L’Europa affronta una crisi legata all’arrivo dei migranti, ma non la crisi che immaginiamo. Il continente, infatti, si trova di fronte a un dilemma: da un lato, qualunque politica sulle migrazioni che voglia essere morale e praticabile non godrà, per il momento, di un mandato democratico; dall’altro, qualsiasi politica che abbia sostegno popolare sarà probabilmente immorale e impraticabile .
Il dilemma non dipende dal fatto che i popoli europei sono particolarmente inclini a politiche immorali o impraticabili, ma dal modo in cui, negli ultimi trent’anni, la questione dell’immigrazione è stata presentata dai politici di tutti gli schieramenti: come una necessità e come un problema con il quale fare necessariamente i conti.
Gli stessi politici, però, non esitano a definire razzista e irrazionale l’atteggiamento delle persone di fronte agli immigrati. Quando nel 2010 il laburista Gordon Brown definì la pensionata Gillian Duffy una “donna intollerante” perché aveva espresso delle preoccupazioni sui migranti provenienti dall’Europa orientale, espresse il disprezzo dell’élite politica nei confronti delle persone comuni e dei loro timori nei riguardi dell’immigrazione.
Molte delle politiche messe in atto nell’ultimo anno trasmettono la sensazione di un continente in guerra
Un insieme di bisogni e desideri contraddittori è quindi sfociato in una serie incoerente e inapplicabile di politiche, paradossalmente esacerbate dalle norme sulla libera circolazione all’interno dell’Unione europea (Ue). L’area Schengen, il gruppo di paesi dell’Ue che hanno abolito il passaporto e altri controlli lungo le loro frontiere comuni, è stata istituita nel 1985. Oggi comprende 22 dei 28 membri dell’Ue, e altri quattro sono in attesa di poterci entrare. Solo due paesi, Regno Unito e Irlanda, non ne fanno parte.
Il sogno della libera circolazione nell’Ue ha generato allo stesso tempo una vera paranoia al suo interno. In cambio dell’area Schengen, infatti, è stata creata una fortezza Europa, una cittadella protetta dall’immigrazione da un sistema di sorveglianza ad alta tecnologia, fatto di satelliti e droni, e da recinzioni e navi da guerra. Un giornalista del settimanale tedesco Der Spiegel in visita alla sala operativa di Frontex, l’agenzia di controllo delle frontiere esterne dell’Ue, ha osservato che sembrava di parlare con persone che si trovano lì a “difendere l’Europa contro un nemico”.
Molte delle politiche messe in atto nell’ultimo anno trasmettono la sensazione di un continente in guerra. A giugno, un vertice di emergenza dell’Ue è sfociato in un piano in dieci punti che comprendeva l’uso della forza militare “per catturare e distruggere” le barche usate per trasportare illegalmente i migranti.
Poco dopo, l’Ungheria e altri paesi dell’Europa orientale hanno cominciato a erigere barriere di filo spinato. La Germania, l’Austria, la Francia, la Svezia e la Danimarca hanno sospeso le norme di Schengen e hanno reintrodotto controlli alle frontiere interne. A novembre l’Ue ha siglato un accordo con la Turchia, promettendo al paese 3,3 miliardi di dollari in cambio di maggiori controlli alle frontiere. A gennaio la Danimarca ha approvato una legge che permette le confisca di oggetti di valore ai richiedenti asilo come forma di risarcimento per il loro mantenimento.
Nonostante la sensazione di essere di fronteuna crisi senza precedenti, in realtà né la crisi in sé, né l’incoerente risposta dell’Ue rappresentano una vera novità.
Da più di un quarto di secolo le persone cercano di entrare in Europa rischiando la vita. Fino al 1991, la Spagna aveva una frontiera aperta con il Nordafrica, da dove i migranti partivano per compiere lavori stagionali e dove tornavano una volta finito. Nel 1986 una Spagna solo di recente democratizzata entrava nell’Ue. In quanto membro dell’Unione, ha dovuto tra le altre cose chiudere i confini con il Nordafrica. Quattro anni dopo, è stata ammessa nel gruppo di Schengen.
La chiusura delle frontiere spagnole non ha fermato i lavoratori migranti, che hanno cominciato a usare piccole imbarcazioni per attraversare il Mediterraneo e raggiungere la Spagna. Il 19 maggio del 1991 sono arrivati a riva i primi cadaveri di migranti clandestini. Da allora si stima che più di ventimila persone siano morte nel Mediterraneo nel tentativo di entrare in Europa.
La Spagna ha due avamposti in Marocco, Ceuta e Melilla. Dopo l’ingresso nell’area Schengen, il paese ha costruito un bastione da trenta milioni di euro per sigillare le sue enclave separandole dal resto dell’Africa. L’Ue ha cominciato a pagare le autorità marocchine per rastrellare e imprigionare qualsiasi potenziale migrante, spesso con enorme brutalità.
L’approccio spagnolo ha offerto il modello per le successive politiche dell’Ue sulle migrazioni: una strategia tripartita fatta di criminalizzazione dei migranti, militarizzazione delle frontiere ed esternalizzazione dei controlli pagando a stati che non appartengono all’Unione, dalla Libia alla Turchia, enormi quantità di soldi per fare la guardia alla frontiera dell’Europa. Ancora una volta i migranti hanno cercato tragitti diversi, spesso più pericolosi. È per questo che tantissimi di loro stanno viaggiando attraverso la Grecia e i Balcani.
Rispetto a quanto accade in altre aree del pianeta, non si può certo dire che i profughi stiano ‘inondando’ l’Europa
Per quanto i numeri siano alti, è bene contestualizzare le cifre relative ai migranti che arrivano in Europa: nel 2015 sono stati un milione, tra profughi e migranti, cioè poco più dello 0,1 per cento della popolazione europea. Ci sono già 1,3 milioni di rifugiati siriani in Libano, il 20 per cento della popolazione del paese. In proporzione, è come se l’Europa ospitasse 150 milioni di profughi. La Turchia, il paese sul quale l’Ue vorrebbe scaricare migranti e profughi, ospita già due milioni di rifugiati.
Rispetto a quanto accade in altre aree del pianeta, non si può certo dire che i profughi stiano “inondando” l’Europa. A sopportarne il peso maggiore sono alcuni dei paesi più poveri del mondo, e questo è l’aspetto più deprecabile delle politiche dell’Ue, perché sembrano poggiare sull’idea che solo i paesi poveri dovrebbero avere a che fare con migranti e profughi.
Il secondo fattore da tenere in considerazione nell’attuale crisi migratoria è il contesto politico. La divisione tra socialdemocratici e conservatori emersa dopo la secondo guerra mondiale in Europa non è esiste più. La sfera politica si è ristretta per lasciare spazio a una forma di gestione tecnocratica piuttosto che di trasformazione sociale. Una delle tante conseguenze è la crisi della rappresentanza, la crescente sensazione delle persone di non contare niente davanti a istituzioni politiche sempre più lontane e corrotte.
Ostilità e panico
L’immigrazione non ha avuto alcun ruolo nel determinare i cambiamenti che hanno causato la frustrazione di così tante persone. Non è responsabile dell’indebolimento del movimento dei lavoratori, né della trasformazione dei partiti socialdemocratici o dell’imposizione di politiche di austerità. Tuttavia, l’immigrazione è diventata una specie di capro espiatorio per questi cambiamenti. Nel frattempo, l’Ue è diventata il simbolo della distanza tra le persone comuni e la classe politica. Il tutto è sfociato in una crescente ostilità nei confronti dei migranti e nel panico diffuso tra chi deve prendere decisioni politiche.
Allora cosa bisogna fare? È possibile conciliare l’adozione di politiche etiche e praticabili sulle migrazioni con le aspirazioni democratiche dell’opinione pubblica europea? Tanti sembrano voler fare a meno di un mandato democratico, altri sembrano disposti a rinunciare a una politica giusta e praticabile. L’opinione prevalente è che l’Europa abbia bisogno di controlli più rigidi, di recinti più alti, di più pattugliamenti militari. Anche se queste misure sembrano popolari e chi le promuove si dichiara “realista”, non si tratta solo di un approccio immorale, ma anche poco praticabile.
La storia degli ultimi 25 anni ci dice che a prescindere da quanto si rafforzi la fortezza Europa, recinti e navi da guerra non fermeranno i migranti. Né controlli più rigidi modificheranno la percezione del problema tra l’opinione pubblica. Trasformare ancora di più l’Europa in una fortezza non contribuirà ad attenuare il senso di frustrazione così diffuso. Gli “idealisti”, d’altro canto, cercano di promuovere politiche sull’immigrazione più etiche, ma sembrano disposti a fare a meno della volontà democratica per applicarle. Questo approccio non è più attuabile o più etico di quello realistico. Nessuna politica a cui l’opinione pubblica è ostile potrà mai funzionare.
Politiche migratorie più liberali possono essere attuate solo con il consenso dell’opinione pubblica
Come ha scoperto la cancelliera tedesca Angela Merkel, favorire una politica liberale sulle migrazioni senza prima conquistare il sostegno dell’opinione pubblica può essere disastroso. Ad agosto la Germania ha sospeso unilateralmente il regolamento di Dublino, la normativa europea in base alla quale i migranti devono fare richiesta di asilo nel primo paese dell’Ue in cui arrivano. Merkel non si è sforzata però di convincere la Germania del valore di questo nuovo orientamento politico. Il contraccolpo è stato fortissimo e dall’oggi al domani è stata costretta a tornare sui suoi passi e a reintrodurre i controlli alle frontiere. Tutto ciò ha determinato una maggiore ostilità nei confronti dei migranti e della stessa Merkel.
Nelle politiche sull’immigrazione non ci sono soluzioni rapide che consentono di tenere assieme le istanze dell’etica, dell’attuabilità e della democraticità. La crisi dei migranti va avanti da tanto tempo e, a prescindere dalle misure che saranno prese, non si risolverà nel giro di uno o due anni. Il problema di fondo non è tanto politico, ma di atteggiamento e percezioni.
Politiche migratorie più accoglienti possono essere attuate solo con il consenso dell’opinione pubblica, non a dispetto della sua opposizione. Conquistare questo consenso non è impossibile, non c’è nessuna legge secondo cui le persone debbano necessariamente essere ostili all’immigrazione. Ampi settori dell’opinione pubblica sono diventati ostili perché hanno finito per associare l’immigrazione con cambiamenti inaccettabili.
Ecco perché, paradossalmente, il dibattito sull’immigrazione non può essere vinto solo parlando di immigrazione, né la crisi dei migranti può essere risolta solo mettendo in atto politiche sulle migrazioni. Le paure attuali sono espressione di una più ampia sensazione di non avere voce e peso nella sfera politica. Finché non sarà affrontato questo problema, l’arrivo dei migranti sui lidi europei continuerà a essere considerato come una crisi.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.
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