Una vaga sagoma metallica aveva sibilato sfiorando l’orecchio di Khader Khalilia. Il proiettile finì contro un dipinto di Romeo e Giulietta appeso al muro alle sue spalle. Mentre altri spari risuonavano nell’aria, Khalilia e la sua famiglia si erano gettati a terra sul pavimento della loro casa a Beit Jala, poco fuori Betlemme, nella Cisgiordania occupata. Khalilia si era lanciato addosso al fratello minore Elios per fargli scudo con il corpo. Erano nel mezzo di un conflitto a fuoco tra l’esercito israeliano e un gruppo della resistenza palestinese. “Imprecavo e pregavo allo stesso tempo”, racconta Khalilia, ricordando quel pomeriggio del 2003 quando era ancora uno studente universitario di 23 anni. “Poi mi sono detto: se soprav­vivremo dedicherò la mia vita a servirti, Signore”.

Ha mantenuto il voto. Nel 2023 ha celebrato dieci anni al servizio della chiesa luterana di Redeem­er-St. John’s a Dyker Heights, un quartiere di Brooklyn, a New York. Ma negli ultimi nove mesi la guerra di Israele a Gaza ha messo in luce la sua identità di pastore palestinese. Khalilia è uno dei pochi leader religiosi palestinesi a New York e, per quanto ne sa, è l’unico a guidare una chiesa cristiana.

Questa visibilità gli ha imposto di diventare una sorta di ambasciatore, impegnato a sfatare miti e a educare i newyorchesi su cosa significa essere palestinesi. Alcune delle persone che incontra considerano la sua stessa identità di cristiano palestinese una contraddizione: credono che tutti i palestinesi siano musulmani. A volte gli chiedono: “Quando ti sei convertito al cristianesimo?”. “Io gli rispondo sempre: ‘Il giorno di Pentecoste, duemila anni fa’. Duemila anni fa Gesù nacque a Betlemme, in Palestina”. Le radici del cristianesimo, sottolinea il pastore, affondano nella sua terra d’origine.

Ma la guerra a Gaza ha fatto esplodere divisioni nel suo paese adottivo, che si sono manifestate anche nell’intensificarsi di sentimenti antipalestinesi e antimusulmani. Negli Stati Uniti, storicamente alleati di Israele, è sorto un dibattito sul ruolo americano nella guerra. Alcuni cristiani statunitensi, in particolare gli evangelici, s’identificano con la causa nazionalista israeliana, e le loro posizioni potrebbero aver contribuito alla forte reazione antipalestinese.

Solo nei primi tre mesi di guerra il Council on american-islamic relations ha registrato 3.578 denunce di episodi di odio antislamico e antipalestinese. A marzo il Pew research center ha rilevato che mentre il 50 per cento degli statunitensi ha espresso un’opinione “favorevole” ai palestinesi, il 41 per cento ha dato un giudizio “negativo”.

Se si escludono i protestanti evangelici bianchi e i repubblicani bianchi, la statistica è più alta: in entrambi i gruppi il 58 per cento degli intervistati ha dichiarato di avere un’opinione sfavorevole ai palestinesi. Khalilia ha avuto un’esperienza diversa. La sua congregazione, racconta, gli è stata vicina durante la guerra. “Sono diventati loro il mio pastore”.

Simpatie conservatrici

Quando si è trasferito negli Stati Uniti nel 2005, Dyker Heights è diventata la sua casa. Ricorda ancora quando per la prima volta ha messo piede nella chiesa di Redeem­er-St. John’s: “Mi sono innamorato di questo luogo sacro e ho pregato: ‘Dio, vorrei tanto diventare il pastore di questa congregazione’”. Nel 2013 è diventato il pastore della chiesa, e Khalilia racconta di aver trovato una parrocchia anziana, per lo più bianca, e con simpatie conservatrici. Alcuni gli hanno confidato di sostenere Donald Trump.

Questo non impedisce ai parrocchiani di rivolgersi tranquillamente a Khalilia per chiedere preghiere e consigli, per esprimere le loro opinioni o di ascoltarlo quando condivide le sue esperienze di palestinese statunitense. “È uno scambio reciproco”, spiega. “Per me è una gioia essere il loro pastore, predicare, insegnare, amministrare i sacramenti, spezzare il pane insieme”. Questo rapporto intimo ha offerto ai suoi parrocchiani uno sguardo sulla guerra che altrimenti non avrebbero potuto avere. Le tensioni a Gaza, per esempio, hanno avuto ripercussioni anche sulla famiglia di Khalilia in Cisgiordania. Gli insediamenti israeliani illegali nella zona si sono estesi. I raid delle forze israeliane e gli attacchi dei coloni estremisti hanno provocato morti tra i palestinesi. E i contraccolpi di quella violenza hanno avuto una ricaduta diretta anche sulla vita di questo pastore di Brooklyn.

Dopo il loro viaggio di nozze all’estero, uno dei fratelli di Khalilia e sua moglie si sono visti negare l’ingresso in Cisgiordania. Nel novembre 2023 sono stati costretti a venire a New York e sono andati a vivere in casa di Khalilia insieme ai genitori, prima di trasferirsi a Staten Island. Dorothy Fyfe, una parrocchiana, ha raccontato di essere rimasta colpita dalla loro storia: “In un certo senso loro sono fortunati. Non sono in mezzo ai combattimenti. Ma quant’è straziante voler tornare a casa e non poterlo fare?”.

In passato Khalilia ha organizzato viaggi di gruppo in Cisgiordania su richiesta dei parrocchiani, con lo scopo di “camminare dove camminò Gesù”. Ma quei viaggi sono stati interrotti a causa della guerra. L’ultimo risale al gennaio 2023. Anche se quei soggiorni prevedevano visite nelle chiese e nei siti biblici, sono stati un’occasione per vedere le difficoltà quotidiane dei palestinesi. “Le persone piangevano”, racconta Khalilia descrivendo lo shock dei viaggiatori di fronte a quelle condizioni di vita. Alcune organizzazioni per i diritti umani, tra cui Amnesty international, hanno equiparato il trattamento che Israele riserva ai palestinesi all’apartheid.

Pensare al nesso tra le tasse dei contribuenti statunitensi e l’occupazione israeliana ha lasciato “interdetti” molti viaggiatori, ha aggiunto il parroco. Karl e Owen – che hanno chiesto di non rivelare i loro cognomi per poter parlare liberamente – di recente sono diventati la prima coppia dello stesso sesso a sposarsi nella chiesa di Redeem­er-St. John’s. L’anno scorso hanno partecipato a uno dei viaggi. “Abbiamo visto un bambino perquisito a un posto di blocco”, ha raccontato Owen, riferendosi alle barriere presidiate dai soldati israeliani per limitare i movimenti dei palestinesi. La coppia è passata vicino agli insediamenti israeliani e ha visitato un ospedale pediatrico palestinese. Lì hanno scoperto che i genitori palestinesi a volte non possono accompagnare i figli malati o feriti, se sono curati in strutture israeliane.

Ogni domenica, dopo aver fatto il suo sermone, Khalilia torna a casa dalle sue due figlie, che hanno otto e quattro anni. Due mesi prima dell’attacco del 7 ottobre 2023 Khalilia e sua moglie avevano portato le bambine in Cisgiordania e in Israele. “Hanno fatto da damigelle ai matrimoni dei miei due fratelli, a una settimana di distanza l’uno dall’altro. Le ho portate a Gerusalemme, abbiamo passeggiato nella città vecchia, abbiamo bevuto il succo di melagrana. E loro dicevano: ‘Oh, papà, è fantastico’. Hanno mangiato la knafeh”, racconta parlando del dolce tradizionale fatto con pasta a fili sottili. “Poi è cominciata la guerra”.

Negli Stati Uniti le immagini dei bombardamenti aerei, dei bambini affamati e dei corpi dilaniati hanno cominciato a inondare le tv e i giornali. Una sera, mentre guardava le notizie, la figlia maggiore di Khalilia ha chiesto: “Quando torneremo a casa in Palestina faranno le stesse cose anche a noi?”.

Khalilia ha spento la tv e l’ha consolata come meglio poteva. “L’ho abbracciata e ho detto: ‘No, a noi non lo faranno’”.

Prima di dire cosa desidera che la gente comprenda della sua terra, Khalilia si è appoggiato allo schienale della sua sedia e ha sospirato: “Ci meritiamo di vivere. Noi vogliamo la vita. Vogliamo la libertà. Non siamo animali o subumani”, ha detto. “E non siamo terroristi. Combattiamo per una causa nobile, per liberare la Palestina dall’occupazione. Vogliamo vivere fianco a fianco con gli israeliani, non spariremo”. ◆ fdl

Biografia

1980 Nasce a Beit Jala, in Cisgiordania.
2005 Si trasferisce con la famiglia negli Stati Uniti, a New York, nel quartiere di Dyker Heights.
2013 È nominato parroco della chiesa luterana di Redeem­er-St.John’s a Dyker Heights.


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Questo articolo è uscito sul numero 1579 di Internazionale, a pagina 70. Compra questo numero | Abbonati