Le manifestazioni scoppiate in Iran dopo la morte di Mahsa Amini non riguardano solo l’obbligo dell’hijab, il velo che copre la testa, ma sono il riflesso di un problema più grande. Nelle ultime settimane di proteste almeno 154 persone sono morte, secondo l’organizzazione Iran human rights, e centinaia sono state arrestate. Bisogna capire se questa mobilitazione avrà risultati concreti, perché la sua portata non è chiara. Un video trasmesso online può essere visto da milioni di persone nel giro di pochi minuti; questa amplificazione tiene alto il morale dei dimostranti ma non dà un’idea chiara di quante persone stiano partecipando.
Chi protesta lo fa per molti motivi, arrivati a un punto di rottura con la morte di Amini, una giovane donna originaria della provincia del Kurdistan. Per questo la mobilitazione riguarda la discriminazione sistematica verso le minoranze, la mancanza di diritti delle donne e la dottrina ultrareligiosa imposta alla popolazione da decenni. Ma è troppo presto per dire se creerà lo slancio per un cambiamento, perché le autorità iraniane sono abituate a reprimere il dissenso.
In Iran le donne subiscono discriminazioni su eredità, matrimonio, divorzio e custodia dei figli. Le donne sposate devono ottenere il permesso dei mariti per attività basilari come viaggiare e rinnovare il passaporto. L’Iran non ha una legge sugli abusi domestici nonostante l’alto numero di casi e l’aumento dei cosiddetti delitti d’onore. All’inizio del 2022 Mona Heydari, diciassette anni, madre di un bambino di tre, è stata decapitata dal marito. L’episodio ha suscitato indignazione in tutto l’Iran. Secondo un rapporto di Bbc persian, il 39 per cento degli omicidi commessi tra il 2013 e il 2017 nel paese sono stati delitti d’onore.
Migliaia di attivisti per i diritti umani ed esponenti della società civile sono nelle carceri iraniane. Tra loro ci sono anche attivisti politici curdi e di altre minoranze. L’Iran condanna regolarmente a morte le persone sulla base di accuse di moharebeh (ostilità contro Dio), afsad-i fil arz (aver seminato corruzione sulla terra) e baghi (un termine che indica le persone incriminate per aver guidato una rivolta armata).
Gli attivisti spesso devono scontare lunghe pene detentive. Amirhossein Moradi, Said Tamjidi e Mohammad Rajabi sono stati condannati a morte dall’alta corte iraniana per il loro ruolo nelle proteste del novembre 2019. La pena poi è stata convertita in ergastolo. Hanno tutti meno di trent’anni.
Obblighi e divieti
Secondo Human rights watch i tribunali iraniani “sono al di sotto degli standard che garantiscono un giusto processo” e spesso usano la tortura per ottenere confessioni. Le minoranze come quella curda subiscono una discriminazione sistematica, che va dalla restrizione dei diritti linguistici all’impossibilità di registrare i propri figli con nomi curdi. Peshawa, Kurdistan, Komar, Qazi, Awara e Zrebar sono nomi proibiti. I limiti sui diritti linguistici si estendono alle scuole, in cui la lingua curda non è insegnata e chi lo fa rischia di finire in cella. Lo dimostra il caso di Zahra Mohammadi, che sta scontando una lunga pena in carcere per aver insegnato il curdo ai bambini. Le province curde dell’Iran hanno i tassi più alti di disoccupazione e spesso non hanno abbastanza servizi e fondi per garantire l’accesso a quelli di base.
I manifestanti hanno in gran parte meno di trent’anni, sanno cosa succede al di fuori dell’Iran grazie ai social network e guardano ai paesi che offrono ai giovani opportunità, mezzi e libertà. Mentre le proteste dilagavano, il governo ha limitato l’accesso a WhatsApp, Instagram, Twitter e Facebook. Netblocks, un’organizzazione che monitora la sicurezza informatica, l’ha definita il più pesante blocco di internet dalle proteste del 2019.
Limitare le proteste all’obbligo del velo significherebbe minimizzare il malcontento di molte persone, tra cui le minoranze, e in particolare le donne. ◆ fdl
Ruwayda Mustafah è un’analista politica curda-britannica e attivista per i diritti delle donne. Vive nel Regno Unito.
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Questo articolo è uscito sul numero 1481 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati