Il 21 novembre la Northvolt, azienda svedese che produce batterie, ha richiesto la procedura di amministrazione controllata prevista dal chapter 11 della legge sui fallimenti degli Stati Uniti. La decisione è stata presa perché l’azienda non riesce a onorare i suoi debiti: attualmente ha liquidità per trenta milioni di dollari, ma deve restituire 5,8 miliardi. Ora, sotto la sorveglianza dell’autorità giudiziaria e di un amministratore nominato dal tribunale, avrà la possibilità di evitare il fallimento, perché potrà procedere a una ristrutturazione godendo della protezione temporanea dai creditori.

Il 22 novembre sono arrivate le dimissioni di Peter Carlsson, cofondatore e amministratore delegato della Northvolt. Sotto la sua guida l’azienda svedese aveva investito somme ingenti per raggiungere rapidamente le dimensioni necessarie a competere con i produttori di batterie della Cina e della Corea del Sud. Carlsson aveva aperto la fabbrica principale della Northvolt nella cittadina svedese di Skellefteå, vicino al Circolo polare artico, e stava lavorando all’avvio di altri impianti in Germania, negli Stati Uniti e in Canada.

Per questi progetti erano stati raccolti capitali per dieci miliardi di dollari. Era previsto inoltre un collocamento trionfale in borsa del valore di venti miliardi. Ma nell’ultimo anno l’azienda era stata messa in ginocchio da una fulminante crisi di liquidità, causata dal rallentamento del mercato delle auto elettriche e dal conseguente calo della domanda di batterie. Già alla fine del 2023 le perdite ammontavano a 1,2 miliardi di dollari, con un fatturato di appena 128 milioni. Nel marzo 2024 il produttore svedese di camion Scania aveva denunciato ritardi nei suoi piani di transizione al motore elettrico, causati tra l’altro dalle difficoltà produttive della Northvolt. L’azienda svedese aveva cercato di risanare i conti licenziando un quarto dei dipendenti e bloccando alcuni nuovi progetti, ma di recente la situazione era precipitata dopo la perdita di un importante contratto con la Bmw e di un finanziamento da cinque miliardi di dollari.

Non siamo davanti al semplice crollo di un’azienda che ha fatto male i conti con i suoi investimenti. Dietro c’è molto di più, visto che la Northvolt era il fiore all’occhiello della transizione energetica della Svezia e dell’intera Unione europea. Come spiega quest’articolo di Bloomberg tradotto di recente da Internazionale, la Northvolt era al centro di un ambizioso piano del paese scandinavo per lo sviluppo di tecnologie sostenibili, un’idea in cui il governo di Stoccolma aveva investito cento miliardi di dollari insieme al gruppo finanziario Vargas Holding. Accanto alla produzione di batterie c’è anche la fabbrica d’acciaio verde costruita dalla Stegra.

Entrambe le aziende hanno usato i contratti con clienti futuri per ottenere prestiti miliardari e costruire da zero le loro attività. Questi progetti, tra l’altro, richiedono consumi di energia elettrica elevatissimi: la Svenska Kraft­nät, l’operatore della rete ad alta tensione della Svezia, sta lavorando per espandere il sistema elettrico del nord della Svezia; in un’area che si estende per 380 chilometri verso la Finlandia sta costruendo la Aurora line, una nuova rete elettrica che costerà quattro miliardi di corone (366 milioni di euro). In origine il collegamento era stato concepito soprattutto per esportare energia verso la Finlandia, invece ora è diventato cruciale per la transizione energetica svedese. Anche la distribuzione di elettricità dovrà diventare più robusta: la Vattenfall, il più grande fornitore di energia elettrica del paese, ha dichiarato che l’espansione della sua rete nei prossimi cinque anni sarà paragonabile a quella avvenuta negli ultimi cinquanta.

Il problema, tuttavia, riguarda l’intera Unione europea, che vedeva nella Northvolt la speranza più concreta di realizzare un’industria dell’auto elettrica indipendente dalle forniture esterne, in particolare da quelle di paesi asiatici come la Cina e la Corea del Sud. Le cose sono andate diversamente: progettare e produrre batterie si è rivelato molto più complesso e costoso del previsto. Al riguardo è significativo, scrive il Financial Times, il giudizio impietoso espresso a settembre da Robin Zeng, l’amministratore delegato del colosso cinese delle batterie Catl. Rivolgendosi a Nicolai Tangen, il capo del fondo sovrano della Norvegia, Zeng ha detto: “Hanno un design sbagliato, un processo produttivo sbagliato, l’equipaggiamento sbagliato. Come possono pensare di crescere con tutti questi errori messi insieme?”.

Il crollo della Northvolt dimostra le enormi difficoltà dei progetti di decarbonizzazione dell’Unione europea, soprattutto in un settore fondamentale come quello dell’auto, che attraversa una crisi profondissima perché, tra l’altro, non è in grado di sostenere il passo della concorrenza cinese (ne ho parlato in quest’articolo). Bruxelles ha cominciato a investire nel settore della batterie nel 2017: da allora l’Unione europea ha aumentato la sua quota di mercato dal 3 al 17 per cento e nel 2023 è arrivata a un fatturato annuale di 81 miliardi di euro dopo aver speso più di sei miliardi. Ma oggi i leader asiatici delle batterie – le cinesi Catl e Byd e le sudcoreane Lg Energy Solution e Sk – controllano ancora il 70 per cento del mercato mondiale. Inoltre, molte della trenta gigafactory europee sono state progettate e costruite con l’aiuto dei cinesi e dei sudcoreani.

Le conseguenze del fallimento della Northvolt cominciano già a farsi sentire, visto che le case automobilistiche europee sono costrette a rivolgersi ai fornitori asiatici, che ora avranno anche più spazio di manovra in Europa. La Lg e la Sk hanno un impianto a testa, rispettivamente in Polonia e in Ungheria, mentre la Catl è presente in Germania e dall’anno prossimo dovrebbe aprire una nuova fabbrica in Ungheria.

È difficile tuttavia che nel breve periodo possano aiutare la transizione energetica europea: da un lato anche queste aziende risentono del rallentamento dell’auto elettrica in tutto il mondo (i produttori coreani, per esempio, sono stati penalizzati dagli investimenti miliardari fatti in Nordamerica), dall’altro si faranno presto sentire gli effetti della guerra commerciale a cui ha ridato vigore il presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, che subito dopo il suo insediamento intende imporre dazi più alti alla Cina, al Messico e al Canada. Senza contare che di recente la stessa Unione europea ha deciso di aumentare drasticamente i dazi sulle auto elettriche prodotte in Cina.

Resta da capire se ci vorrà ancora del tempo prima che l’Unione europea abbia una sua industria consolidata delle batterie e delle tecnologie sostenibili o se invece abbia già perso la sfida e debba accettare di dipendere dall’Asia. Nel frattempo in Portogallo l’azienda petrolifera Galp ha deciso di bloccare il progetto Aurora, una raffineria di litio che doveva sorgere nella regione di Setúbal, a sud di Lisbona, proprio in collaborazione con la Northvolt, e permettere lo sfruttamento dei ricchi giacimenti di litio del paese. In seguito alla crisi dell’azienda svedese, la Galp ha cercato invano nuovi soci internazionali. In Norvegia la Norsk Hydro, un’azienda che produce alluminio ed energia idroelettrica e che detiene una piccola quota del capitale della Northvolt, vuole chiudere la sua unità dedicata ai materiali per la produzione di batterie e al loro riciclaggio.

La tedesca PowerCo, di proprietà della Volkswagen, ha deciso di costruire solo uno dei due impianti previsti in origine per la produzione di batterie. E intanto la concorrenza cinese si dà da fare per ridurre ancora di più i prezzi e affrontare i dazi europei e quelli di Trump. Il Financial Times riferisce che la Byd, il più grade produttore mondiale di auto elettriche, ha chiesto ai suoi fornitori di tagliare i prezzi del 10 per cento.

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Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.

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