“Ma siete matti?”, ha detto il regista francese Nicolas Philibert il 25 febbraio, quando l’attrice Kristen Stewart, presidente della giuria della 73a edizione della Berlinale, ha annunciato il vincitore dell’Orso d’oro. Sur l’Adamant, il documentario di Philibert, 72 anni, racconta la clinica psichiatrica diurna Adamant, che occupa una chiatta ancorata sulla Senna, a Parigi. I pazienti qui possono dedicarsi alla pittura o alla musica, possono parlare di letteratura o anche solo prendere un caffè.
Non sembrava il candidato ideale per il primo premio del festival, eppure, unico documentario in concorso, ha convinto non solo per il suo sguardo lucido che non ha bisogno di commenti, ma anche per la rivendicazione silenziosa ma forte che esprime. Per quasi due ore Philibert ci porta su questa nave-ospedale per chiedere un atteggiamento più aperto nei confronti di quelli che chiamavamo matti. E allora la sua esclamazione si potrebbe interpretare anche come un complimento, un po’ ammiccante, alla giuria.
Una scelta elegante
Dopo tanti interrogativi su chi avrebbe potuto vincere l’Orso, premiare Sur l’Adamant è stata una scelta elegante che ha aggirato una difficoltà. Oltre al documentario di Philibert, infatti, erano in concorso lungometraggi che, per lo più, si sono fatti notare perché ricalcano in modo prevedibile la routine dei film d’autore. In altri casi, invece, erano le trame e le sceneggiature a non reggere. I mugugni che i molti critici indirizzavano a questi film, alla fine del festival si sono trasformati in malcontento.
La migliore tra le opere tedesche ha ricevuto l’Orso d’argento, gran premio della giuria: Roter Himmel di Christian Petzold, storia estiva di uno scrittore in crisi creativa sullo sfondo della crisi climatica: è un film ben scritto, ben recitato e ben diretto e sicuramente il premio è un riconoscimento meritato da Petzold.
Più sorprendente, semmai, è che il premio della giuria sia andato a Mal viver, dramma familiare di João Canijo. Nel film del settantacinquenne regista portoghese regna una deprimente tristezza, animata, almeno, dalla coinvolgente interpretazione di un cast in cui i personaggi principali sono tutti femminili. Ma la pazienza dello spettatore è messa a dura prova. Oltretutto, Mal viver non è stato certo l’unico tra i film in gara a raccontare storie familiari.
In 20.000 especies de abejas della spagnola Estibaliz Urresola Solaguren, per esempio, c’è un bambino che non riesce più a identificarsi con il suo nome e con il fatto di essere venuto al mondo maschio. Lo smarrimento di Cocó, all’anagrafe Aitor, si specchia nell’inettitudine di una famiglia poco comprensiva. Anche se il film affronta l’argomento in un modo non particolarmente sofisticato, la protagonista Sofía Otero, al suo debutto, è assolutamente all’altezza. Assegnare l’Orso d’argento per la migliore interpretazione a una bambina di otto anni, la più giovane attrice premiata nella storia della Berlinale, è una scelta condivisibile.
L’Orso d’argento per la migliore interpretazione da non protagonista è andato all’attrice trans Thea Ehre per Bis ans Ende der Nacht, di Christoph Hochhäusler. Anche in questo caso la decisione è giusta: è stata proprio l’interpretazione delicata di Ehre infatti a salvare questo thriller queer che mescola generi diversi in una sceneggiatura tutto sommato abbastanza banale. Ehre ha dedicato il premio alla comunità trans.
Ma erano molti i film in concorso che si possono definire acerbi, come Disco boy di Giacomo Abbruzzese: nonostante un ottimo Franz Rogowski nel ruolo del protagonista e immagini sempre molto suggestive, alla fine l’impressione è che il regista non sia riuscito a portare la storia fino in fondo. La direttrice della fotografia, Hélène Louvart, in ogni caso ha sicuramente meritato l’Orso d’argento per il miglior contributo artistico.
Nel complesso, l’impressione è che quest’anno i lungometraggi che non erano documentari siano stati l’anello debole del festival. Fa eccezione il bellissimo Tótem della messicana Lila Avilés, un accorato dramma familiare dall’umorismo discreto su malattia e morte, che sarebbe stato un buon candidato per l’Orso d’oro e che invece non ha ottenuto alcun premio.
Ma sarebbe comunque eccessivo concludere che ci sia una vera e propria crisi della narrazione. Va piuttosto evidenziato lo spessore dei documentari, anche quelli presentati nelle sezioni laterali del festival.
Messico, Bergamo e il klezmer
El Eco della messicana Tatiana Huezo, in gara nella sezione Encounters, è un sobrio ma accattivante ritratto di tre famiglie nel villaggio del Messico settentrionale che dà il titolo alla pellicola. Il film lascia spazio ai suoi protagonisti, mostra bambini che liberano pecore intrappolate dal fango, ma anche ragazze adolescenti che si chiedono se arruolarsi nell’esercito. Huezo ha vinto sia il Berlinale documentary award sia il premio Encounters per la migliore regia.
All’inizio del festival il direttore artistico Carlo Chatrian ha detto: “È tornata in auge la realtà”, intendendo per realtà anche la più stretta attualità.
Infatti, oltre al focus su Iran e Ucraina, sempre nella sezione Encounters era in gara quello che forse è il miglior documentario sul covid-19, Le mura di Bergamo, dell’italiano Stefano Savona. Fin dai primi giorni della pandemia, il regista ha seguito medici e infermieri negli ospedali sovraffollati della città, senza risparmiare nulla al pubblico. Poi, però, la scena cambia e Savona si concentra sugli operatori sanitari che tentano di affrontare le conseguenze della pandemia, interrogandosi sull’impatto a lungo termine sia sulle strutture sanitarie sia sulla società. Arricchito da materiale d’archivio messo a disposizione dalle famiglie, il film riesce anche a mantenere viva la memoria delle vittime.
Infine, sempre nella sezione Encounters, il premio per il miglior film d’esordio – meritatissimo – è andato ad Adentro mío estoy bailando (The klezmer project) di Leandro Koch e Paloma Schachmann, docu-film su due argentini in viaggio nell’Europa dell’est sulle tracce della musica klezmer.
Anche questa edizione della Berlinale ci lascia con alcune domande. Al di là dell’impegno politico e dei tanti biglietti venduti, si potrà considerare il festival un successo dei due direttori, Mariëtte Rissenbeek e Carlo Chatrian? Alla fine del contratto, nella primavera del 2024, continueranno a dirigerlo?
Nel comunicato stampa rilasciato all’inizio di gennaio non si sono sbilanciati. È possibile che questo lasci già immaginare una risposta negativa? ◆ sk
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Questo articolo è uscito sul numero 1501 di Internazionale, a pagina 77. Compra questo numero | Abbonati