La prima volta che mi sono resa conto della disperata condizione delle donne del Kurdistan turco è stata nel 2019, mentre facevo le riprese per un documentario sulla regione. In quei giorni ho potuto osservare che il conflitto del 2015-2016 tra gli indipendentisti curdi e lo stato turco, e il successivo spostamento della popolazione locale nei nuovi edifici costruiti dal governo, hanno trasformato profondamente i meccanismi sociali e culturali della comunità curda in Turchia. Le consuetudini tradizionali diffuse nelle città e nei villaggi curdi rischiano di sparire. Questo senso doloroso di soffocamento è aumentato quando sono andata a trovare mia zia, che ha sessant’anni: l’ho vista sbracciarsi dal balcone al nono piano nel palazzone in cui vive a Cizre, in provincia di Şırnak, per indicarmi la via d’accesso all’edificio. Individuarla e seguire i suoi movimenti era molto difficile, non solo per l’altezza del palazzo, ma anche perché in quella periferia in mezzo al nulla c’erano decine di altri edifici uguali, uno accanto all’altro. Vedere mia zia rinchiusa in quei palazzi senz’anima mi ha stretto il cuore. Sembrava un uccello rinchiuso in gabbia. Mentre salivo le scale per raggiungerla, quest’impressione si faceva più intensa. Sapevo che mia zia non apparteneva a quel luogo. Ma non aveva un altro posto dove andare.
L’avevo vista per l’ultima volta nel 2008 durante un viaggio che avevo fatto da sola nella regione, prima di andare nel Regno Unito per il mio dottorato in studi curdi. Ero andata a farle visita nella sua casa di Cizre, dove ha vissuto per più di trent’anni e ha cresciuto tutti i suoi figli e due nipoti. L’abitazione aveva un grande cortile e molte stanze, ed era in pieno centro, una zona dove tutto quello di cui mia zia poteva avere bisogno era a portata di mano. Ricordo il suo grande sorriso mentre cercava di farmi assaggiare quello che coltivava in giardino. Nel nuovo appartamento non c’era più traccia della sua vecchia allegria. Seduta vicino a me, si limitava a fissare il pavimento.
Mia zia è una delle centinaia di migliaia di donne, per la maggior parte curde, che dopo anni di conflitti sono state cacciate dalle loro case e sistemate in grandi palazzi costruiti dal governo turco. Dal giorno alla notte hanno perso tutto e hanno visto i loro vecchi quartieri distrutti.
Sotto le macerie
La guerriglia urbana tra lo stato turco e il Movimento giovanile patriottico rivoluzionario (Ypg-h), organizzazione affiliata ai guerriglieri indipendentisti curdi del Pkk, è cominciata nel 2015. Nelle città curde del sudest della Turchia – Diyarbakır, Nusaybin, Yüksekova, İdil, Şırnak, Cizre e Silopi – gli scontri sono durati fino al 2016, lasciandosi alle spalle 169 coprifuochi, oltre a sparizioni, torture, violenze contro le donne, distruzioni di monumenti e quartieri storici. E 5.161 morti. Almeno 355mila persone, ma secondo alcuni potrebbero essere mezzo milione, sono state costrette a lasciare le loro case, e nelle operazioni militari più di 16mila abitazioni sono state distrutte, come previsto dai decreti urgenti di espropriazione emanati dal governo di Ankara.
Solo nella mia città natale, Şırnak, gli scontri e le operazioni militari hanno causato otto mesi di coprifuoco interrotto, e 8.700 famiglie, su un totale di 61.335, sono state costrette a emigrare. Şırnak è stata distrutta al 70 per cento e seimila nuclei familiari sono stati trasferiti in palazzoni fuori città, costruiti dal ministero dello sviluppo abitativo. Ho visto con i miei occhi la devastazione della città e la cancellazione del suo patrimonio storico e culturale. La casa dove nacque mio padre e la moschea in cui mio nonno era stato imam per quarant’anni sono state rase al suolo dalle ruspe.
Come a Şırnak, anche a Nusaybin, in provincia di Mardin, i due terzi degli edifici sono stati distrutti o danneggiati. Le demolizioni hanno interessato ottantamila persone sulle 116mila che vivevano nella zona. E si stima che 65mila siano state costrette a lasciare la città. Nelle aeree colpite le ruspe hanno fatto tabula rasa e sono stati costruiti migliaia di appartamenti simili a prigioni.
A causa della mancanza di ricerche e della censura del governo non ci sono dati certi, ma si stima che in seguito alla guerra e alle demolizioni commissionate dalle autorità più di 150mila persone siano state costrette a stabilirsi nei nuovi appartamenti costruiti nel quadro del progetto di “pianificazione urbanistica e sviluppo abitativo” voluto dal governo turco.
Questa politica di cosiddetta gentrificazione socio-spaziale ha stravolto il tessuto storico e culturale delle città curde, ma le conseguenze dello sradicamento, dell’espropriazione delle case e dei trasferimenti forzati per la popolazione locale sono state ignorate dalle istituzioni e dagli osservatori internazionali. Le più colpite sono state le donne, perché il loro spazio domestico si estendeva oltre le mura delle abitazioni: in gran parte escluse dal lavoro e dalle altre sfere pubbliche, dipendevano molto dal vicinato per i rapporti sociali.
Espulse dal proprio ambiente tradizionale, le donne sono state marginalizzate e allontanate dalle pratiche culturali tipiche degli spazi che gli erano sempre appartenuti, fatti di abitazioni costruite in proprio e quasi sempre dotate di aree esterne per l’allevamento degli animali. I nuovi appartamenti sono piccoli e senza giardini, quindi inadatti alle tradizionali attività produttive che si svolgevano nelle vecchie case curde.
Intere famiglie, insomma, sono state espulse dai centri delle città, mentre le terre dei loro antenati venivano cedute a prezzi di mercato a investitori immobiliari. In questo modo si è creata una netta frattura tra spazio “pubblico” e “privato”. Decine di donne e bambine mi hanno parlato della difficoltà di procurarsi da mangiare, del senso di emarginazione, alienazione e sottomissione che provano nelle nuove case, e della perdita delle loro abitudini socio-culturali.
Sevim vive nel suo appartamento con i quattro figli, e dice di sentirsi come in prigione. Non conosce i vicini e non si fida di nessuno
Hêvî, che ha 37 anni, è costretta a chiedere aiuto per procurarsi l’acqua, dal momento che la fornitura idrica non è sufficiente per il complesso di appartamenti in cui vive. “Mio marito ha perso il lavoro dopo il conflitto ed è ancora disoccupato. E ogni mese dobbiamo pagare una quota per la manutenzione degli appartamenti”, racconta invece Sevim, 45 anni. “Nella nostra vecchia casa non avevamo spese simili. E anche le bollette qui sono molto più care. Prima cuocevamo il pane nel forno di pietra in cortile, ora sono costretta ad andare in un altro quartiere per trovare un tandır”. Sevim vive nel suo appartamento con i quattro figli, e dice di sentirsi come in prigione. Non conosce i vicini e non si fida di nessuno che non conoscesse prima di essere costretta a spostarsi. La massa di persone che vivono nel suo palazzone la spaventa.
Questi grandi progetti di riorganizzazione urbana, voluti dal partito conservatore e islamista al potere (Akp, Partito della giustizia e dello sviluppo), riguardano anche altre regioni della Turchia. Il ministero dello sviluppo abitativo ha reso noto con orgoglio che negli ultimi dieci anni ha costruito 176.329 appartamenti nelle regioni orientali e sudorientali del paese, in gran parte abitate da curdi. E ha spiegato che entro il 2023 saranno completate altre 25mila nuove case.
La maggior parte dei progetti urbanistici sostenuti dallo stato, motivati essenzialmente dal profitto, vanno oltre il rinnovamento dell’ambiente fisico e non sono semplici strumenti per la mercificazione dello spazio. Un esempio è il piano di rinnovamento urbano di Sulukule, che ha preso di mira i quartieri rom al centro di Istanbul con un obiettivo preciso: distruggere la cultura centenaria di una comunità che, con le sua rete di legami, è stata spinta fuori dalla città.
Nonostante le proteste, le comunità che abitavano in quell’area da mille anni sono state trasferite altrove e nella zona sono state costruite abitazioni per la classe medio-alta. Allo stesso modo, le aggressive politiche urbanistiche messe in atto dal governo turco dal 2016 in poi nella regione curda non solo dimostrano il legame esistente tra espropriazioni forzate e processi di urbanizzazione, ma illustrano anche la geopolitica delle operazioni di Ankara per contrastare le insurrezioni in Kurdistan.
Mark Duffield, professore di relazioni internazionali all’università di Bristol, conosciuto soprattutto per i suoi studi su conflitti e crisi umanitarie, ha ipotizzato che per gli stati, gli eserciti e altri attori istituzionali gli interventi umanitari possono essere efficacissimi strumenti per combattere le attività di guerriglia. Da questo punto di vista, quando in Turchia si parla di “necessità di un legame tra sviluppo e sicurezza” non si punta a porre fine alle disuguaglianze attraverso il progresso, ma si vuole controllare e gestire la disuguaglianza stessa, proseguendo allo stesso tempo la guerra con altri mezzi, come la distruzione delle case e il trasferimento forzato delle persone. I sempre più numerosi interventi urbani nella regione curda vanno quindi interpretati come parte di una strategia di guerra che prevede espropriazioni materiali e culturali su base etnica. Con il sostegno del potere statale e dell’apparato militare e giudiziario, le terre, l’acqua e il patrimonio culturale dei curdi sono requisiti, mentre le vecchie reti di sicurezza sociale vengono cancellate.
La storia si ripete
Come osserva il sociologo Marcus Taylor nel suo articolo Displacing insecurity in a divided world (Third world quarterly 2009), le politiche di sicurezza portate avanti attraverso le attività umanitarie diffondono solo insicurezza nella popolazione più fragile, che molto spesso è rappresentata da donne e bambine. I trasferimenti forzati le obbligano a trovare nuove strategie di adattamento e resistenza negli insediamenti in cui vengono relegate. Oggi le donne e le bambine del Kurdistan turco hanno urgente bisogno di un aiuto per alleviare le conseguenze negative che i ricollocamenti hanno sulla loro vita – sotto il profilo economico, sociale e culturale – e sulla loro salute.
Il conflitto curdo-turco degli anni novanta causò l’evacuazione di numerosissimi villaggi curdi e la migrazione forzata di circa un milione e mezzo di persone dal sudest del paese verso le città dell’ovest. Spesso gli emigrati finirono a lavorare nell’edilizia. Anche io sono nata in una di queste famiglie. Nel 1993, in seguito a uno scontro a fuoco nella nostra città, fummo costretti a lasciare tutto all’improvviso e a cercare rifugio nell’ovest della Turchia. La traumatica esperienza della migrazione forzata e la perdita della nostra casa hanno avuto conseguenze durature, ovviamente negative, sulla mia vita. Ma quello che ho visto 28 anni dopo, nella stessa regione e in un clima politico molto simile, non è il semplice ripetersi di quella vecchia storia.
Il giornalista statunitense Sydney J. Harris diceva: “La storia si ripete, ma è travestita così bene che ci accorgiamo della somiglianza solo quando il danno è fatto”. È vero. Ma il dolore che accompagna le brutalità che si ripetono cresce sempre di più, finché non mettiamo fine a questo circolo vizioso. ◆ ga
Özlem Belçim Galip è una sociologa turca. È ricercatrice all’università di Oxford.
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Questo articolo è uscito sul numero 1429 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati