cento e ha ampliato le esenzioni per i redditi esteri. Ma le aliquote fiscali sono solo una parte della storia. Le imprese fanno largo uso di esenzioni, incentivi e scappatoie, soprattutto attraverso i paradisi fiscali, dove confluisce circa il 40 per cento dei loro profitti a livello mondiale. I bilanci dell’Internal revenue service (Irs, l’agenzia delle entrate degli Stati Uniti) e di altre autorità fiscali nazionali sono stati ridotti, e i controlli sono sempre meno severi: secondo le stime del tesoro statunitense, tra il 2010 e il 2018 la percentuale delle aziende sottoposte a revisione contabile è scesa dal 98 al 49 per cento. Ad aprile è uscita la notizia che nell’ultimo anno fiscale 55 delle maggiori multinazionali degli Stati Uniti non hanno pagato neanche un centesimo di imposta sui redditi societari. Come se non bastasse, quelle stesse aziende hanno ottenuto rimborsi fiscali per 3,5 miliardi di dollari.

È un segnale importante, quindi, che a luglio 130 paesi responsabili del 90 per cento del pil globale abbiano raggiunto un accordo su una serie di misure che vanno nella direzione opposta. L’accordo, facilitato dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), parte da una cornice di riferimento abbozzata al G7 di giugno. L’elemento centrale è la global minimum tax, un’aliquota internazionale dell’imposta sui redditi societari pari ad “almeno” il 15 per cento, una novità che potrebbe segnare la fine dei paradisi fiscali. In base a una clausola dell’accordo, infatti, le multinazionali che pagano meno dell’imposta minima in un paese si vedrebbero aumentare l’aliquota fino alla soglia del 15 per cento nei paesi in cui hanno la sede principale e questi riscuoterebbero il relativo gettito.

L’accordo riflette un nuovo atteggiamento favorevole alle tasse che sta prendendo piede in molte capitali occidentali. A Washington il presidente Joe Biden ha lanciato l’American jobs plan, che propone di aumentare l’aliquota dell’imposta sui redditi societari dal 21 al 28 per cento e – aspetto altrettanto importante – di far crescere il bilancio dell’Irs di ottanta miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. A Londra il governo britannico ha annunciato che il suo programma pluriennale di tagli alle tasse non è riuscito a stimolare gli investimenti come sperato e quindi l’aliquota tornerà al 25 per cento entro il 2023, una marcia indietro clamorosa per i conservatori.

Valore aggiunto

Insomma, le prospettive a lungo termine per un aumento delle tasse sui profitti delle multinazionali non sono mai state migliori. Questa è una buona notizia non solo per chi ha a cuore la riduzione delle disuguaglianze, ma anche per chi auspica un’economia mondiale capace di produrre più valore aggiunto. Le multinazionali usano una quota sempre più alta dei loro guadagni per premiare gli azionisti invece di investire nella produttività: nel primo trimestre del 2021 cinquecento aziende hanno speso più di trecento miliardi di dollari nel riacquisto di azioni proprie e nel pagamento di dividendi. Un aumento dell’imposta sui redditi societari permetterebbe di sottrarre risorse agli usi improduttivi e di investirle nella scuola, nella ricerca scientifica, in infrastrutture per l’energia verde eccetera. Sia l’economia sia la società diventerebbero più sane.

Anche con l’aliquota secca del 15 per cento, l’Ocse stima che l’imposta minima globale garantirebbe un gettito annuale di 150 miliardi di dollari

La politica fiscale, in particolare quella internazionale, si muove come un ghiacciaio, spostandosi lentamente ma con un’enorme forza d’inerzia. L’accordo di luglio è come una crepa improvvisa nel ghiaccio che segnala uno smottamento più profondo nel terreno. In realtà, le politiche sulla tassazione stanno cambiando da più di dieci anni. La crisi finanziaria globale del 2008 ha trasformato drasticamente il dibattito su questo tema: non solo la fiducia dei cittadini nei politici e nelle élite è crollata, ma si è sgretolato anche il consenso generale sull’abbassamento delle tasse e la deregolamentazione. La crisi ha creato enormi deficit nei bilanci pubblici, che hanno spinto i governi a cercare nuove fonti di gettito fiscale. E le multinazionali (e i ricchi) sono state subito individuate come potenziali obiettivi.

Allo stesso tempo le preoccupazioni per le disuguaglianze e per i monopoli incontrollati – alimentate anche dalle informazioni esplosive emerse dai Panama papers e da altri scandali legati all’evasione fiscale – hanno dato impulso a un movimento per la “giustizia fiscale” che ha offerto soluzioni dettagliate a questi problemi. L’idea di tassare i ricchi, un tempo considerata una maledizione, è sempre più popolare, anche tra i conservatori. Perfino i dirigenti delle grandi aziende si stanno adeguando: secondo uno studio pubblicato nel Regno Unito, i responsabili fiscali di alcune multinazionali sarebbero favorevoli a un aumento dell’imposta sui redditi societari perché sarebbe “la cosa giusta da fare”.

Ma l’accordo sull’imposta minima globale non è solo il riflesso di un nuovo atteggiamento dell’opinione pubblica, è anche il frutto di un cambiamento dei principi fondamentali che regolano il sistema delle normative fiscali internazionali. Quando una multinazionale di un paese investe e fa utili in un altro, quale dei due paesi ha il diritto di tassare quegli utili? E in che misura? Negli ultimi cento anni o giù di lì la risposta più frequente è stata di considerare le multinazionali come un insieme di soggetti separati con consociate estere distinte in ogni paese. Le consociate commerciano tra loro, teoricamente a prezzi di mercato e in condizioni di libera concorrenza (quindi agendo di fatto come soggetti indipendenti), e ogni paese applica la tassazione che preferisce all’interno dei suoi confini. Con il passare del tempo, però, le multinazionali hanno escogitato sistemi ingegnosi per spostare i profitti nei paradisi fiscali e i costi nei paesi con la tassazione più alta. Un colosso tecnologico può trasferire una proprietà intellettuale in una delle sue consociate in un paradiso fiscale e poi imporre royalty salatissime per il diritto di sfruttamento di quella proprietà intellettuale alle sue altre consociate in paesi dove si pagano tasse più alte. In alternativa, può prestare soldi a una consociata a un tasso di interesse altissimo. Per la parte della multinazionale che ha sede in un paese con un’elevata imposizione fiscale, i pagamenti internazionali delle royalty o degli interessi possono essere scaricati dalle tasse come costi.

In teoria se il prezzo delle royalty o degli interessi fosse stabilito dalla libera concorrenza, questo spostamento dei profitti si manterrebbe entro limiti ragionevoli. Ma come si stabilisce il prezzo di qualcosa di unico e complesso come una proprietà intellettuale digitale o di un tasso d’interesse? Il più delle volte sono direttamente i commercialisti delle aziende a fare il prezzo, e spesso questi pagamenti internazionali sono abbastanza sostanziosi da creare le detrazioni necessarie ad azzerare gli oneri fiscali nei paesi dove la tassazione è più alta. Le normative fiscali internazionali, inoltre, favoriscono i paesi ricchi: il paese di residenza della multinazionale – tipicamente gli Stati Uniti – spesso riesce a riscuotere almeno un po’ di gettito mentre agli altri resta poco o niente.

Queste normative fiscali internazionali sono di competenza dell’Ocse, il club dei paesi ricchi che negli anni cinquanta ha opportunisticamente sottratto l’autorità alle Nazioni Unite con un colpo di mano. Nel 2013 l’Ocse ha creato il Base erosion and profit shifting project (Beps) per cercare di tappare le falle di un sistema vecchio di un secolo e fare in modo che le multinazionali pagassero le tasse in linea con il reale peso economico della loro attività in ciascun paese. Le cose, però, non sono andate come l’Ocse sperava.

Da alcuni anni gli esperti chiedono un ripensamento dei princìpi di base dell’imposta internazionale sui redditi societari: dal sistema dell’Ocse, che considera le multinazionali come entità separate che commerciano attraverso le frontiere secondo il principio della libera concorrenza, si passerebbe al metodo del formulary apportionment o “ripartizione forfettaria”. Con questo sistema, già adottato in diversi stati americani, si sommano i profitti totali realizzati da una multinazionale in tutto il mondo e poi le fette di questa “torta globale” vengono ripartite in ogni paese dove la multinazionale è presente secondo una formula che tiene conto della realtà economica locale (per esempio, una combinazione di ricavi, spese per il personale e investimenti in ogni paese). A valle di questa ripartizione ogni stato può tassare la sua fetta con l’aliquota che preferisce. Se una multinazionale ha un ufficio con un unico dipendente alle Bermuda, solo una minuscola fetta dei suoi profitti globali sarà allocata alle Bermuda. A quel punto il fatto che alle Bermuda non esiste l’imposta sui redditi societari non rappresenterebbe un grande danno per le casse degli altri stati.

Un altro sistema per adeguare l’imposizione fiscale alla realtà economica è prevedere una “imposta sui servizi digitali” calcolata non sui profitti, ma in percentuale dei ricavi. Oggi se un’azienda produce cento milioni di dollari di ricavi in Germania ma non dichiara utili (magari grazie alle scappatoie permesse dalla legge) non paga neanche un centesimo d’imposta sui redditi societari. Invece un’imposta sui servizi digitali, per esempio del 3 per cento, permetterebbe al fisco tedesco di incassare tre milioni di dollari, a prescindere dagli utili dichiarati.

Per molto tempo l’Ocse si è ostinatamente rifiutata di fare concessioni che andassero al di là del principio di libera concorrenza o di prendere in considerazione altre proposte di riforma. Quando però i tentativi di puntellare il vecchio sistema sono rimasti impantanati in mille complicazioni e questioni tecniche, l’organizzazione ha dovuto arrendersi all’evidenza che è impossibile rappezzare il sistema della libera concorrenza, soprattutto nel contesto di un’economia digitale in continua crescita. Nel 2018 l’Ocse ha cominciato a prendere atto della necessità di un’imposta minima globale, almeno a livello teorico. Quindi, nel gennaio 2019, per la prima volta ha parlato pubblicamente della necessità di “soluzioni che vadano oltre il principio di libera concorrenza”. Qualche settimana dopo, Christine Lagarde, all’epoca direttrice del Fondo monetario internazionale, ha caldeggiato questo passaggio, definendo il principio di libera concorrenza “superato” oltre che ingiusto verso i paesi in via di sviluppo, perché favorisce gli stati dove le multinazionali hanno la sede principale. Sempre nel 2019 la Francia ha fatto da apripista introducendo un’imposta sui servizi digitali del 3 per cento, e ora almeno trenta paesi hanno cominciato ad approvare unilateralmente provvedimenti simili (in base al nuovo accordo dell’Ocse, i paesi dovrebbero rinunciare all’imposta sui servizi digitali in cambio di altre plus­valenze fiscali, ma ancora non è stato fissato un termine e con ogni probabilità gli stati la manterranno).

Anche con un’aliquota secca del 15 per cento, l’Ocse stima che l’imposta minima garantirebbe un gettito annuale di circa 150 miliardi di dollari. Una variante tecnicamente più efficace e semplice, la cosiddetta “aliquota fiscale minima effettiva”, permetterebbe di raccogliere ancora di più: intorno ai 460 miliardi con un’aliquota minima del 15 per cento e 780 miliardi con un’aliquota del 25 per cento. Questa variante prevede che le autorità fiscali definiscano la percentuale degli utili globali di ogni multinazionale sottotassata rispetto all’aliquota minima stabilita. Gli utili sottotassati sarebbero quindi suddivisi nei vari paesi in base al principio della ripartizione forfettaria, per permettere a ogni stato di tassare la propria fetta di questa torta globale secondo l’aliquota che ritiene più opportuna. In questo modo quasi tutti i paesi raccoglierebbero di più, ma soprattutto i paesi a reddito più basso.

La segretaria del tesoro statunitense Janet Yellen al G7. Londra, Regno Unito, 5 giugno 2021  - Justin Tallis, Afp/Getty
La segretaria del tesoro statunitense Janet Yellen al G7. Londra, Regno Unito, 5 giugno 2021  (Justin Tallis, Afp/Getty)

Il G7 e l’Ocse hanno studiato anche un nuovo sistema per tassare le multinazionali più ricche. Al di sopra di un margine di profitto del 10 per cento, una quota tra il 20 e il 30 per cento dei profitti delle aziende sarebbe suddivisa tra i paesi in cui sono attive in proporzione ai ricavi realizzati in ogni giurisdizione e quindi tassata secondo l’aliquota stabilita da ogni stato. È una versione più timida e molto più complicata del sistema della ripartizione forfettaria. Sarebbe molto più efficace e semplice, ovviamente, applicare questo regime al 100 per cento dei profitti globali, come prevede la proposta dell’aliquota minima effettiva, ma la proposta del G7 è un inizio. La porta della ripartizione forfettaria e dell’aliquota minima globale è stata aperta. Ora si tratta di spingerla.

L’ossessione della competitività

Alla base di queste nuove politiche fiscali c’è un cambiamento più filosofico ma altrettanto profondo, che parte da un ripensamento del significato della competitività economica. In un articolo del 1994 Paul Krugman prendeva di mira l’approccio confuso alla competitività nazionale caldeggiato a Davos e in altri raduni dell’élite internazionale. Secondo l’interpretazione dominante, quando il capitale si muove in cerca di opportunità d’investimento, i paesi non hanno altra scelta che offrire incentivi per attirarlo, come la deregolamentazione finanziaria, la compressione dei salari, la protezione del segreto bancario, una normativa antitrust debole e priva di sanzioni stringenti e il taglio dell’imposta sui redditi societari.

Le argomentazioni a favore di questo tipo di competitività sembrano ragionevoli, ma a un esame più attento non reggono. Innanzitutto, la concorrenza tra stati non ha alcuna somiglianza con la concorrenza tra imprese private sul mercato. Se un’azienda che smette di essere competitiva rischia di fallire e di sparire, qual è l’equivalente per un paese? E qual è l’equivalente per un paese del profitto d’impresa? O l’equivalente per un’impresa del gettito dell’imposta sui redditi societari? È un ragionamento che non ha senso.

Ci sono due approcci principali a quella che potremmo chiamare competitività nazionale. Uno è quello che domina da anni: la corsa al taglio delle tasse, alla deregolamentazione, alla compressione dei salari e alla riduzione dei controlli per attirare capitali, che ha visto in prima fila i paradisi fiscali ma che in una certa misura è stata seguita da quasi tutti i paesi. È una strada che degenera inevitabilmente in una corsa al ribasso, con gli stati che devono continuamente aumentare gli incentivi per restare in gara. Questo approccio “per sottrazione” è stato ampiamente testato ed è stato sempre accompagnato da un aumento della disuguaglianza, dalla stagnazione dei redditi, da una crescita anemica, da un aumento della rabbia dei cittadini e da un’esplosione della criminalità organizzata internazionale.

Da sapere
Sempre più giù
Aliquote dell’imposta sui redditi societari, %  - Fonte: Tax foundation
Aliquote dell’imposta sui redditi societari, % (Fonte: Tax foundation)

C’è però un altro approccio alla competitività, che potremmo definire “per addizione”: il governo investe in infrastrutture, nella scuola e nel rafforzamento del sistema giudiziario o della normativa antitrust per stimolare la produttività e selezionare le imprese capaci di operare nel pubblico interesse. In questo modo si migliora anche la produttività interna, ma lo scopo non è “battere” gli altri paesi. Il gioco è a somma positiva: se il Canada migliora il suo sistema scolastico o introduce sanzioni più severe in caso di violazione delle norme sugli strumenti finanziari, anche i cittadini degli Stati Uniti ne beneficiano, perché se i canadesi sono più istruiti e meno esposti alle frodi finanziarie diventeranno più ricchi e compreranno più beni e servizi statunitensi.

Fortunatamente, la competitività per come l’abbiamo intesa finora sta perdendo consensi. Ha subìto un duro colpo già dopo la crisi del 2008, che fu provocata in parte proprio da una corsa alla deregolamentazione finanziaria tra New York e Londra. Dopo una breve riscossa sotto Trump (la Casa Bianca sosteneva che i tagli alle tasse avrebbero “favorito la competitività economica”) oggi l’idea sembra al tramonto. Tra gli economisti cresce la consapevolezza che né i tagli alle tasse di Trump né tentativi simili in epoche precedenti hanno portato la prosperità. Anzi, probabilmente è vero il contrario.

Analizziamo le parole che hanno accompagnato l’American jobs plan di Biden. All’annuncio del piano, la segretaria del tesoro Janet Yellen ha promosso in termini inequivocabili l’approccio “per addizione” e bocciato quello “per sottrazione”. “Gli Stati Uniti saranno competitivi se riusciranno a produrre lavoratori di talento, innovazione nella ricerca e infrastrutture all’avanguardia, e non se avranno le tasse più basse delle Bermuda o della Svizzera”, ha scritto Yellen ad aprile. “Questa è una competizione in cui escono tutti sconfitti, e né il presidente Biden né io siamo più interessati a partecipare”. Nello stesso spirito il comunicato del G7 di giugno s’impegna a “fermare una corsa al ribasso durata quarant’anni”.

L’accordo sull’imposta minima globale potrebbe non sopravvivere. I dettagli tecnici devono essere ancora definiti e approvati. Biden dovrà convincere i repubblicani al congresso, che hanno giurato di affossare l’accordo definendolo “anticoncorrenziale, antistatunitense e dannoso”. Il Regno Unito ha minacciato di esentare le banche dalla normativa. Paradisi fiscali come l’Irlanda e il Lussemburgo vedono la proposta come fumo negli occhi. Ma a prescindere dall’esito di questo particolare negoziato, siamo di fronte a uno smottamento sotterraneo che va ben oltre la questione dell’imposta sui redditi societari e che sarà impossibile fermare. Per troppo tempo le multinazionali hanno dato troppo poco, approfittando in modo parassitario dei beni pubblici pagati dalla collettività. In un modo o nell’altro, in futuro dovranno contribuire di più. ◆ fsa

Nicholas Shaxson è un giornalista britannico esperto di paradisi fiscali. Collabora con il Tax justice network. In Italia ha pubblicato Le isole del tesoro (Feltrinelli 2012).

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1423 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati