Una volta ho scritto una storia semiautobiografica che raccontava di uno scrittore che tenta di scrivere un libro su Nietzsche mentre la sua vita sta implodendo. Nella storia la ragazza del narratore è russa; nella realtà era vietnamita. Il racconto si conclude con la donna che lascia il narratore, mentre quando l’ho scritto la mia ragazza e io vivevamo ancora nello stesso appartamento polveroso di Hampstead in cui era ambientato: tutto questo sembrerebbe confermare l’intuizione nascente in me per cui gran parte della narrativa è in realtà anticipazione dei fatti. Nella storia il narratore aveva un grande desiderio di visitare Torino, la città in cui Nietzsche trascorse i suoi ultimi anni di salute mentale. Ma non riusciva mai ad arrivarci, e alla fine abbandonava la speranza di scrivere un libro.

Un paio d’anni dopo la pubblicazione di quel racconto sono stato davvero a Torino, in compagnia della donna che lo aveva tradotto in francese. Al nostro arrivo in città, abbiamo individuato piazza San Carlo, quella in cui raccontano che Nietzsche abbracciò un cavallo che veniva frustrato, prima di perdere l’ultimo barlume di salute mentale. Poco distante dalla piazza c’era un busto in bronzo che faceva apparire Nietzsche ancora più severo e militaresco di quanto non sia rappresentato normalmente. Era accompagnato da un testo pomposo che esaltava il “filosofo del potere” e – assurdamente – inneggiava al patriottismo italiano: la targa era stata apposta da Mussolini, per reclutare il bellicoso tedesco alla sua causa sciovinista.

Oggi vedo Nietzsche come un uomo strano e brillante che sotto alcuni punti di vista fu limitato, mentre sotto altri fu miope e pericolosamente in errore

In quei giorni ancora immaginavo che un domani avrei potuto scrivere il libro su Nietzsche, riuscendo là dove il personaggio del mio racconto aveva fallito. Oggi so che non succederà mai. Quel momento è passato. Con l’avanzare dell’età il nostro rapporto con l’opera di autori che un tempo veneravamo si evolve. C’è una diminuzione d’intensità, quindi di fascinazione.

Quando ho cominciato per la prima volta a leggere Nietzsche io ero giovane e lui era vecchio, certamente più vecchio di me, e vecchio abbastanza da sembrare un’autorità inscalfibile, ammantato del fascino cosmico-storico.

Un paio d’anni fa ho superato l’età che aveva Nietzsche quando scrisse Umano, troppo umano. Presto entrerò in quella fase della vita in cui lui era quando scrisse le sue opere geniali, quei libri che stravolsero tutta la mia visione della vita quand’ero un ventenne. Nessuno che sia più giovane di noi ci appare mai come un’autorità inattaccabile.

Oggi vedo Nietzsche come un uomo strano e brillante che sotto alcuni punti di vista fu limitato, mentre sotto altri fu miope e pericolosamente in errore. Questo significa maturare, abitare il culmine della vita: le autorità e le dottrine svaniscono.

Non è rimasto più nulla a cui convertirsi. A un certo punto ti ritrovi – in una maniera in un certo senso nietzschiana – in cima a una tranquilla vetta della comprensione, abbracciando con lo sguardo le pianure e le colline che hai attraversato per arrivare dove sei, un paesaggio disseminato degli involucri dei sé che hai abbandonato lungo la strada. Da qui in avanti non ci sono più guide, niente più mappe se non quelle che tu stesso traccerai. ◆

Rob Doyle è uno scrittore e critico letterario irlandese. Ha scritto su Times Literary Supplement, The New York Times, The Sunday Times e The Observer. In italiano è uscito il suo Confessioni di uno scrittore in bilico (8tto edizioni 2023). Questo racconto è tratto dal suo libro Autobibliography, pubblicato da Swift Press, una casa editrice indipendente fondata nel 2020. La traduzione è di Francesco De Lellis.

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Questo articolo è uscito sul numero 1595 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati