Nell’ultimo anno la Saudi Aramco, il colosso petrolifero di stato dell’Arabia Saudita, ha pagato ai suoi azionisti – quindi in gran parte al regime guidato da Mohammed bin Salman, che detiene il 97 per cento del capitale – dividendi per 93,2 miliardi di dollari. Una cifra simile non dovrebbe sorprendere: non è certo la prima volta che l’azienda, una delle più ricche del pianeta, premia così tanto i suoi proprietari. Ma la particolarità dei dividendi di quest’anno è che sono stati approvati anche se i conti registrano un aumento deciso dei debiti, mentre i prezzi bassi del greggio hanno ridotto le entrate e gli utili. Il ricco assegno è stato finanziato in parte con i debiti, tenendo conto che la liquidità netta è arrivata a 63,7 miliardi di dollari, quindi a una cifra inferiore a quella assicurata agli azionisti.
Come spiega Javier Blas, esperto di materie prime di Bloomberg, per finanziare Riyadh finora la Saudi Aramco ha speso ogni giorno più di cento milioni di dollari presi in prestito. Nel terzo trimestre del 2024 l’azienda aveva un debito netto di 8,9 miliardi di dollari, contro la liquidità netta di 27,4 miliardi dello stesso periodo di un anno fa e quella di 2,3 miliardi del secondo trimestre.
A luglio, per la prima volta dal 2021, la Saudi Aramco ha collocato obbligazioni per sei miliardi di dollari, mentre a settembre si è indebitata per altri tre miliardi emettendo obbligazioni legate alla legge islamica. Il governo di Riyadh, inoltre, ha raccolto dodici miliardi di dollari vendendo azioni del gruppo. Quest’anno, infine, alcune istituzioni statali, come il fondo sovrano Public Investment Fund, hanno emesso obbligazioni per cinquanta miliardi di dollari: in questo modo l’Arabia Saudita ha scavalcato la Cina, diventando il paese emergente che nel 2024 si è indebitato di più.
La priorità di Bin Salman è che la Saudi Aramco e le altre istituzioni statali continuino a foraggiare le finanze di Riyadh, sempre più assottigliate dai faraonici progetti di trasformazione del paese raggruppati nel programma Vision 2030. Lanciate nel 2016, queste iniziative comprendono opere come un resort grande quanto il Belgio in riva al mar Rosso, con hotel in stile Maldive sospesi sull’acqua, e Neom, una città futuristica grande 33 volte New York che costerà cinquecento miliardi di dollari. In origine il governo saudita aveva stabilito che il prezzo del greggio sui mercati mondiali dovesse mantenersi stabilmente tra i novanta e i cento dollari al barile per poter finanziare Vision 2030.
Purtroppo per Bin Salman le cose sono andate diversamente: nel terzo trimestre del 2024 il prezzo medio di un barile di greggio è stato di 79,3 dollari, dieci in meno rispetto a un anno fa. Sono serviti a poco i tagli alla produzione applicati dall’ottobre del 2022 dall’Arabia Saudita e altri paesi, tra cui la Russia, riuniti nel gruppo Opec+. Nei mesi scorsi Riyadh e i suoi alleati avevano addirittura annunciato un graduale rientro dai tagli, ormai rassegnati al fatto che il prezzo del greggio fosse destinato a restare basso per un lungo periodo. Tuttavia, il 3 novembre alcuni stati dell’Opec+ hanno rimandato gli “aggiustamenti volontari” almeno fino all’inizio del 2025, probabilmente nel disperato tentativo di non far scendere il prezzo sotto i settanta dollari.
Ora, dopo otto anni di investimenti, Bin Salman ha deciso di diventare più prudente e stringere un po’ la cinghia. Come racconta il Financial Times, Riyadh ha ordinato ai vari ministeri di “ridurre le spese per le consulenze, mentre alcuni progetti sono stati ridimensionati o bloccati per un lungo periodo di tempo”. La spesa per le consulenze di Neom è stata ridotta quasi di un terzo. Ma l’operazione non si limita a questo. Oltre ad aver trasformato il paese in un enorme cantiere, l’Arabia Saudita si è lanciata in una serie impressionante di investimenti internazionali, tra cui una quota di 3,7 miliardi nel capitale di Uber, 45 miliardi nella società d’investimento giapponese SoftBank e altri venti miliardi nel fondo statunitense Blackstone.
Agli impegni presi con Vision 2030 si sono aggiunti nel frattempo altri obiettivi ambiziosi, come la coppa d’Asia di calcio del 2027, i giochi invernali asiatici del 2029 e l’Expo del 2030. L’Arabia Saudita è inoltre l’unico paese che concorre per i mondiali di calcio del 2034. Secondo la società di consulenza britannica Knight Frank, negli ultimi otto anni Riyadh ha annunciato progetti edilizi per un valore complessivo di 1.300 miliardi di dollari e ha firmato contratti per 164 miliardi con aziende del settore. Insieme al Public Investment Fund ha fondato 93 aziende nella speranza di creare nuove industrie e diversificare l’economia riducendo la dipendenza dal petrolio.
I dirigenti del fondo però avvertono che “le risorse non sono illimitate” e hanno annunciato che ridurranno gli investimenti all’estero per concentrarsi sull’economia nazionale. Secondo la Securities and exchange commission (Sec, l’autorità di vigilanza della borsa statunitense), le azioni di Wall Street nella mani del Public Investment Fund sono passate dai 35 miliardi di dollari della fine del 2023 ai 20,6 miliardi di giugno 2024.
È arrivato il momento di fare i conti con la realtà: il mercato del greggio non può più garantire all’Arabia Saudita le entrate di un tempo e soprattutto quell’ampio margine di manovra che le permetteva di influenzare il prezzo aumentando o diminuendo la sua offerta. Da qualche anno c’è un concorrente che prima era marginale e oggi è in grado di immettere sul mercato enormi quantità di greggio, contrastando efficacemente l’Opec+: le aziende statunitensi che estraggono petrolio e gas nel bacino Permiano, tra il Texas e il New Mexico, con la tecnica del fracking, o fratturazione idraulica.
La produzione statunitense, scrive Bloomberg, ha raggiunto il livello record di 13,3 milioni di barili al giorno, il 48 per cento in più rispetto all’Arabia Saudita. Il divario riguarda anche la produttività: il greggio viene ottenuto con un terzo in meno dei pozzi e molti meno operai rispetto a dieci anni fa. E l’anno prossimo la produzione dovrebbe quasi raddoppiare, aggiungendo altri seicentomila barili al giorno.
L’Agenzia internazionale per l’energia prevede che nel 2029 le riserve del bacino Permiano cominceranno ad assottigliarsi, ma per il momento il divario è enorme e continuerà a far soffrire Bin Salman. Un dato è molto significativo: nel 2014 le aziende del bacino Permiano avevano bisogno di un prezzo di almeno settanta dollari al barile per fare profitti; dieci anni dopo gli bastano quaranta dollari.
Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.
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