Le criptovalute non fanno bene all’ambiente. Il New York Times ha preso in esame 34 centri per l’estrazione di bitcoin negli Stati Uniti. Si tratta di attività basate sull’impiego di potenti computer, che mettono sotto pressione la rete elettrica nazionale infliggendo costi alla collettività e inquinando. Il 14 febbraio 2021, quando un blackout ha lasciato al buio e al gelo decine di migliaia di persone in Texas, in un’ex fabbrica di alluminio vicino ad Austin numerosi computer continuavano a estrarre bitcoin consumando l’elettricità sufficiente per 6.500 abitazioni. Alla fine le autorità hanno imposto alla Bitdeer, il gestore dell’impianto, di spegnere i computer. In cambio però l’azienda ha ricevuto un indennizzo di 175mila dollari all’ora e nel giro di quattro giorni ha incassato diciotto milioni di dollari, pagati dai contribuenti texani. In alcune zone la presenza delle fabbriche di bitcoin ha provocato un aumento dei prezzi dell’energia elettrica. In Texas le bollette sono cresciute del 5 per cento. Il consumo eccessivo di elettricità ha anche causato emissioni di anidride carbonica aggiuntive, come se sulle strade degli Stati Uniti avessero cominciato a circolare all’improvviso 3,5 milioni di nuove auto.
I danni dei bitcoin
Esportazioni limitate
“La Cina è in prima linea nell’estensione di divieti all’esportazione di materie prime indispensabili alla transizione energetica” come il litio e il cobalto, scrive il Financial Times. Secondo un rapporto dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), dalla fine del 2020 sono state introdotte più di tredicimila restrizioni. Il dato, aumentato di cinque volte in poco più di dieci anni, significa che un decimo delle esportazioni di queste materie prime è sottoposto ad almeno una delle restrizioni. La ricerca dell’Ocse sottolinea che sono possibili aumenti dei costi delle tecnologie necessarie alla transizione ecologica. Inoltre potrebbero cambiare gli equilibri di potere tra l’occidente industrializzato e i paesi ricchi di materie prime. Dopo la Cina, i governi che hanno introdotto più vincoli sono quelli di India, Argentina, Russia, Vietnam e Kazakistan.
Una storia di successo
“Se c’è una cosa su cui tutti gli statunitensi sono d’accordo è che la loro economia è a pezzi. Donald Trump è arrivato alla Casa Bianca nel 2016 promettendo di fare di nuovo grande l’America. Il suo successore Joe Biden sta spendendo duemila miliardi di dollari per far ripartire l’economia”, scrive l’Economist. “Gli statunitensi sono preoccupati: quasi l’80 per cento è convinto che i figli se la passeranno peggio dei genitori”. Eppure, osserva il settimanale britannico, tutta quest’ansia oscura “una straordinaria storia di successo”, una delle più durature ma allo stesso tempo sottovalutate. “Gli Stati Uniti restano l’economia più ricca, produttiva e innovativa del mondo. Stanno facendo mangiare la polvere agli altri paesi sviluppati”. Basta considerare un solo dato: il pil. “Nel 1990 gli Stati Uniti contribuivano a un quarto del pil globale. Oggi sono nella stessa situazione, anche se la Cina ha guadagnato terreno, e costituiscono il 58 per cento del pil dei paesi del G7, mentre nel 1990 erano al 40 per cento”. ◆
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