Il rapporto sulla competitività e il futuro dell’Europa presentato il 9 settembre da Mario Draghi alla Commissione europea va nella direzione giusta. Secondo l’ex presidente della Banca centrale europea (Bce) l’Unione dovrebbe realizzare in futuro investimenti aggiuntivi per 800 miliardi di euro all’anno, l’equivalente del 5 per cento del suo prodotto interno lordo, cioè circa tre volte il piano Marshall (che nel dopoguerra valeva l’1-2 per cento del pil all’anno). Il continente tornerebbe così ai livelli d’investimento degli anni sessanta e settanta.

Per raggiungere questo obiettivo Draghi propone di ricorrere al debito comune europeo, com’è stato fatto con il piano di ripresa da 750 miliardi adottato nel 2020 per far fronte alla pandemia. Stavolta però si tratta di trovare queste somme ogni anno per investire nel futuro (soprattutto in ricerca e nuove tecnologie). Se l’Unione non riuscirà a realizzare questi investimenti, il continente entrerà in una “lenta agonia” nel confronto con Stati Uniti e Cina, avverte il rapporto.

Si può non essere d’accordo con le proposte contenute nel rapporto di Mario Draghi sulla competitività. Ma hanno il merito di seppellire il dogma dell’austerità

Si può non essere d’accordo con Mario Draghi su molti punti, in particolare sulla precisa composizione dell’investimento in questione, che non è cosa da poco. Va detto, però, che questo rapporto ha l’enorme merito di seppellire il dogma dell’austerità. Secondo alcuni, in Germania e anche in Francia, i paesi europei dovrebbero pentirsi del loro deficit passato ed entrare in una lunga fase di avanzo primario nei conti pubblici, insomma una fase in cui i contribuenti dovrebbero pagare in tasse molto più di quanto riceverebbero in cambio dallo stato sotto forma di spesa pubblica, in modo da rimborsare il prima possibile gli interessi sul debito.

In realtà questo dogma dell’austerità si fonda su un nonsenso economico. In primo luogo perché da una ventina d’anni i tassi d’interesse (al netto dell’inflazione) sono crollati a livelli storicamente bassi in Europa e negli Stati Uniti: sotto l’1 per cento o il 2 per cento, a volte perfino a livelli negativi.

Questo riflette una situazione in cui c’è un risparmio inaspettato che è sfruttato poco o male in Europa e nel mondo, pronto a riversarsi nei sistemi finanziari occidentali senza alcun rendimento o quasi. In questa situazione il compito dei poteri pubblici è mobilitare queste somme per investirle in formazione, sanità, ricerca e nuove tecnologie, infrastrutture, efficientamento termico degli edifici e così via. Per quanto riguarda il debito pubblico, è effettivamente molto alto, ma la storia dimostra che un livello simile di debito non può essere affrontato con strumenti ordinari: sono necessarie misure straordinarie, come le tasse sui grandi patrimoni privati, che nel dopoguerra furono applicate in Germania e in Giappone. Quando i tassi d’interesse torneranno a salire, bisognerà ricorrere al contributo dei miliardari e dei multimilionari. Alcuni diranno che è impossibile, ma si tratta di una semplice operazione contabile per la quale basta un computer. Purtroppo non si può dire lo stesso per il riscaldamento climatico o per la sanità pubblica.

Se esaminiamo in dettaglio le proposte del rapporto Draghi, ovviamente c’è molto da ridire. E questo è un bene. Nel momento in cui accettiamo il principio che l’Europa deve fare grandi investimenti, è salutare che ci siano diverse opinioni sul modello di sviluppo.

Mario Draghi segue una linea da tecnocrate molto tradizionale, favorevole al mercato e orientata al consumo. Pone l’accento sulle sovvenzioni pubbliche agli investimenti privati nei settori del digitale, dell’intelligenza artificiale e dell’ambiente. Eppure si potrebbe legittimamente pensare che l’Europa debba invece cogliere questa occasione per sviluppare altri modelli ed evitare di regalare ancora una volta pieni poteri ai gruppi capitalisti privati. Draghi sostiene anche la necessità di investimenti pubblici, per esempio nella ricerca e nell’istruzione superiore, ma in modo troppo elitario e restrittivo. Propone che il Consiglio europeo della ricerca finanzi direttamente le università, e questo sarebbe un cambiamento positivo. Purtroppo il rapporto suggerisce di concentrare gli investimenti solo su alcuni poli d’eccellenza delle grandi metropoli, una scelta inaccettabile. La sanità pubblica e gli ospedali sono invece un tema quasi del tutto assente nel rapporto.

In generale, perché un tale piano d’investimenti possa essere adottato è indispensabile che i territori svantaggiati e le regioni marginali – anche, per esempio, in Germania – ne ricavino dei vantaggi. Se Francia, Germania, Italia e Spagna, che insieme costituiscono i tre quarti della popolazione e del pil della zona euro, riusciranno a trovare un compromesso equilibrato sul piano sociale e territoriale, allora sarà possibile andare avanti anche senza attendere l’unanimità e contando su uno zoccolo duro di paesi (come immagina fra l’altro lo stesso rapporto Draghi). È questo il dibattito che bisogna affrontare oggi in Europa. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1581 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati