Venti minuti dopo la mezzanotte del 25 aprile 1974 Radio Renascença, la radio della chiesa portoghese, trasmise le note di Grândola, vila morena. Chi era in ascolto a quell’ora pensò sicuramente che stava succedendo qualcosa di inaudito, perché le note del cantautore José Afonso componevano il più noto canto antifascista del paese, proibito da un regime al potere da 48 anni.

Il capitano Otelo de Carvalho, nel progettare il golpe che avrebbe liberato il Portogallo dal fascismo più longevo d’Europa, pensava che la sollevazione militare, organizzata insieme a un gruppo di capitani stanchi di guerra, dovesse avere caratteristiche del tutto diverse da ogni altro colpo di stato.

Per realizzarne uno si comunica con codici segreti, ci si impossessa di radio e televisione, e si dichiara lo stato d’assedio, mentre i carri armati occupano strade e piazze per seminare panico nella popolazione.

De Carvalho rovesciò questo modo di fare. Sapeva che le caserme disposte a insorgere erano poche e che doveva puntare su una sollevazione popolare che sostenesse lo scontro finale con il fascismo. Decise così che il segnale d’inizio del golpe dovesse essere una canzone che in un verso esaltava “o povo quem mais ordena”, è il popolo che più comanda. I carri armati avrebbero certo dovuto occupare le strade e circondare i palazzi del potere per arrestare Marcelo Caetano, il dittatore succeduto ad António de Oliveira Salazar, ma avrebbero contemporaneamente invitato la popolazione a scendere in piazza per accompagnare la liberazione da un regime che aveva spinto il paese in una guerra nelle colonie che durava da tredici anni, causando decine di migliaia di morti.

Così fu. I carri armati, infatti, una volta nelle piazze centrali di Lisbona, aprirono i loro portelli. Alcuni capitani parlarono alla popolazione con dei megafoni, mentre i soldati invitavano chi era in piazza a salire sui loro mezzi militari. Nelle ore in cui si consumava l’assedio al principale palazzo del potere, nello scosceso e gremito di persone largo do Carmo, Celeste Caiero, giovane cameriera di un ristorante che non aveva potuto aprire per via del gran trambusto, prese un garofano rosso dal gran mazzo di fiori che aveva con sé e lo infilò nella canna del fucile di uno dei soldati che stavano circondando la residenza del dittatore. Il gesto fu così bello e significativo che molte donne e uomini la seguirono, dando così simbolo e nome a quella che sarebbe passata alla storia come la rivoluzione dei garofani.

Avevo vent’anni e quando vidi sui giornali le foto dei soldati con i fiori dentro le canne dei loro fucili non resistetti. Insieme a Paolo Hutter, giovane giornalista anche lui, organizzammo una colletta tra amici e partimmo.

La festa

Sette mesi prima, nel settembre 1973, avevamo assistito al trauma del golpe in Cile, in cui aveva trovato la morte Salvador Allende, il presidente socialista che aveva generosamente alimentato l’esperienza di una rivoluzione non violenta, affossata dal generale Augusto Pinochet in uno dei colpi di stato più violenti dell’America Latina. Hutter aveva vissuto i giorni del golpe a Santiago ed era stato anche arrestato nello stadio da cui in pochi uscirono vivi, ma non esitò a partire per Lisbona.

Atterrati nel vecchio aeroporto due giorni dopo la liberazione assistemmo alla festa per il rientro in patria di profughi politici dopo decenni di esilio in Francia. Più grande ancora fu la gioia nel partecipare allo sterminato corteo del primo 1 maggio libero, che attraversò le grandi strade con i marciapiedi bianchi di Lisbona.

Si disse che un milione di persone scesero in piazza in quella giornata e ricordo l’enorme quantità di finestre e balconi con esposte tovaglie, lenzuola e asciugamani colorati, a indicare il desiderio di partecipare a quella festa liberatoria.

Gli striscioni erano pochi e gli unici due slogan scanditi lungo il corteo furono “Um dois três, viva o povo português” (uno, due, tre, viva il popolo portoghese) e “Cataprin, cataprasc, nem Marcelo nem Tomás” (“Cataprin, cataprasc, né Marcelo né Tomás”, Marcelo era il nome del dittatore, Tomás del presidente che sosteneva il fascismo).

Per la stragrande maggioranza dei partecipanti quella era la prima manifestazione politica a cui partecipavano e dunque gli slogan erano semplici e imitavano i ritmi del tifo sportivo.

La sequenza tumultuosa e inaspettata di avvenimenti ravvivò in tutta Europa le speranze rivoluzionarie

Il mio coinvolgimento in quei giorni di liberazione fu tale che abbandonai l’università e andai a vivere in Portogallo, dove restai quasi due anni come corrispondente del quotidiano Lotta Continua.

Ricordo bene ogni dettaglio di quelle prime giornate in una Lisbona liberata. Nei mesi successivi capii quanto le singolari scelte di Otelo de Carvalho e degli altri militari avrebbero reso possibile la stagione rivoluzionaria che si stava inaugurando. De Carvalho aveva appena trent’anni quando guidò il colpo di stato che depose Caetano. Aveva combattuto in Africa perché da tredici anni l’esercito portoghese era in guerra contro i movimenti di liberazione nelle ultime colonie bianche. Ma i militari portoghesi, pur perpetrando rappresaglie e torture, non facevano che collezionare sconfitte in Angola, Mozambico e Guinea-Bissau.

Per un esercito perdere ogni battaglia solleva grandi problemi. Così, nei primi anni settanta, alcuni giovani capitani cominciarono a formare un gruppo che si riuniva clandestinamente e ragionava su come abbattere il regime fascista, deciso a mantenere con la guerra le colonie d’oltremare.

I capitani d’aprile

Accreditato come giornalista a Lisbona, incontrai più volte il capitano De Carvalho, curiosissimo di capire come fosse potuto succedere che un gruppo di militari di carriera fosse arrivato a concepire e a dare vita a un Movimento das forças armadas (Movimento delle forze armate), introducendo un ossimoro deflagrante nella più gerarchica delle istituzione.

De Carvalho, tanto generoso e appassionato quanto ingenuo, parlando da militare a volte sembrava assai schematico. I suoi ragionamenti erano semplificati all’estremo. Una volta mi domandò com’è che in Italia c’erano così tanti partiti politici visto che le classi erano solo due: borghesia e proletariato.

Riguardo alle scelte della sua vita, mi raccontò che nei lunghi anni di guerra nelle colonie, il perdere continuamente terreno lo convinse che i nemici guerriglieri erano dalla parte del giusto. Così, sospettando delle ragioni del regime che asserviva il Portogallo, cominciò a studiare i testi di Amílcar Cabral e Samora Machel, leader dei movimenti di liberazione della Guinea-Bissau e del Mozambico. Il loro slogan era “il popolo ha sempre ragione”, dunque era dando ragione e appoggiandosi al popolo che si doveva abbattere il fascismo.

Già, ma come? Lo strumento che un militare immagina per prendere il potere è per forza di cose il colpo di stato. Ma ecco che in Otelo de Carvalho e nei suoi compagni si fece strada quell’idea di golpe completamente ribaltata che avrebbe permesso, nel giro di pochi mesi, l’esplosione di movimenti popolari in grado di rovesciare, anche se per poco tempo, ogni gerarchia a Lisbona e nel sud del paese.

Sembra una favola, ma un regime che fu capace di imporsi con il terrore per 48 anni crollò nello spazio di un mattino, il 25 aprile di cinquant’anni fa. Prima di fuggire all’estero, il dittatore Marcelo Caetano fece l’ultimo tentativo di ostacolare la vittoria del Movimento delle forze armate e “perché il potere non cada nella strada” lo consegnò ad António de Spínola, un generale che sosteneva un’uscita morbida dal colonialismo, così da non mettere in dubbio gli equilibri di potere costruiti dal regime.

Ma la radicalità di quel rovesciamento non tollerava compromessi. Così il 28 settembre 1974 Spínola, tentando a sua volta un golpe contro i capitani, sarebbe stato deposto. In questo modo sarebbe cominciata la seconda fase del processo rivoluzionario portoghese guidato direttamente dal Movimento delle forze armate, che non avrebbe portato alla rivoluzione socialista, come immaginavano i più radicali tra i capitani del Movimento, ma avrebbe assicurato al Portogallo un anno di straordinarie conquiste popolari e il ritorno alla democrazia.

Riempire di fiori le canne dei fucili fu un’efficace immagine hippie nata negli anni sessanta

Deposto Spínola, Otelo de Carvalho assunse l’incarico di costituire il Copcon, un comando militare con funzioni di polizia, visto che la polizia fascista restava chiusa nelle caserme. In questo ruolo l’arte di azzardare l’impossibile del “capitano d’aprile”, diventato generale, raggiunse l’apice. Il motto che propose come guida di ogni azione del suo reparto lo prese dai movimenti di guerriglia africani: “O povo tem sempre razão”, il popolo ha sempre ragione.

Dargli sempre ragione voleva dire, in concreto, accorrere in aiuto degli operai che azzardavano autogestioni, ai contadini del sud che occupavano le terre dei grandi latifondi dell’Alentejo, a cronisti e tipografi che occuparono un giornale e una radio per sostenere i comitati di base nati ovunque.

Questa sequenza tumultuosa e inaspettata di avvenimenti ravvivò in tutta Europa le speranze rivoluzionarie della generazione del sessantotto, che si ritrovò in gran numero a Lisbona nell’estate 1975, a festeggiare “il paese più libero del mondo”.

Nel tornare con la memoria a quei giorni e a quei mesi, a volte penso che la mia ricostruzione rasenti l’invenzione mitologica. Sembra impossibile, eppure è realmente successo che ai confini estremi dell’Europa, a metà degli anni settanta, in un paese membro della Nato fin dalla sua fondazione, un gruppo di capitani, capaci di ascoltare le ragioni di nemici che combattevano per la liberazione delle loro terre dal colonialismo e suggestionati dalla rivolta parigina del maggio sessantotto, immaginò e organizzò un movimento dentro un esercito in guerra, scelse una romantica canzone popolare per comunicare l’avvio di una sollevazione antifascista e rovesciò il senso di possedere delle armi, sostituendo i proiettili con garofani rossi.

Riempire di fiori le canne dei fucili fu un’efficace immagine hippie nata negli anni sessanta, nel grande movimento di rivolta contro la guerra del Vietnam che percorse l’intero occidente. Il tempo ha banalizzato, edulcorato e neutralizzato il senso profondo di quell’opposizione giovanile di massa alla guerra, dimenticando che fu la principale ragione della sconfitta frontale subita dalla più grande potenza imperiale del mondo.

Ciò che realizzarono a Lisbona Otelo de Carvalho e i capitani d’aprile ebbe tuttavia un altro carattere, perché in quel caso furono coloro che detenevano le armi che decisero di neutralizzarle, infilando dei fiori nelle canne dei loro fucili, per dimostrare concretamente e simbolicamente che l’ultima guerra in difesa delle antiche colonie d’Africa era finita.

Non fu il potere delle armi, dunque, a rovesciare il fascismo portoghese, ma la rinuncia esplicita al loro uso da parte dei militari, che permise alla popolazione di solidarizzare con quella rivolta e tornare finalmente alla libertà e alla democrazia.

Il carattere pacifico della rivoluzione dei garofani si confermò il giorno della sua sconfitta. Il 25 novembre 1975, quando un gruppo di militari controrivoluzionari, maggioritari nel nord, circondò e assediò le caserme di Lisbona, il Movimento delle forze armate cedette il potere senza opporre resistenza. L’illusione di una rivoluzione socialista nel cuore dell’Europa e della creazione di un ponte tra il nuovo Portogallo e le ex colonie liberate dai movimenti guerriglieri svanì presto.

Svanì perché le utopie dei capitani furono accerchiate da pressioni militari ben più potenti e dalle inflessibili leggi del mercato, e non ebbero la forza di nascere e prendere corpo neanche nelle colonie africane, che per lunghi anni dopo la decolonizzazione non conobbero pace. Altri movimenti di guerriglia furono finanziati dagli Stati Uniti e dal Sudafrica razzista, scatenando interminabili guerre civili in Angola e Mozambico. Gli stessi movimenti di liberazione, inoltre, una volta giunti al potere, si dilaniarono in lotte intestine che li decapitarono. Un leader aperto e lungimirante come Samora Machel fu tradito dai suoi compagni e morì nel 1986 in un incidente aereo che fece nascere molti sospetti. Thomas Sankara fu ucciso l’anno dopo in Burkina Faso.

Dei mesi tumultuosi della rivoluzione dei garofani resta un singolare insegnamento e forse una speranza: che non ci sia istituzione che, in date circostanze storiche, non possa essere attraversata da un movimento che ne riveda il senso, aprendo prospettive inaspettate.

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