Uno degli aspetti più interessanti della transizione energetica verso fonti rinnovabili è il modo in cui trasformerà (sta già trasformando, in realtà) gli assetti geopolitici. Come è successo dopo l’avvento dei combustibili fossili – che per la maggior parte dell’ultimo secolo hanno condizionato i rapporti tra i paesi – anche la corsa alle risorse necessarie per ridurre le emissioni di anidride carbonica creerà dei vincitori e degli sconfitti, e probabilmente ribalterà alcuni dei rapporti di forza attuali.

In linea di massima gli analisti tendono a pensare che i paesi che hanno costruito la loro politica estera sulla vendita di petrolio e gas naturale perderanno peso sulla scena internazionale, a vantaggio di quelli che detengono le materie prime necessarie per sostenere la transizione energetica e di quelli che riusciranno a sfruttarle.

Ma, come spiega un lungo e interessante articolo di Foreign Affairs, è meglio non fare valutazioni avventate in proposito, perché molto dipenderà da una serie di fattori che al momento sono difficili da prevedere – come i cambiamenti nelle catene di distribuzione, l’introduzione di nuove tecnologie, la scoperta di nuovi giacimenti – e anche perché il processo sarà molto lungo. “I cosiddetti petrostati vivranno un periodo positivo prima che cominci il loro declino, perché i combustibili fossili convivranno inizialmente con le fonti rinnovabili, soprattutto per consentire la crescita di paesi in via di sviluppo”.

Inoltre è probabile, come sostengono i promotori delle energie pulite, che un mondo basato sulle rinnovabili sarà più stabile e sicuro di quello attuale; ma il periodo di transizione – i prossimi trent’anni – sarà segnato da sconvolgimenti senza precedenti negli equilibri globali, nelle dinamiche di potere e nella situazione generale dei singoli stati.

Partner ideale
La cosa certa è che la sfida tra le grandi potenze per il controllo delle risorse necessarie a sviluppare e a far funzionare le tecnologie pulite è cominciata, e gli Stati Uniti non sembrano posizionati benissimo. Il New York Times ha pubblicato una lunga inchiesta dalla Repubblica Democratica del Congo, che al momento fornisce più della metà delle scorte mondiali di cobalto, usato per produrre le batterie delle automobili elettriche. L’articolo fa luce sulla corruzione dei politici locali, sulle pessime condizioni di lavoro e sui danni ambientali, ma è anche il racconto del declino di Washington sulla scena internazionale.

I rapporti tra i due paesi sono sempre stati molto stretti. Durante la seconda guerra mondiale gli Stati Uniti si rivolsero al Congo belga dell’epoca per procurarsi l’uranio necessario per costruire le bombe atomiche che poi furono sganciate su Hiroshima e Nagasaki. E nei decenni successivi spesero decine di miliardi di dollari per proteggere i siti minerari nel territorio. Negli anni settanta il paese africano (che aveva cambiato nome in Zaire per volere del presidente Mobutu Sese Seko) fu fondamentale nella strategia di Washington per limitare l’influenza dell’Unione Sovietica in Africa. “Se perdiamo lo Zaire, ogni paese africano arriverà alla conclusione che Mosca rappresenti il futuro”, disse una volta il segretario di stato americano Henry Kissinger.

Washington, 1970. Richard Nixon con il presidente congolese Mobutu Sese Seko. (Bettmann, Getty Images)

Mobutu pensava che gli Stati Uniti fossero il partner ideale per sfruttare le grandi risorse minerarie del suo paese, perché portavano gli investimenti delle grandi aziende statunitensi e aiutavano a combattere e reprimere i ribelli filosovietici. Poi una serie di scelte sbagliate, negli anni duemila, ha cambiato la situazione. La Freeport-McMoRan, l’azienda statunitense che controllava le miniere congolesi, ha deciso di puntare forte sul gas e sul petrolio, spendendo venti miliardi di dollari per comprare due aziende del settore. Quando il prezzo del petrolio è crollato, l’azienda si è trovata sommersa dai debiti, e nel 2016 ha dovuto vendere la miniera di cobalto e rame di Tenke Fungurume, la più importante del paese. Le uniche acquirenti erano aziende cinesi sostenute dagli investimenti di Pechino. Se l’è aggiudicata la China molybdenum, per 2,5 miliardi di dollari.

L’amministrazione Obama era consapevole che il cobalto stava diventando una risorsa fondamentale nell’economia mondiale e che gli Stati Uniti sarebbero rimasti indietro, ma non ha avuto né la capacità né la volontà di impedire l’ascesa della Cina nel settore: in quel periodo il grosso delle risorse economiche e degli sforzi politici di Washington era dedicato alle guerre in Afghanistan e in Iraq e alle operazioni contro il gruppo Stato islamico.

Poi è arrivato Donald Trump, con la sua promessa di “far tornare di nuovo grande” il carbone. Appena entrato alla Casa Bianca, Trump ha cancellato le misure pensate per accelerare la transizione verso le auto elettriche, dando un ulteriore vantaggio alla Cina. Al momento Pechino controlla 15 delle 19 miniere di cobalto della Repubblica Democratica del Congo.

A metà novembre Joe Biden, parlando da uno stabilimento della General Motors a Detroit, ha ammesso che Pechino sta vincendo la corsa sulle auto elettriche: “Qualcosa è andato storto lungo il percorso. La Cina è avanti”. Poi, con tono di sfida, ha aggiunto: “Ma le cose stanno per cambiare”.

La caccia al litio
Le speranze degli Stati Uniti di recuperare terreno dipendono in buona parte da quello che riusciranno a trovare sotto il deserto nel nord del Nevada. Secondo le stime, in quella regione, conosciuta come Thacker Pass, c’è la più grande riserva di litio del Nordamerica. Ne parla un articolo di Le Monde. Come il cobalto, anche il litio è fondamentale per la transizione energetica, perché è in grado di trattenere una grande quantità di energia in un piccolo volume. È usato per le turbine eoliche, per i pannelli solari e, soprattutto, per le batterie delle auto elettriche. Al momento metà delle forniture di litio proviene dall’Australia, il resto dalla Cina (17 per cento), dal Cile (22 per cento) e dall’Argentina (8 per cento).

Gli Stati Uniti, che hanno circa il 10 per cento delle riserve mondiali, hanno una sola miniera attiva a Silver Peak, sempre in Nevada, e forniscono appena cinquemila tonnellate all’anno. Una quantità insignificante rispetto alla produzione mondiale (82mila tonnellate nel 2020). Sono in ritardo anche nella produzione di batterie agli ioni di litio: la Cina ospita 107 delle 142 fabbriche del mondo, gli Stati Uniti solo nove, anche se sono un esportatore di veicoli elettrici.

Biden sta provando a invertire la tendenza. Dopo essersi insediato ha firmato due decreti: uno stabilisce che entro il 2030 la metà delle nuove auto vendute negli Stati Uniti dovrà essere elettrica; un altro serve a migliorare la gestione delle riserve di litio e a sviluppare l’industria per la produzione di batterie. Le riserve di Thacker Pass quindi sono fondamentali. Secondo la Lithium Americas, l’azienda che realizzerà il progetto, una volta a pieno regime la miniera potrebbe soddisfare un quarto della domanda mondiale di litio e alimentare un milione di auto elettriche.

Al progetto si oppongono gli attivisti ambientali del Nevada, convinti che non abbia senso sacrificare un territorio incontaminato in nome (paradossalmente) della transizione ecologica. Secondo loro la miniera renderà la terra circostante inabitabile per le piante e metterà in pericolo una serie di animali. Inoltre l’attività estrattiva potrebbe disperdere nell’acqua metalli pericolosi come arsenico, antimonio e uranio.

Questo articolo è tratto dalla newsletter settimanale Americana, che racconta cosa succede negli Stati Uniti. Ci si iscrive qui.

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