Una sostenitrice di Hamas durante una manifestazione il 6 maggio 2015, per il 67º anniversario della Nakba, la creazione dello stato ebraico nel 1948 che ha costretto all’esilio di migliaia di palestinesi. (Mahmud Hams, Afp)

Nel giorno in cui la Palestina commemora il 67º anniversario della creazione dello stato d’Israele, il 15 maggio del 1948, quando migliaia di palestinesi furono costretti a lasciare le loro case nei territori che diventarono parte di Israele, Benjamin Netanyahu inaugura il suo quarto mandato, con un governo di estrema destra.

Il 14 maggio 1948, alla vigilia della scadenza del mandato britannico sulla Palestina e del riconoscimento ufficiale da parte delle Nazioni Unite, fu unilateralmente dichiarata la nascita dello stato di Israele, che da allora celebra ogni anno la festa nazionale di Yom Ha’atzmaut.

Per i palestinesi, invece, l’evento rappresenta l’inizio dell’esilio dai loro territori: per molte famiglie ha coinciso con la perdita della propria casa e della terra e la fuga verso i campi profughi del paese e negli stati vicini come il Libano e la Giordania. Per questo in Palestina è chiamata Nakba: la catastrofe.

Nei giorni scorsi centinaia di palestinesi hanno marciato verso il palazzo presidenziale di Ramallah, urlando slogan che invocavano il diritto dei palestinesi di tornare nei loro villaggi di origine in Israele, con maglie nere e chiavi in mano, simbolo delle loro vecchie case. La manifestazione è stata organizzata dall’Autorità nazionale palestinese, il cui leader, il presidente Abu Mazen, si trova oggi a Roma. “Il diritto al ritorno è un diritto sacro. Se Israele non cambierà la sua politica ci sarà un’internazionalizzazione del conflitto”, ha detto Abu Mazen da Roma. Anche a Gaza e a Nablus sono state organizzate manifestazioni di commemorazione e fiaccolate.

“Ritorneremo, anche se dovessimo aspettare altri 67 anni. E se non torneremo noi, torneranno i nostri figli o i nostri nipoti”, ha spiegato una manifestante, che teneva in mano un cartello con il nome del suo vecchio villaggio, Bet Nabala, distrutto nel primo conflitto araboisraeliano del 1948. Fatah, il partito del presidente, ha promesso di continuare la lotta per la creazione di uno stato palestinese “indipendente e sovrano con Gerusalemme capitale”.

Mentre in Cisgiordania si commemora l’esilio, a Gerusalemme si vara un governo di coalizione formato da partiti di destra e di estrema destra, religiosi e laici: Likud, Casa ebraica, Kulanu, Shas e Giudaismo unito nella Torah.

Nelle linee guida presentate dal governo per chiedere la fiducia alla Knesset, (ottenuta nella tarda serata del 14 maggio con 61 voti a favore e 59 contrari) non si è accennato alla soluzione dei “due stati per due popoli”, e neppure al riconoscimento di uno stato palestinese. Il documento prevede solo dichiarazioni generali sul fatto che il governo “farà avanzare il processo diplomatico e si impegnerà per trovare un accordo con i palestinesi e con gli stati vicini”.

Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, durante il summit di Camp David del 14 maggio con i leader dei paesi del Golfo, ha espresso la sua preoccupazione per la scelta dei ministri del trentaquattresimo governo israeliano. Obama sostiene da sempre la necessità della soluzione dei due stati, e per questo motivo si è detto insoddisfatto per la posizione del nuovo governo israeliano su questo tema.

L’esecutivo israeliano, di cui fa parte anche il partito dei coloni Casa ebraica, non farà marcia indietro sugli insediamenti, anzi ha già annunciato la costruzione di novecento nuove abitazioni a Gerusalemme Est, decisione condannata dall’Unione europea e dagli Stati Uniti.

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