Come la maggior parte delle persone nei paesi ricchi, Kirsten Gjesdal aveva sempre dato per scontato di poter ordinare qualsiasi cosa e di vedersela consegnare senza dover pensare alle fabbriche, alle navi portacontainer o ai camion. Oggi non è più così. Nel suo negozio di articoli per la cucina a Brookings in South Dakota, negli Stati Uniti, Gjesdal ha smesso di esporre i sottopiatti perché si è stancata di dire ai clienti che non sa quando ne arriveranno altri. Quando ha ordinato un coperchio per una pentola, glielo hanno consegnato solo otto mesi dopo. Ormai si è abituata all’idea di pagare un sovrapprezzo per coprire costi di spedizione sempre più alti, e ha già fatto gli ordini per una serie di articoli natalizi come ghirlande e teglie da forno. “C’è da impazzire”, dice. “Di sicuro non stiamo tornando alla normalità”.
Le difficoltà del negozio di Gjesdal testimoniano la portata e la persistenza del caos che sta investendo l’economia globale. Ritardi, carenze di prodotti e costi in crescita continuano a tormentare le aziende. I consumatori, da parte loro, stanno vivendo un’esperienza pressoché inedita: nei negozi non ci sono le merci e non si sa quando arriveranno.
A causa della scarsità di microprocessori ad agosto la Toyota ha annunciato che taglierà la sua produzione globale di auto del 40 per cento. In tutto il mondo le fabbriche stanno riducendo l’attività anche se la domanda è alta, perché non riescono a procurarsi componenti in metallo, plastica e materiali grezzi. Le imprese edili pagano di più la vernice, il legname e le altre materie prime, e devono aspettare settimane (a volte mesi) prima di ricevere quello di cui hanno bisogno. Il National health service, il servizio sanitario britannico, ha comunicato che dovrà posticipare alcune analisi del sangue perché mancano le attrezzature necessarie. Uno studio della Confederation of british industry ha evidenziato la peggior carenza di componenti dal 1977.
Il grande blocco della filiera della distribuzione è un elemento centrale della straordinaria incertezza che continua a minacciare le prospettive economiche del mondo. Se la penuria dovesse continuare fino al prossimo anno, potremmo veder aumentare i prezzi di una serie di prodotti. Le banche centrali, dagli Stati Uniti all’Australia, discutono se sia il caso di preoccuparsi per l’inflazione ma devono anche porsi una domanda a cui nessuno sa rispondere: le carenze e i ritardi sono solo incidenti di percorso che stanno accompagnando la ripresa dell’attività economica o sono qualcosa di più insidioso che potrebbe durare per tutto il 2022? “Siamo in una fase di grande incertezza”, dice Adam S. Posen, ex membro del comitato di politica monetaria della Banca d’Inghilterra e oggi presidente del Peterson institute for international economics a
Washington. Per un ritorno alla normalità potrebbe volerci “un altro anno, forse due”, aggiunge.
A marzo del 2021, di fronte all’aumento dei prezzi di spedizione in tutto il mondo e alla scarsità di alcune merci, tutti pensavano che il problema fosse legato a un eccesso di ordini causato da un aggiustamento straordinario della domanda. Negli Stati Uniti e in altri paesi ricchi, infatti, i consumatori avevano approfittato del lockdown per mettersi in casa console per videogiochi e cyclette, inondando di ordini il settore delle spedizioni ed esaurendo le scorte di molti componenti. Dopo qualche mese, si pensava, le fabbriche si sarebbero messe al passo con la domanda e le navi avrebbero smaltito gli ordini inevasi. Non è andata così.
Proprio come la crisi sanitaria si è dimostrata ostinata e imprevedibile, l’instabilità del commercio internazionale è durata più di quanto ci si aspettasse, perché le carenze e i ritardi di alcuni prodotti hanno reso impossibile fabbricarne altri. In più, negli ultimi anni molte aziende hanno tagliato le scorte, adottando un approccio “snello” alla produzione per ridurre i costi e massimizzare i profitti. Inevitabilmente, questo ha lasciato un margine di errore molto ridotto.
La nave portacontainer rimasta incagliata nel canale di Suez a marzo, bloccando per una settimana il traffico su una via di comunicazione vitale tra l’Europa e l’Asia, ha aggravato il caos nei mari. A tutto questo si sono aggiunte le chiusure temporanee di diversi porti strategici in Cina a causa del covid-19.
Il mondo ha imparato una dura lezione: le nostre economie interconnesse sono separate da lunghe distanze, e ritardi e carenze in un luogo hanno effetti a cascata in tutti gli altri. Un container che non può essere scaricato a Los Angeles perché i portuali sono in quarantena è un container che non può essere caricato di soia in Iowa, lasciando all’asciutto i compratori in Indonesia e provocando una potenziale carenza di mangimi per animali nel sudest asiatico. Un picco inaspettato degli ordini di televisori in Canada o in Giappone aggrava la mancanza di microprocessori, costringendo le fabbriche di auto a rallentare le linee di produzione, dalla Corea del Sud alla Germania fino al Brasile. “Non si vede ancora la fine”, dice Alan Holland, amministratore delegato della Keevlar, un’azienda irlandese che sviluppa software per gestire le reti di distribuzione. “Dobbiamo abituarci all’idea che ci sarà una lunga fase di disagi”.
Reazione a catena
Nelle West Midlands dell’Inghilterra Tony Hague si è stancato di provare a prevedere quando questo caos finirà. La sua impresa, la PP Control & Automation, progetta e costruisce sistemi per le aziende che producono macchinari usati in diversi settori, dalla trasformazione alimentare all’energia. La domanda per i prodotti dell’azienda è in crescita, e i 240 dipendenti stanno lavorando a pieno regime. Eppure, anche lui deve fare i conti con la carenza di materiale. Un cliente che costruisce macchine per sigillare alimenti imballati è rimasto bloccato perché la PP Control & Automation non riesce a fornirgli alcuni componenti necessari. Il suo fornitore giapponese un tempo impiegava dalle quattro alle sei settimane per consegnare alcune apparecchiature fondamentali, oggi ci vogliono sei mesi. La fabbrica giapponese, a sua volta, ha difficoltà a procurarsi componenti elettrici, che per la maggior parte sono fabbricati in Asia e contengono microprocessori. La disperata ricerca di microprocessori da parte dei produttori di auto ha reso molto difficile procurarsi queste componenti. “La situazione sta peggiorando”, dice Hague. “Ancora non abbiamo toccato il fondo”. Per l’economia mondiale, la fonte principale dei problemi è il trasporto marittimo. Quando durante il lockdown gli statunitensi hanno riempito i garage di tapis roulant e le cucine di mixer, hanno creato domanda aggiuntiva per una serie di beni prodotti in Cina. Nel frattempo, però, milioni di container – i mattoni su cui si fonda tutto l’edificio del trasporto marittimo – erano in giro per il pianeta a consegnare mascherine e altri dispositivi di protezione individuale.
A questo si sono aggiunti i ritardi nello scarico delle merci nei porti statunitensi, perché i lavoratori erano confinati in casa per rallentare la diffusione della pandemia. E, alla fine di marzo, c’è stato il pasticcio del canale di Suez, dove transita circa il 12 per cento del commercio mondiale. Con centinaia di navi bloccate, il caos è durato mesi.
A maggio il governo cinese ha chiuso un enorme porto vicino a Shenzhen – una delle principali città industriali del paese – a causa di un piccolo focolaio di una variante del sars-cov-2. Il porto è rimasto fermo per settimane. A metà agosto è stato chiuso un terminal di container vicino alla città di Ningbo, dopo che un dipendente era risultato positivo. Ningbo è il terzo porto container più grande del mondo, e la sua chiusura rischiava di provocare effetti a catena in tutto il mondo, mettendo in pericolo le forniture ai negozi statunitensi per il black friday (l’inizio del periodo di compere natalizie) e il giorno del ringraziamento. In seguito il terminal di Ningbo ha riaperto, ma la decisione cinese di fermare le attività per un singolo caso di covid-19 ha fatto temere che Pechino chiudesse altri porti.
A Miami Beach, in Florida, negli Stati Uniti, l’inventore di giochi da tavolo Eric Poses ha messo in commercio The worst-case scenario card game (Il gioco del peggiore dei casi), un nome che sembra pensato apposta per la pandemia e che riflette in pieno la sua esperienza con i fornitori cinesi che fabbricano e spediscono i suoi prodotti. Prima del covid-19, per far spedire un container di giochi da Shanghai al suo magazzino nel Michigan, Poses pagava tra i seimila e i settemila dollari. La prossima consegna costerà almeno 26mila dollari. E la sua ditta di spedizioni l’ha già avvisato che il prezzo molto probabilmente salirà a 35mila dollari visti i problemi con le ferrovie e il trasporto su gomma negli Stati Uniti.
Costi bassi
Il commercio internazionale si basa da anni sui costi convenienti e sull’affidabilità del trasporto marittimo, che ha permesso alle aziende manifatturiere di spostare la produzione in giro per il mondo alla ricerca di manodopera e materiali a basso costo. Tra gli esempi di questa evoluzione c’è la Columbia Sportswear di Portland, in Oregon, che realizza abbigliamento per il tempo libero. L’impresa si affida alle fabbriche asiatiche per produrre i suoi articoli e ha sempre potuto contare sulla rete del trasporto marittimo per consegnarli. “È un po’ come quando ti svegli la mattina: accendi la luce e dai per scontato che la luce si accenda”, dice Timothy Boyle, l’amministratore delegato della Columbia. Dall’inizio della pandemia, il costo di far arrivare le merci dall’Asia agli Stati Uniti è decuplicato, e l’azienda potrebbe essere costretta e rivedere il suo modello.
Secondo alcuni esperti, il problema della scarsità dei prodotti è acuito dalle reazioni dei consumatori. A causa della pandemia, l’umanità oggi conosce la paura di restare senza carta igienica, e quest’esperienza può spingere i consumatori e le imprese a ordinare di più e con maggiore anticipo rispetto al passato. Normalmente, il picco della domanda per le spedizioni attraverso il Pacifico comincia alla fine dell’estate e termina con l’inverno. Nel 2020 il picco non è mai finito, e con l’avvicinarsi del Natale aumenterà la pressione su fabbriche, magazzini, navi e camion. “È un circolo vizioso in cui il nostro istinto naturale reagisce e aggrava il problema”, dice Willy C. Shih, esperto di commercio internazionale della Harvard business school. “Non credo che vedremo un miglioramento fino al 2022”. ◆ fas
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Questo articolo è uscito sul numero 1429 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati