Il 7 marzo Biden ha tenuto il suo terzo discorso sullo stato dell’unione al congresso. Era più importante e atteso dei precedenti, non solo perché le elezioni sono vicine ma anche perché era una delle poche occasioni che il presidente avrà da qui a novembre per parlare a tutto il paese in un contesto relativamente sicuro, cioè senza dover rispondere a delle domande che potrebbero metterlo in difficoltà o senza doversi scontrare con il candidato repubblicano, come succederà nei dibattiti televisivi.

Biden ha raggiunto l’obiettivo minimo, cioè evitare errori o gaffe, per esempio scambiando nomi di persone o di paesi, ma è improbabile che il discorso abbia dissolto i dubbi di tanti elettori che pensano sia troppo anziano per ricandidarsi. Per convincere gli americani di avere l’energia e la lucidità mentale per gestire la Casa Bianca e contemporaneamente fare una campagna elettorale nazionale, il presidente dovrà fare bene in contesti meno comodi. A quel punto naturalmente il problema dell’età non scomparirebbe, ma finirebbe in secondo piano e Biden potrebbe portare la campagna elettorale su un terreno favorevole, in cui si parla di temi concreti – aborto, economia, politica estera, immigrazione – e in cui vengono fuori i limiti caratteriali e l’estremismo politico di Trump.

Di recente sembra che la strategia dei democratici sull’esposizione di Biden sia cambiata: se fino a poco tempo fa il presidente veniva tenuto lontano dai riflettori per evitare che si mettesse nei guai, ora ha ricominciato a farsi vedere di più in pubblico, facendo interviste, incontrando influencer, registrando video per i social network. L’idea, ha scritto il New York Times, è far vedere la parte più calorosa, schietta, popolare del presidente (“let Biden be Biden”, lasciare che Biden si comporti da Biden), nella speranza che alla fine le persone possano vedere anche le sue gaffe come un segno di autenticità. In altre campagne elettorali questa strategia ha funzionato, ma in quei casi Biden era generalmente ben visto dall’opinione pubblica e tanti elettori tendevano a perdonargli comportamenti o discorsi eccentrici. Oggi invece è parecchio impopolare. E gli elettori tendono a essere molto meno indulgenti con un presidente piuttosto che con un senatore, un vicepresidente o un semplice candidato, soprattutto in un momento di generale pessimismo sulla situazione della politica e della società.

I discorsi sullo stato dell’unione sono interessanti perché nella loro struttura c’è la sintesi dell’azione presidenziale e, in un anno di elezioni, ci si possono intravedere i temi principali della campagna elettorale. Biden, per esempio, ha scelto di evidenziare il contrasto tra lui e il suo “predecessore”, e sottolineare i rischi di una seconda presidenza Trump (la minaccia alla democrazia e ai diritti delle donne sul fronte interno, le posizioni pericolose sulla politica internazionale), prima di parlare dei risultati ottenuti nei suoi tre anni da presidente e di quelli che vorrebbe raggiungere in un secondo mandato.

È interessante anche vedere come questa consuetudine sia cambiata nel tempo, perché mostra l’evoluzione del rapporto tra presidente e congresso.

Il secondo articolo della costituzione stabilisce che il presidente “di tanto in tanto trasmette al congresso informazioni sullo stato dell’Unione e raccomanda alla loro considerazione le misure che ritiene necessarie e opportune”. Il primo a farlo, in una fredda mattina di gennaio del 1790, fu George Washington, che si recò alla Federal hall di New York (il congresso si sarebbe spostato a Washington dieci anni dopo) a bordo di una carrozza trainata da sei cavalli. Il paese era appena nato, e il primo presidente degli Stati Uniti nel suo messaggio mise l’accento sulla necessità di coltivare e rafforzare l’unione.

Poi Thomas Jefferson, entrato in carica nel 1801, decise di non rispettare la tradizione di rivolgersi al congresso di persona. Racconta il Washington Post: “Voleva risparmiarsi la fatica di percorrere Pennsylvania avenue, la strada che dalla Casa Bianca porta al Campidoglio, che all’inizio dell’anno era piena di fango. Inoltre era terrorizzato dal parlare in pubblico”.

Ma Jefferson era anche convinto che quell’usanza fosse una brutta imitazione dei discorsi che i monarchi britannici facevano dal trono, inconcepibile per una repubblica che era nata dalla ribellione contro quella corona. Per questo si limitò a mandare una dichiarazione scritta ai parlamentari, e lo stesso fecero i presidenti dopo di lui. Per i successivi 112 anni l’idea che un presidente si presentasse al congresso di persona per tenere un discorso restò impensabile, perché i parlamentari l’avrebbero considerato un atto di estrema presunzione.

Le cose sono cambiate di nuovo all’inizio del novecento, quando il presidente era Woodrow Wilson (1913-1921). Fu lui il primo presidente a tenere un discorso simile a quelli che vengono pronunciati ancora oggi. Un mese dopo il suo insediamento, nel 1913, andò al Campidoglio per parlare di dazi. “I parlamentari sono sbalorditi”, scrisse il Washington Post, aggiungendo che quel comportamento “non sarebbe diventato un’abitudine”.

Evidentemente il giornale si sbagliava. Wilson tornò al congresso per fare un discorso otto mesi dopo, il 2 dicembre 1913. Dietro il suo atteggiamento c’era un’idea del potere presidenziale e degli equilibri istituzionali molto diversa da quella che aveva animato i padri fondatori. “Era convinto che chi aveva scritto la costituzione avesse commesso un errore nel prevedere una forte separazione dei poteri tra i tre rami del governo. Questo perché, come la maggior parte dei progressisti dell’epoca, Wilson pensava che una fusione dei ruoli fosse più democratica, perché più vicina al sentimento dell’opinione pubblica”. Una visione che avrebbe prevalso in vari momenti nella politica del novecento.

Wilson fu anche il primo presidente a usare il discorso sullo stato dell’unione per proporre la propria agenda politica, mettendo in qualche modo in discussione l’idea che il congresso fosse il motore dell’azione legislativa. Ma è ricordato anche per alcune previsioni sbagliate fatte durante uno dei suoi discorsi. Nel 1913 cominciò parlando delle prospettive floride degli Stati Uniti e del mondo. “Il paese, sono orgoglioso di dirlo, è in pace con tutto il mondo e intorno a noi si moltiplicano le dimostrazioni di una crescente cordialità e di un senso di comunità di interessi tra le nazioni, prefigurando un’epoca di pace stabile e di buona volontà”. Meno di quattro anni dopo gli Stati Uniti sarebbero entrati nella prima guerra mondiale.

Wilson non riuscì a tenere il discorso sullo stato dell’unione negli ultimi due anni del suo mandato, a causa di un grave ictus che gli impedì di fatto di continuare a fare il presidente (le sue condizioni di salute furono tenute nascoste all’opinione pubblica dalla moglie Edith e dal medico, e la sua vicenda contribuì all’approvazione del 25° emendamento, che definisce la linea di successione presidenziale e il protocollo da adottare nell’eventualità di un impedimento del presidente per inabilità manifesta o malattia).

In ogni caso Wilson aveva trasformato il discorso sullo stato dell’unione in un evento importante della politica nazionale. Tutti i suoi successori tranne uno (Herbert Hoover) seguirono il suo esempio, con sempre maggiore entusiasmo e attenzione dopo l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa, che permettevano di arrivare senza filtri alla popolazione.

Negli ultimi anni è cambiato il modo in cui i presidenti vengono accolti dal congresso. Se un tempo il discorso sullo stato dell’unione era un momento abbastanza solenne, in cui generalmente i parlamentari ascoltavano con rispetto il presidente, oggi, in tempi di estrema polarizzazione politica, è diventato normale vedere i rappresentanti del partito d’opposizione contestare più o meno apertamente il discorso. Avete forse visto la deputata repubblicana radicale Marjorie Taylor Greene interrompere il discorso di Biden, l’altro giorno, o ricorderete la scena di Nancy Pelosi, ex speaker democratica della camera, che strappa una copia del discorso di Trump nel 2020.

Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.

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