Ho trascorso gran parte della mia infanzia nei cimiteri. Non con l’animo mesto, ma nel modo in cui molte persone della comunità dei travellers* trascorrono il tempo nei cimiteri. Spesso noi traveller ci spostiamo a vivere da un luogo all’altro. Per questo quando moriamo lasciamo in terra una pietra, per indicare che siamo stati lì.
Andiamo nei cimiteri per i funerali, naturalmente, e per le messe dei quattro giorni. Ma andiamo in visita alle tombe delle persone care anche in occasione dei compleanni, nelle ricorrenze, per le feste comandate e quando la famiglia allargata viene in città. Commemoriamo ogni parente, ogni persona cara, ogni amico fraterno. Andiamo nei cimiteri per stare tra coloro che si trovano sul limitare delle nostre esperienze condivise, quando i sogni ci rammentano di loro e le canzoni intonate con tenerezza evocano il loro ricordo, mantenendoli vivi nelle storie di com’erano e di dove esistono sui rovi ispidi delle origini.
Andiamo in visita alle tombe delle persone care anche in occasione dei compleanni, nelle ricorrenze, per le feste comandate e quando la famiglia allargata viene in città
Tutte le persone libere e in salute, stanziali o travellers con il cuore abbastanza leggero da condurlo lungo le strade di Tuam, andavano sempre alla messa del 6 giugno, il giorno della festa di San Iarlath. Se abbiamo il cuore pesante non andiamo in luoghi di dolore, per evitare che il suo fardello ci faccia sprofondare.
Lì ci sono il vecchio cimitero e quello nuovo, separati da un ampio spazio pieno di sepolture senza nome del tempo della carestia. Noi ci riunivamo al centro, addossati l’uno all’altro nonostante il cimitero sia immenso, come tenuti insieme da lacci invisibili.
Nella zona occidentale del vecchio cimitero c’è un monumento in arenaria grigia fissato al muro, su cui non è impresso il nome di alcun traveller, ma che è dedicato a loro, a quelli di cui si ha memoria e a quelli dimenticati, sepolti in tombe senza lapide in luoghi anonimi nel cimitero di Tuam e nel resto del mondo.
I bambini traveller morti senza nome e non battezzati di solito erano seppelliti in terreni non consacrati, accolti dai siti ancestrali, dalle piccole fortezze, nei pressi di monumenti, pozzi benedetti e altri luoghi sacri o religiosi. In rare occasioni potevano essere sepolti nel terreno consacrato del cimitero, altrimenti interdetto perché erano morti senza un nome e senza la grazia dell’acqua battesimale. Chi aveva perso di recente un amico, un familiare o un vicino poteva deporre il proprio figlio ormai esanime ai piedi del defunto. Le piccole ceste erano condotte al loro riposo da mani note e fidate. In molte sepolture d’Irlanda, ai piedi di coloro che prima di noi hanno compiuto il viaggio, dormono neonati in fasce, al sicuro sotto le cure di custodi dal buon cuore.
In questo cimitero, non distante dalla casa della mia famiglia, crescono alcuni alberi di tasso, fiaccati dall’età, dalle intemperie e dalle sferzate del lutto di tutti quelli che gli sono passati accanto. Ricordo che da piccolo li ammiravo, figure magnifiche e solenni che affondavano le loro radici in tutto quello spazio sacro. Gli alti muri di pietra grigi e freddi e i cancelli di ferro scuro segnano le linee di confine tra il luogo dei morti e quello dei vivi.
Un anno, in un mattino di giugno che sembrava un mattino d’autunno, placido, cristallino, di un freddo pungente, il calore della gente ammirava il ritorno dei giorni dell’estate. Ricordo che quella sera chiesi a mio padre di quei tassi e lui mi raccontò la loro origine e mi spiegò come mai quasi sempre si trovano nei cimiteri.
Molti anni fa, in una data abbastanza distante da essere dimenticata ma abbastanza recente da poterne ancora parlare, c’era una giovane traveller, appena sposata, con un bellissimo bambino e una casa così piena d’amore e di cura che l’alba vi portava solo gioia e il crepuscolo non conosceva liti.
Lui lavorava nei mercati e lei tesseva merletti, e la lackeen (ragazza) dal cuore incantevole seminava risate sui suoi passi e sorrisi al suo passaggio. Le mani di lui erano ruvide ma delicate, abituate al duro lavoro, quelle di lei leggere e agili, i polpastrelli induriti dal lavoro per il pizzo di seta finissima.
Per anni vissero conoscendo solo la luce della bontà condivisa e le speranze di un futuro radioso. Un anno, tuttavia, nel profondo dell’inverno, nella loro casa arrivò una febbre fulminea e tutti e tre ne furono colpiti. Le loro membra diventarono pesanti e covavano dentro un fuoco come la legna carbonizzata di un falò da campo, come il suo fumo soffocato si affannava il loro respiro. Al secondo giorno la moglie e il bambino cedettero alla febbre. Il terzo giorno il giovane guarì, e quando rinvenne trovò che gli altri erano morti. Le sue gambe si fecero deboli, cedevoli come il legno di salice, il suo volto pallido si ricoprì di sudore come la rugiada del freddo inverno, sbiaditi erano il suo fascino e il suo calore. La morte dei suoi amati lo attanagliava svuotandolo. Sentiva il suo corpo pesante come una torba scura e umida calcata da innumerevoli piedi, fiotti di dolore dal profondo delle ossa lo colpivano quando si muoveva, il suo essere un tempo forte era diventato fragile e scabro come gusci d’uovo frantumati.
Dopo il funerale il giovane rimase sulla loro tomba finché la notte non fu trascorsa e una nuova alba cominciava a infrangersi sull’orizzonte. I suoi amici vennero per riportarlo a casa, accogliendolo nuovamente nel mondo dei vivi con la compagnia e le conversazioni lievi, con il poitìn (distillato irlandese) per consolare il suo cuore e buon cibo per ristorare il suo animo ferito.
Il giorno dopo l’uomo tornò al cimitero finché i suoi amici vennero e, di nuovo, lo portarono a casa. Ogni giorno la scena si ripeteva. L’uomo si alzava dal letto e vagava fino alla tomba, il giorno passava e nella quiete della notte i suoi amici andavano a cercarlo per riportarlo a casa.
Presto cominciò a rifiutarsi di tornare a casa, evitando gli amici, e rimanendo nel cimitero a vegliare sulla tomba dei suoi cari perduti. Se ne stava lì in piedi, figura solitaria e smarrita, il suo futuro, che un tempo era stato luminoso, ormai ridotto in cenere. Non aveva più né un nord né un sud, né una traccia della strada che potesse riportarlo all’uomo che era stato.
Col passare del tempo la sua pelle fu segnata da crepe e brunita dal sole, dalla pioggia e dai venti di burrasca. Tra i suoi capelli si aggrovigliarono ramoscelli, piume e ragni. Man mano che passavano i giorni si fece sempre più freddo e solido, rigido e immobile. Perfino la sua voce, un tempo calda nel pronunciare parole, si era trasformata in un mormorio di lievi scricchiolii e crepitii. I suoi indumenti appassirono diventando verdi di muffe e muschi, e le sue lacrime, ancora intense del lutto, erano gocce rosse e rotonde sulla sua pelle screpolata.
Le dita dei suoi piedi, avendo imparato a conoscere così bene la terra sotto di loro, si allungarono contorcendosi, tendendosi verso quell’angolo familiare e radicandolo a quel luogo. Le unghie dei piedi, nodose e avvolte in spirali, si avvinghiarono alla terra e alla pietra, conficcando le loro appendici nel suolo umido sotto la quieta superficie del cimitero.
Quelle che un tempo erano state visite quotidiane, un commosso pellegrinaggio di commemorazione e di unione, erano diventate la perdita del ritorno a casa, e lui era diventato qualcos’altro. Quella lì in piedi accanto alla tomba non era più né la sagoma né l’ombra dell’uomo tenero, del buon marito, del padre amorevole, ma una figura dalla pelle crepata simile a corteccia, spine verdi della vecchiaia, e bacche rosse nate dalle lacrime che ancora versava.
Rinchiuso nella sua pena, l’uomo era diventato il primo albero di tasso che si sia mai visto.
Questo racconto mi ricorda che il dolore può avvinghiarci e indurirci se restiamo troppo a lungo nel lutto. Se diventiamo immobili, smettiamo di esplorare il mondo e rifiutiamo la compagnia e l’affetto degli altri, anche noi rischiamo di diventare il solitario tasso nel cimitero, così perduti nel nostro dolore da perdere anche noi stessi.
Oein DeBhairduin è uno scrittore, attivista e traveller irlandese. È uno dei fondatori di Lgbt Tara (Travellers and roma alliance). Il titolo originale di questo racconto è The yew tree. È tratto da Why the moon travels, raccolta pubblicata da Skein Press, editore che presenta voci poco rappresentate nel panorama letterario irlandese. La traduzione è di Francesco De Lellis.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1595 di Internazionale, a pagina 72. Compra questo numero | Abbonati