Cosa insegna l’austerità portoghese al resto d’Europa
Il 29 novembre 2024 il parlamento portoghese ha approvato in via definitiva l’Orçamento de estado 2025, il bilancio di previsione per il prossimo anno. La nuova legge finanziaria arriva a un decennio di distanza dalla fine dell’intervento di salvataggio attuato dalla Commissione europea, dalla Banca centrale europea e dal Fondo monetario internazionale, la cosiddetta troika, in seguito al crollo finanziario del 2011.
In questi anni il Portogallo ha raggiunto risultati straordinari: il rapporto tra il debito pubblico e il pil è sotto la soglia del 100 per cento (95,9 per cento), mentre nel 2014 era intorno al 130 per cento; nello stesso arco di tempo, inoltre, si è passati da un deficit pubblico pari al 7,4 per cento del pil a un surplus dello 0,4 per cento (1,6 per cento nel 2023), mentre il tasso di disoccupazione si è più che dimezzato, scendendo dal 13,9 al 6,5 per cento.
Oggi, di conseguenza, gli investitori chiedono tassi d’interesse decisamente più bassi per prestare i soldi al governo di Lisbona: basti pensare che nel gennaio 2012 il rendimento dei titoli di stato portoghesi a dieci anni era 10 punti percentuali più alto di quello dei titoli italiani; da tempo, invece, è più o meno sullo stesso livello (da maggio 2024, in particolare, i rendimenti portoghesi sono intorno al 3,4 per cento, mentre attualmente i btp italiani a dieci anni rendono il 3,2 per cento).
Uscire dal crollo finanziario non è stato facile. Nella primavera del 2011 il governo di Lisbona, guidato all’epoca dal socialista José Sócrates, fu costretto a chiedere l’intervento della troika, che mise a disposizione un pacchetto di aiuti da 78 miliardi di euro per evitare l’insolvenza. Erano gli anni della grande crisi dei debiti pubblici nell’eurozona, che aveva già colpito la Grecia e l’Irlanda. Ci furono anche gravi contraccolpi nel settore bancario in Spagna, e in generale ebbero problemi tutti i paesi dell’area troppo indebitati, tra cui l’Italia (quell’anno il nostro paese sfiorò il tracollo con una crisi che portò alla caduta del governo guidato da Silvio Berlusconi e l’arrivo a palazzo Chigi di Mario Monti).
La crisi del Portogallo fu innescata dalla recessione economica: il declino repentino del pil aveva provocato un brusco calo delle entrate dello stato, rendendo insostenibile il peso del debito pubblico. L’arrivo degli aiuti significò l’approvazione di un duro piano d’austerità con profondi tagli alla spesa, misure contro l’evasione fiscale e riforme radicali. La cura dolorosa fu somministrata sia dai conservatori, al governo dal 2011 al 2015, sia dai socialisti, che hanno guidato il Portogallo fino all’inizio del 2024, quando è tornato al potere il Partido social democrata (Psd) dell’attuale primo ministro Luís Montenegro.
Il governo portoghese comincia a finanziare misure senza dover ricorrere a un maggiore debito: nel prossimo bilancio, per esempio, ci sono agevolazioni fiscali per i giovani, una maggiore spesa sanitaria e l’aumento delle pensioni. Il risanamento, tuttavia, continua a pesare sulla società. Gli anni dell’austerità hanno lasciato tracce profonde su molti servizi essenziali dello stato. Questo è il caso della sanità, una delle maggiori conquiste della Rivoluzione dei garofani. Tra il 2011 e il 2013 furono approvate misure di risparmio per circa un miliardo di euro, oltre a ulteriori tagli ottenuti eliminando alcune forme di esenzione.
Nel corso degli anni il sistema sanitario è stato reso in effetti meno pesante per i conti pubblici: nel 2022 il Portogallo ha speso nella sanità 2.814 euro per cittadino, meno della media dell’Unione europea, che due anni fa era di 3.533 euro, e poco più della metà rispetto alla Germania, che ha speso più di tutti con 5.317 euro. Ma il prezzo da pagare è stata la minore accessibilità alle famiglie più povere: oggi senza un’assicurazione e il ricorso ai privati non è facile ricevere agevolmente molte cure.
Il sistema sanitario pubblico, inoltre, soffre di carenze di personale, mentre i lavoratori impiegati nel settore protestano – come testimoniano i vari scioperi di medici e infermieri registrati quest’anno – perché sono pagati poco e vengono sottoposti a turni massacranti. Secondo uno studio dell’Ocse, nel 2022 un infermiere impiegato nel Lussemburgo o in Belgio aveva una paga tripla rispetto a quella dei colleghi portoghesi.
Il settimanale Expresso illustra il caso dell’Instituto nacional de emergência médica (Inem), un organismo del ministero della salute che coordina gli interventi di primo soccorso sul territorio: all’Inem un dipendente guadagna in media 922 euro lordi al mese, che possono aumentare di cinquanta euro ogni dieci anni, ma senza mai superare i 1.400 euro netti, compresi straordinari e vari sussidi. Tutto questo per un lavoro che vede il personale delle ambulanze soggetto a turni spossanti ed esposto a traumi psicologici e al rischio di incidenti e aggressioni. João Santos, sedici anni di carriera alle spalle e uno stipendio base di 936 euro lordi, racconta che alcuni suoi colleghi “hanno preferito andare a lavorare al supermercato, dove guadagnano la stessa cifra, ma almeno non corrono rischi particolari”.
La crisi, inoltre, ha provocato una fuga di cervelli senza precedenti. Il quotidiano Diário de Notícias parla della “generazione del 1989”, i portoghesi che erano all’università o stavano per finire gli studi tra il 2011 e il 2014: sono la giovane generazione che ha subìto in pieno le conseguenze della crisi e dell’austerità e che oggi, a 35 anni, non rientra in quasi nessuno dei benefici introdotti dallo stato per aiutare i giovani. Per esempio le agevolazioni per l’imposta sul reddito di chi ha meno di 35 anni, rafforzate con la finanziaria appena approvata. Molte di queste persone sono state costrette a emigrare all’estero in cerca di opportunità migliori.
Il fenomeno non è sparito: secondo la ministra del lavoro Rosário Palma Ramalho, quasi un terzo del giovani portoghesi lascia il paese; il suo collega delle finanze Joaquim Miranda Sarmento ha aggiunto che tra il 2021 e il 2023 sono andati via più di 42mila giovani con un livello d’istruzione avanzato. Tuttavia, il governatore della banca centrale, Mário Centeno, ha precisato che in realtà questa fuga di cervelli è compensata dall’arrivo di lavoratori stranieri altamente qualificati.
Secondo uno studio della società di consulenza Boston Consulting Group, i giovani portoghesi vanno all’estero perché ottengono non solo stipendi più alti, ma anche lavori che permettono orari flessibili e un maggiore equilibrio tra l’ufficio e la vita privata. In Portogallo non manca il lavoro, ma spesso è pagato poco e caratterizzato da orari pesanti. Il problema è che la ripresa economica degli ultimi anni è stata incentrata su settori poco produttivi, per esempio sul turismo. Per questo osservatori e politici ritengono necessaria una politica industriale che valorizzi comparti innovativi, in grado di offrire lavori e stipendi migliori.
Come ha spiegato l’economista José Reis in un’intervista al quotidiano Negocios, “avere tre quarti della manodopera attivi in settori con una produttività inferiore alla media, in alcuni casi molto al di sotto, vuol dire che il paese ha un problema: ha aziende che si rifugiano in settori ‘facili’, che non producono molta ricchezza e impiegano lavoratori che possono pagare poco”.
La parabola portoghese è ancora più significativa se si considera cos’è successo negli ultimi anni in altri paesi indebitati dell’eurozona. I governi che si sono succeduti a Lisbona dal 2011 in poi hanno avuto il coraggio di affrontare la realtà adottando misure impopolari, senza fare cinicamente promesse irrealizzabili pur di conquistare il consenso degli elettori. Anzi, l’austerità non ha impedito ai socialisti di essere confermati al governo alle elezioni del 2019 e del 2022.
La stessa cosa non è successa, per esempio, in Francia e in Italia, dove da anni avanzano formazioni populiste convinte che il risanamento dei conti pubblici possa essere ignorato o comunque non debba necessariamente comportare sacrifici per tutti. L’Italia comincia a pagare le gravi perdite inflitte al bilancio pubblico dai bonus edilizi, in particolare dal famigerato superbonus 110 per cento, probabilmente il più grave disastro della finanza pubblica italiana, costato finora 160 miliardi di euro: secondo la Commissione europea, quest’anno il debito pubblico italiano sarà pari al 136,6 per cento del pil e dovrebbe salire al 138,2 per cento nel 2025; il deficit scenderà invece al 3,8 per cento, rispetto al 7,2 per cento del 2023.
Ma è soprattutto la Francia in questi giorni a essere in difficoltà: il governo di minoranza guidato dal conservatore Michel Barnier, preso di mira dai populisti di estrema destra e dalla sinistra, è stato sfiduciato il 4 dicembre. La sua finanziaria da sessanta miliardi di euro tra tagli alla spesa e aumenti di tasse aveva l’obiettivo di ridurre il deficit pubblico al 5 per cento del pil, ma non vedrà mai la luce.
Alla vigilia della presentazione della legge, in un’intervista al quotidiano La Tribune, Barnier aveva dichiarato che in questo momento il dovere principale di chi guida la Francia è “contenere il debito pubblico”, augurandosi uno sforzo “collettivo e condiviso” delle forze politiche, perché “un paese è gestito meglio quando gli viene data la giusta prospettiva e gli viene detta la verità”. Appello che non ha fatto breccia nella classe politica, mentre la realtà si rivela sempre più allarmante: il 28 novembre i titoli di stato francesi hanno registrato per la prima volta un rendimento superiore a quello del debito pubblico greco, una situazione inimmaginabile fino a poco tempo fa. Caduto Barnier, il nodo dei debiti resta e andrà affrontato dal suo successore, chiunque sia. Un’operazione che, come insegna il Portogallo, sarà necessariamente dolorosa.
Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.
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