Chiamiamo inverni delle intelligenze artificiali quei momenti storici in cui c’è poco interesse per queste tecnologie. Non è il caso del periodo in cui ci troviamo, anzi. In questa estate del 2024, oltre alle questioni che vediamo abitualmente, c’è il disegno legge voluto dal governo Meloni che, proprio in questo momento, si trova all’esame di alcune commissioni parlamentari, una delle fasi dell’iter legislativo.

Quando il decreto è stato presentato in bozza ne abbiamo parlato raccontando come le idee della destra, in Italia, stiano avendo la meglio anche nell’ambito delle ia. Esaminare attentamente il testo è utile perché racconta molti dei fraintendimenti che stiamo vedendo replicati sui media e fra i decisori politici.

Un buon articolo su cui concentrarsi, specchio di equivoci e falsi problemi, è il dodicesimo, dedicato alle professioni intellettuali. “L’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale” in queste professioni, si legge al primo comma, “è consentito esclusivamente per esercitare attività strumentali e di supporto all’attività professionale e con prevalenza del lavoro intellettuale oggetto della prestazione d’opera”.

Se una persona che svolge una professione intellettuale non dovesse essere in grado di dimostrare la “prevalenza del lavoro intellettuale”, quindi, avrebbe automaticamente il divieto di utilizzare questi strumenti.

Cosa dovrebbe fare, dunque? Tenere traccia scritta del suo lavoro creativo? E come? Da quale momento? Dalle bozze? Oppure a partire dai pensieri che fa? Dal momento esatto in cui pensa un determinato incipit per il suo scritto o da quando ha la prima ispirazione per un’immagine o una scultura? Deve tenere traccia di come passa dall’idea all’azione?

Il percorso sembra abbastanza tortuoso: io stesso, per esempio, non sarei capace di spiegare da dove arrivano le idee per il pezzo principale di Artificiale. So che uso le intelligenze artificiali per recuperare storie, per trovarne altre, per la revisione delle bozze, per le sintesi, e so che alcune volte il percorso dialogico che ho con alcuni dei chatbot che uso modifica – a volte in parte, a volte significativamente, a volte per nulla – la mia idea di partenza.

E qui veniamo al secondo punto: cosa significa, esattamente “prevalenza del lavoro intellettuale”? Per esempio, se ho un’idea e poi la eseguo tutta, dall’inizio alla fine, utilizzando strumenti tecnologici che hanno anche elementi probabilistici – è proprio il caso delle ia generative – che possono contribuire a migliorare la mia idea, cosa succede? La “prevalenza del lavoro intellettuale” è salva? Qual è la soglia di lavoro intellettuale sotto la quale non si può scendere?

Nel libro Il cinema secondo Hitchcock (Pratiche Editrice 1977), intervistato da François Truffaut, Hitchcock dice: “Per me un film è finito al novantanove per cento quando è scritto. A volte preferirei non doverlo girare. Ci si immagina il film, poi tutto comincia ad andare a rotoli. Gli attori ai quali si è pensato non sono liberi, non si può avere sempre un buon cast. Sogno una macchina Ibm; nella quale inserire la sceneggiatura da una parte e veder uscire il film dall’altra. Finito e a colori”.

Le parole del regista inglese sono molto interessanti: la lavorazione di un film, in effetti, è un atto creativo. Non solo: include anche il lavoro di molte persone. Il film è corale, fatto di esperienze pregresse, ispirazioni, professionalità diverse che collaborano insieme per arrivare alla fine del progetto. C’è molta strada da fare perché la scrittura di un film diventi il film che poi verrà visto. Ma se il sogno di Hitchcock si avverasse, il suo lavoro “intellettuale” verrebbe forse meno? Non sarebbe più prevalente? E dunque, se fosse vivo e in Italia, gli sarebbe vietato usare intelligenze artificiali generative? E ancora, a monte: il lavoro di un regista è “prevalente” in un film, rispetto a quello delle decine, centinaia di persone che lavorano insieme per creare l’opera? Che ruolo ha il montaggio? E la recitazione? La fotografia? Migliorano o peggiorano il film?

Ora proviamo a pensare all’applicazione pratica di questo comma. Se ci sono usi delle intelligenze artificiali vietati alla persona che fa un lavoro intellettuale, allora bisognerebbe che qualcuno possa controllare: a cosa serve un divieto se non è né verificabile né sanzionabile? E qui inizia un potenziale incubo burocratico: come verrebbe controllata, esattamente, quella persona? Che documentazioni dovrebbe poter esibire e a chi, e per quale motivo?

Fermiamoci qui: queste serie di interrogativi sono sufficienti per evidenziare tutti i problemi che ci sono nei tentativi di mettere nero su bianco le regole, soprattutto se questi tentativi avvengono da punti di vista monolitici, con impostazioni conservatrici – quando non addirittura reazionari – e se sono stati alimentati per mesi da profondi fraintendimenti rispetto alla natura stessa di una tecnologia.

Il fraintendimento più grosso che riguarda le ia a supporto delle professioni intellettuali sta proprio nel fatto che le ia sono strumenti di supporto, sono alleati, aiutano, fanno liberare tempo per dedicarsi alle questioni squisitamente umane.

Ammettere questo fraintendimento non significa rinunciare alle regole, ma provare a pensare, da un punto di vista multidisciplinare e dialogico, a cosa abbia senso regolamentare e a quali regole vogliamo davvero e per tutelare chi.

Questo testo è tratto dalla newsletter Artificiale.

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