La storia di Alex Orlyuk non sembrava destinarlo all’apatia politica. È nato in Unione Sovietica in una famiglia segnata dalla shoah che, quando lui aveva sei anni, si è trasferita a Tel Aviv, dove è andato a scuola e ha fatto il servizio militare. Orlyuk segue la politica e apprezza la democrazia. Pensa che il suo governo dovrebbe fare di più per ottenere la pace con la Palestina, per separare stato e religione e per ridurre le disuguaglianze. Oggi ha ventotto anni e, pur avendone il diritto, non ha mai votato nelle ultime quattro elezioni politiche.
Alex afferma che la sua astensione è “una dichiarazione politica” sullo stato pietoso della politica di Israele. È convinto che nessuno dei partiti esistenti realizzerà i cambiamenti che lui desidera. Molti altri giovani israeliani condividono la sua disaffezione. Alle elezioni politiche del 2013 ha votato solo il 58 per cento degli elettori sotto i 35 anni, e solo il 41 per cento di quelli sotto i 25; di contro, ha votato l’88 per cento di quelli sopra i 55 anni. Nessun altro paese ricco presenta un divario così grande tra l’astensione di chi ha meno di 25 anni e quella di chi ne ha più di 55.
La politica israeliana – incentrata su questioni come la guerra e la pace, l’identità religiosa, i rapporti con i palestinesi – è certamente atipica, ma il comportamento elettorale dei giovani israeliani segue lo stesso schema del resto del mondo ricco. Nel Regno Unito e in Polonia, alle ultime elezioni politiche ha votato meno della metà degli under 25.
Alle elezioni del 2015, in Svizzera due terzi dei giovani nati tra gli anni ottanta i duemila (i cosiddetti millennials) sono rimasti a casa, come quattro quinti di quelli statunitensi alle elezioni per il congresso del 2014. L’affluenza al voto è calata in tutto il mondo ricco, ma tra i giovani questo fenomeno è più veloce. Secondo Martin Wattenberg della University of California, Irvine, in molti casi il divario di affluenza elettorale tra giovani e anziani ricorda il divario razziale nel sud degli Stati Uniti nei primi anni sessanta, quando i governi statali reprimevano sistematicamente il voto dei neri.
Abitudini perse
Le tendenze demografiche indeboliscono ulteriormente l’espressione politica dei giovani. Alle elezioni statunitensi del 1972, le prime in cui votarono i diciottenni, circa un quinto degli adulti aveva meno di venticinque anni. Nel 2010 gli adulti sotto i 25 anni erano uno su otto. In base a questa tendenza, entro la metà del secolo questa fascia d’età si ridurrà a un decimo della popolazione statunitense adulta. Il blocco elettorale rappresentato dai giovani, da centrale che era, passerà a una posizione marginale.
Di qui la preoccupante possibilità che l’attuale record negativo della partecipazione dei giovani al voto stia annunciando un cambiamento permanente. Secondo Michael Bruter della London school of economics, le abitudini elettorali si formano prestissimo, ovvero durante le prime due elezioni in cui una persona può votare. Se le generazioni future, scoraggiate dalla loro debole influenza, non adotteranno l’abitudine al voto, l’astensione aumenterà sempre di più, indebolendo la legittimità dei governi eletti.
I millennials non sono la prima generazione di giovani accusati di sottrarsi al loro dovere civico. Eppure sono interessati ai grandi temi più di quanto si pensi. Sono più istruiti delle generazioni precedenti, più inclini ad andare a una manifestazione o a diventare vegetariani, meno appassionati di droghe e alcol. Ma hanno perso molte delle abitudini che portavano i loro genitori a votare.
I millennials non considerano i partiti come movimenti degni di fiducia, ma come marchi da scegliere o ignorare
Nel Regno Unito, su cinque persone sotto i 25 anni solo tre guardano i notiziari alla televisione, a fronte di nove persone su dieci sopra i 55. I giovani sono anche meno inclini a leggere i giornali o ad ascoltare i notiziari radiofonici. Ogni anno circa un terzo dei diciannovenni britannici cambia casa; negli Stati Uniti le persone tra i 18 e i 30 anni traslocano mediamente quattro volte. Chi ha figli e possiede una casa è più legato alla propria comunità e più preoccupato del modo in cui è amministrata. Ma i giovani si sistemano più tardi di quanto facessero i loro genitori.
Il cambiamento più importante, tuttavia, non riguarda le circostanze ma gli atteggiamenti. Secondo Rob Ford della Manchester university, i millennials non considerano il voto come un dovere e, di conseguenza, non si sentono moralmente obbligati a votare. Al contrario, ritengono che i politici abbiano il dovere di corteggiarli. Non vedono i partiti come movimenti degni di fiducia, ma come marchi da scegliere o ignorare.
I millennials sono abituati a plasmare il mondo sulle proprie preferenze, personalizzando la musica che ascoltano e le notizie che consumano. Un sistema che gli chiede di votare per un pacchetto di promesse elettorali “tutto o niente” è poco allettante da questo punto di vista. Benché il numero dei giovani americani che sposano le classiche cause liberal sia in aumento, solo un quarto delle persone tra i 18 e i 30 anni si definisce “democratico”. Secondo il Pew research centre, la metà sostiene di essere indipendente, affermazione condivisa solo da un terzo delle persone sopra i 69 anni.
Nessuna comunicazione
I millennials sono anche il gruppo meno propenso a lasciarsi influenzare dalle promesse politiche. Secondo il sondaggista Bobby Duffy di Ipsos Mori, tendono molto meno della generazione del baby-boom (i nati tra il 1946 e la metà degli anni sessanta) o della generazione X (i nati tra la metà degli anni sessanta e la fine dei settanta) a credere che gli altri dicano la verità (vedi tabella). Considerano la “spontaneità” un segno di virtù e affidabilità, come dimostra per esempio il loro entusiasmo verso il telegenico premier canadese Justin Trudeau. Ma, in assenza di leader personalmente accattivanti, la sfiducia può sfumare nel cinismo nei confronti della democrazia in sé.
Quasi un quarto dei giovani australiani ha recentemente detto ai sondaggisti che “non ha importanza che tipo di governo abbiamo”. Un rapporto dello scorso anno ha rilevato che il 72 per cento degli statunitensi nati prima della seconda guerra mondiale giudicava “essenziale” vivere in un paese governato democraticamente. Meno di un terzo di coloro che sono nati negli anni ottanta era d’accordo.
La mancanza di fiducia si accompagna a un’interruzione della comunicazione tra politici e giovani. Nel 1967 circa un quarto degli elettori americani, sia giovani sia anziani, aveva avuto qualche forma di contatto con esponenti politici. Nel 2004, per gli anziani questa percentuale era quasi raddoppiata, mentre per i giovani era rimasta al 23 per cento.
Negli Stati Uniti i partiti hanno reagito di conseguenza: nel 2012 hanno raggiunto tre quinti degli elettori più anziani, ma solo il 15 per cento dei più giovani. Secondo un sondaggio effettuato alcune settimane prima delle elezioni presidenziali dello scorso anno dal Centre for information & research on civic learning and engagement della Tufts tniversity (Circle), anche se nella politica statunitense il denaro scorreva a fiumi, solo il 30 per cento dei millennials riferiva di essere stato raggiunto da una delle campagne. E, quando i partiti raggiungono i giovani, spesso lo fanno con un messaggio creato per gli elettori in generale, non su misura per loro. Il che, dice Michael Bruter, può essere controproducente.
Molti giovani disillusi considerano l’astensione un modo per esprimere l’insoddisfazione nei confronti dell’offerta politica. Ma il rifiuto del voto li intrappola in un ciclo di abbandono e alienazione. I politici sanno che i più anziani hanno una maggiore propensione al voto e modellano le proprie politiche di conseguenza.
I giovani, vedendo un sistema che gli offre poco, tendono ancora di più a tenersi fuori, il che dà ai partiti una ragione in più per ignorarli. Alcuni partiti trascurano completamente i giovani: nei Paesi Bassi, 50Plus, che si occupa quasi esclusivamente degli interessi dei pensionati, nei sondaggi è dato a percentuali con due cifre.
Lezioni di vita
Anche i partiti che non si rivolgono esclusivamente agli anziani tendono a favorirli sempre più quando definiscono le loro politiche. I giovani lavoratori pagano le tasse per sistemi sanitari e previdenziali che, probabilmente, quando loro andranno in pensione non saranno altrettanto generosi. In Australia chi ha più di 65 anni non paga tasse fino a un reddito di 32.279 dollari australiani; i giovani lavoratori pagano le tasse a partire dai 20.542 dollari australiani.
Nel Regno Unito le tessere gratuite per gli autobus, gli abbonamenti alla televisione e i sussidi per l’energia per i pensionati sono sopravvissuti ai tagli governativi; l’assistenza abitativa per i giovani no. In tutta l’Europa occidentale, i giovani esprimono in misura maggiore un’opinione favorevole sull’Unione europea, ma sono gli anziani, più scettici nei suoi confronti, a pesare sui governi. Il recente voto britannico a favore dell’uscita dall’Ue è dipeso in gran parte dal voto dei pensionati; la schiacciante maggioranza dei giovani ha votato per rimanere.
Chi si preoccupa per il futuro della democrazia cerca i modi per far crescere la partecipazione elettorale dei giovani. Il più ovvio sarebbe l’obbligatorietà del voto, come in Australia, in Belgio, in Brasile e in molti altri paesi. Barack Obama ha detto che una mossa del genere sarebbe “trasformativa” per l’America, poiché rafforzerebbe la voce dei giovani e dei poveri.
Gli adolescenti che sperimentano la democrazia durante gli studi sono più inclini a votare in seguito
Secondo Bruter, però, il voto obbligatorio aumenterebbe artificialmente l’affluenza senza affrontare le cause sottostanti. A suo parere, la priorità dovrebbe essere di ispirare tra i giovani la sensazione che “il sistema ti ascolta ed è reattivo nei tuoi confronti”, cosa che a sua volta rafforzerebbe l’impegno politico.
Uno dei luoghi in cui creare tale convinzione è la scuola. Gli adolescenti che sperimentano la democrazia di prima mano durante gli studi sono più inclini a votare in seguito. Secondo Jan Germen Janmaat dell’University College London, le elezioni studentesche danno ai giovani la sensazione di avere il potere di plasmare le istituzioni che li circondano.
I programmi di educazione civica che comportano discussioni e dibattiti aperti favoriscono l’impegno politico negli anni seguenti più dei corsi che impartiscono informazioni sulle istituzioni governative, afferma. Eppure le scuole e i governi, temendo forse le accuse di politicizzare le aule, si tengono alla larga da questo genere di programmi.
Un’altra opzione potrebbe essere abbassare ulteriormente l’età del diritto di voto. In molti paesi, le abitudini elettorali si formano in un periodo particolarmente instabile della vita dei giovani: i pochi anni successivi alla fine della scuola. In Argentina, in Austria e in altri paesi si sta cercando di anticipare la formazione delle abitudini elettorali abbassando l’età minima a 16 anni. In questo modo, i giovani esprimono il loro primo voto mentre vanno ancora a scuola e vivono con i genitori: in Austria, l’unico paese europeo dove possono votare al livello nazionale a 16 e 17 anni, si sono dimostrati più propensi di chi ha tra i 18 e i 20 anni a partecipare alle sue prime elezioni.
In attesa di un eroe
Un altro approccio ancora è quello di rimuovere gli ostacoli al voto che hanno un maggiore impatto sui giovani. Negli Stati Uniti molte leggi vietano la registrazione alle liste elettorali nel mese precedente le elezioni; secondo Kei Kawashima-Ginsberg di Circle, tali leggi colpiscono in modo sproporzionato i giovani, poiché questi ultimi tendono a captare più tardi i messaggi delle campagne elettorali. Una soluzione usata in alcuni paesi, come la Svezia e il Cile e l’Italia, è di inserire le persone nelle liste elettorali in modo automatico, al compimento del diciottesimo anno di età.
È importante anche fare in modo che chi si è trasferito e ha dimenticato di aggiornare i propri dati non sia colto in fallo il giorno delle elezioni; poiché le persone giovani cambiano casa più spesso, è più probabile che siano loro a trovarsi in questa situazione. Negli Stati Uniti, in alcuni casi nazionali, si sta sperimentando l’iscrizione elettorale “portatile”, per cui un cambiamento di indirizzo presso qualunque istituzione governativa sia trasferito nel registro elettorale.
Poiché i millennials sono sempre meno motivati al voto, un’eventuale inversione di tendenza appare pericolosamente legata a singoli politici e a singole questioni. In Canada solo il 37 per cento delle persone tra i 18 e i 24 anni ha votato alle elezioni parlamentari del 2008, e il 39 per cento nel 2011. Nel 2015 l‘“effetto Trudeau” ha fatto salire bruscamente il voto giovanile al 57 per cento.
Alex Orlyuk ricorda con affetto Yitzhak Rabin, il primo ministro israeliano assassinato quando lui aveva sette anni, per “aver cercato di realizzare un cambiamento” attraverso la pacificazione con i palestinesi. “Sto ancora aspettando l’arrivo di un altro Rabin. Allora voterò”, dice. Per i politici, nel frattempo, le sue opinioni e i suoi interessi – così come quelli di altri giovani – saranno fin troppo facili da ignorare.
(Traduzione di Cristina Biasini)
Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it