Gli ultimi dieci anni non sono stati un periodo positivo per le regioni più povere del pianeta. Anzi, l’Economist non esita a parlare di “decennio brutale”. Settecento milioni di persone nel mondo vivono ancora in condizioni di povertà estrema e 2,8 miliardi risiedono in zone che sono comunque ben lontane dagli standard di vita dei paesi ricchi. In realtà rispetto al 2000 la situazione è migliorata: oggi c’è un miliardo di persone in meno che vive sotto la soglia di sussistenza, calcolata dalla Banca mondiale in 2,15 dollari al giorno.

Il problema, sottolinea il settimanale britannico, è che questi progressi sono avvenuti in gran parte nei primi quindici anni del millennio. Nel 2022, per esempio, le persone che hanno superato la soglia di sussistenza sono state appena un terzo rispetto a quelle che ce l’avevano fatta nel 2013. Se i casi di malaria avessero continuato a diminuire al ritmo registrato tra il 2000 e il 2012, due anni fa ci sarebbe stata la metà dei malati. Tra il 2000 e il 2016 la mortalità infantile nei paesi in via di sviluppo è passata da 79 a 42 morti ogni mille nati: nei sei anni successivi la tendenza è rallentata, visto che il tasso è sceso solo fino a 37.

Gli economisti Dev Patel, dell’università di Harvard, e Arvind Subramanian, della Brown university, sostengono che a partire dal 1995 la crescita dei paesi a basso e medio reddito è stata ogni cinque anni più alta dello 0,1 per cento rispetto a quella dei paesi ricchi. Gran parte di questo risultato è dovuto ai progressi della Cina, dell’India, dei paesi dell’est asiatico e di quelli dell’Europa orientale. In particolare, tra il 2004 e il 2014 i 58 paesi più poveri del mondo, dove vivono 1,4 miliardi di persone, sono cresciuti del 3,7 per cento all’anno, contro l’1,4 per cento dei paesi ricchi.

Poi tutto è cambiato: la pandemia di covid-19 è stato un disastro per il mondo intero, ma soprattutto per i paesi in via di sviluppo; l’aumento dei tassi d’interesse per combattere l’inflazione ha fatto lievitare il costo dei debiti pubblici e ha ridotto il flusso di investimenti (ne abbiamo parlato qui); a tutto questo vanno aggiunti i danni prodotti dalla crisi climatica e dai vari conflitti in corso nel mondo, per non parlare dei colpi di stato e degli scandali di corruzione. Le cose vanno particolarmente male in Africa, dove il reddito medio dei paesi subsahariani è di poco superiore a quello del 1970.

Ma tra le cause delle difficoltà c’è anche il protezionismo, sottolinea Le Monde. “In Africa, Asia e America Latina l’attuale stagnazione del commercio globale è un problema. L’aumento del protezionismo occidentale, abbinato a una riduzione generalizzata degli aiuti internazionali, sta colpendo i più poveri del pianeta”, scrive il quotidiano francese. Ngozi Okonjo-Iweala, direttrice dell’Organizzazione mondiale del commercio, ha sottolineato che gli scambi internazionali hanno smesso di progredire a causa del continuo aumento delle restrizioni, degli ostacoli e delle barriere, oggi dieci volte maggiori rispetto al 2014.

I paesi poveri sono le vittime principali dello scontro commerciale tra le potenze globali. “Certo”, conclude Le Monde, “alla fine del novecento il libero scambio ha aiutato soprattutto centinaia di milioni di cinesi e indiani, mentre la classe media negli Stati Uniti e in Europa ha subito una perdita di status e di reddito”. Ma ricorrendo al protezionismo in nome di priorità strategiche si rischia “una regressione nella lotta contro la povertà”.

La situazione potrebbe anche peggiorare. Come ha spiegato in un intervento sul New York Times Shekhar Aiyar, economista della Johns Hopkins school of advanced international studies e del centro studi Bruegel, in caso di rielezione alla Casa Bianca “Donald Trump ha promesso di introdurre dazi dal 10 al 20 per cento su quasi tutte le importazioni statunitensi e del 60 per cento sulle merci cinesi. Anche tra i democratici, tuttavia, il protezionismo è particolarmente in voga. L’Inflation reduction act voluto dal presidente Joe Biden penalizza l’acquisto di prodotti stranieri, anche quando sono meno cari e migliori di quelli statunitensi”. I dazi più alti, scrive Aiyar, sono pensati per proteggere i posti di lavoro nei paesi ricchi, ma molti studi dimostrano che sono “regressivi e sterili”, perché rendono più cari i prodotti, penalizzando le famiglie con i redditi più bassi.

E, ammesso che riescano a proteggere alcuni settori, spesso provocano perdite di posti in altri comparti. Il prezzo più alto, aggiunge l’economista, sarà però pagato dai paesi in via di sviluppo, che avranno sempre più difficoltà a “sfruttare il commercio globale per irrobustire le loro economie e ridurre la possibilità per le nuove generazioni di sfuggire alle privazioni che in occidente oggi sono solo un lontano ricordo”. Se il commercio internazionale sarà piegato agli impulsi populisti, conclude Aiyar, i paesi ricchi avranno problemi, ma per la parte restante del pianeta sarà “una vera tragedia”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.

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