Un video di appena 23 secondi. Seppur debole, un segnale di vita tangibile di due ostaggi occidentali nelle mani dei gruppi jihadisti attivi nel Sahel. Poche parole, pronunciate in francese: “Mi chiamo Pier Luigi Maccalli, di nazionalità italiana, oggi è il 24 marzo 2020”. “Mi chiamo Nicola Chiacchio…”. E, come all’improvviso, cade il velo di silenzio che da oltre un anno avvolgeva la vicenda di due italiani rapiti in Africa occidentale.
Pier Luigi Maccalli, detto “padre Gigi”, è un missionario cremonese 59enne della Società delle missioni africane (Sma) che era in Niger da undici anni. Grande appassionato di questa regione – era già stato diverso tempo in Costa d’Avorio – il prete è stato prelevato dalla sua parrocchia a Bomoanga, a ridosso del Burkina Faso, zona infestata di combattenti dello Stato islamico nel grande Sahara (Sigs), la notte del 17 settembre 2018. Da quel momento, secondo fonti dei servizi di sicurezza di Mali, Niger e Burkina Faso, è stato più volte spostato fino ad arrivare, passando dal Burkina Faso, nel nord del Mali.
Finora, invece, di Nicola Chiacchio, che nel video appare come compagno di prigionia di padre Maccalli, era trapelato poco o nulla. Grazie a diverse fonti che preferiscono restare anonime, si scopre che è scomparso i primi di febbraio del 2019 nel nord del Mali, precisamente sulla pista tra Douentza e Timbuctù. Fermato dalle autorità maliane a Douentza, Nicola, partito mesi prima dall’Italia per un lungo viaggio solitario in bicicletta, ha deciso di continuare il suo percorso nonostante la situazione di forte insicurezza in cui si trova l’intera zona. Non potendolo trattenere, le forze di sicurezza maliane lo hanno rilasciato due giorni dopo il fermo, facendogli firmare una dichiarazione di assunzione di responsabilità. Il ciclista, deciso a raggiungere la leggendaria “città dei 333 santi”, l’indomani mattina imbocca la terribile pista di sabbia di 200 chilometri Douentza-Bambara Maudé-Timbuctù. Gli ultimi contatti risalgono al 4 febbraio, poi il silenzio. Un silenzio interrotto solo ieri dal video.
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— Aïr Info Agadez (@AirInfoAgadez) ?
Il filmato, attendibile secondo diversi analisti, è stato consegnato pochi giorni fa a Ibrahim Manzo Diallo, veterano giornalista che dirige Aïr Info, un piccolo sito d’informazione di Agadez, nel nord del Niger. Quando ieri Diallo ha pubblicato l’articolo in cui rende conto del contenuto del video, lo screenshot dei due italiani seduti su una stuoia davanti a un telo colorato ha fatto il giro del mondo. Era dal loro rapimento, infatti, che non erano apparse immagini di padre Gigi e di Nicola Chiacchio.
Oltre a provare che i due ostaggi sono vivi, questo video solleva diversi quesiti. Prima di tutto chi si nasconde dietro al loro rapimento. Il documento proviene dal nord del Mali, dove sono attivi gruppi jihadisti legati a due sigle principali: il Gruppo di sostegno dell’islam e dei musulmani (Gsim) e il Sigs. Queste compagini si distinguono, principalmente, per le loro alleanze: l’una con Al Qaeda e l’altra con il gruppo Stato islamico. Nel vasto e incontrollato territorio del Sahel centrale – feudo di entrambi i gruppi armati è la regione del Liptako-Gourma, chiamata “delle tre frontiere” perché a cavallo fra Mali, Niger e Burkina Faso – negli ultimi anni sono gradualmente passate da una concorrenza spietata a una timida collaborazione.
Lavoro nell’ombra
La pista che parrebbe più probabile, dunque, è quella che porta al Gsim, vero e proprio padrone del nord del Mali che vanta una pluriennale esperienza (e rodati canali negoziali) nei sequestri di occidentali. Anche se il nome è cambiato (fino a marzo 2017 si facevano chiamare Al Qaeda nel Maghreb islamico), si tratta dello stesso gruppo che aveva rapito, nel 2011-2012, Rossella Urru e Maria Grazia Mariani, insieme ad altre decine di occidentali. Il fatto che il video sia stato recapitato a un mezzo d’informazione del Niger – paese che ha dato i natali al Sigs – fa pensare, invece, allo zampino dello Stato islamico. Nemmeno Ibrahim Manzo Diallo sa dire da quale gruppo specifico provenga il video recapitato al suo giornale. A infittire il mistero concorre poi la mancata (e inusuale) rivendicazione di tali sequestri, una novità nel modus operandi dei jihadisti saheliani.
Le autorità italiane seguono da vicino i casi del sequestro di padre Maccalli e di Nicola Chiacchio fin dai primi sviluppi e lavorano nell’ombra per una loro pronta liberazione. “Fonti della Farnesina – riporta il sito di Rainews24 – confermano che l’unità di crisi, in stretta collaborazione con la presidenza del consiglio e l’autorità giudiziaria, segue con il massimo impegno fin dall’inizio i due casi tenendo regolari contatti coi rispettivi familiari. (…) È necessario da parte degli organi istituzionali e richiesto a tutti gli organi di stampa il massimo, dovuto riserbo nell’interesse esclusivo dei connazionali”. Il riserbo mediatico, com’è scritto nella nota della Farnesina, è lo stesso che caratterizza “tutte le situazioni analoghe”, come ampiamente dimostrato dalla vicenda di Silvia Romano, la cooperante italiana rapita in Kenya il 20 novembre 2018 (caso particolare vista l’ampia mobilitazione dell’opinione pubblica italiana e di cui ancora troppo poco si conosce). “La procura di Roma – si legge sempre su Rainews24 – ha delegato i carabinieri del Ros ad acquisire il video”.
Il tempismo con cui è apparso il video sembra suggerire la volontà dei loro carcerieri di accelerare i negoziati per il loro rilascio
Nemmeno un mese fa, il 14 marzo, altri due ostaggi occidentali erano riapparsi all’improvviso dall’oblio dentro cui erano precipitati dopo la loro scomparsa in Burkina Faso, il 15 dicembre 2018. Nel caso di Luca Tacchetto, trentenne di Padova, ed Edith Blais, sua compagna di viaggio canadese, la notizia è stata più lieta di una mera prova di vita. La “liberazione” del mese scorso ha infatti segnato la fine di una prigionia durata 15 mesi. La storia della loro fuga, però, ha destato alcuni dubbi tra gli analisti: i carcerieri si allontanano per dormire, loro si fabbricano scarpe di fortuna con degli stracci e scappano nottetempo tra le dune del deserto, camminano per ore e raggiungono una strada asfaltata, dove incontrano un camionista che li porta alla più vicina base della Minusma (la Missione di stabilizzazione del Mali delle Nazioni Unite), a Kidal.
A questa rocambolesca versione non crede, per esempio, il giornalista beninese Serge Daniel, uno dei massimi esperti di terrorismo saheliano, che, intervistato dal sito Africa Express, racconta: “Una persona che ha seguito da vicino le trattative per il rilascio dei due giovani mi ha confidato che è stata pagata una certa somma in cambio della loro libertà. Non è dato sapere quanto e chi abbia messo mano al portafoglio”. Il corrispondente da Bamako di Radio France International rivela interessanti dettagli sulla vicenda: “Un paese vicino al Mali, che ha già fatto da intermediario per la liberazione di altri ostaggi canadesi, comincia le trattative in gran segreto a ottobre 2019. Infatti due emissari, il capo di un gruppo armato maliano e un politico della stessa area si recano lì per i primi colloqui, vengono ricevuti dal presidente ed esibite prove che la coppia sia in vita. Gli emissari approfittano dell’incontro per affrontare un argomento inevitabile: il riscatto per la liberazione dei due giovani”.
Complesso dire con certezza se, in tale occasione, il Canada e l’Italia abbiano pagato per il loro rilascio, visto che il nostro, come tanti altri paesi occidentali, ha sempre categoricamente smentito il versamento di riscatti a gruppi terroristi. Il tempismo con cui è apparso il video di padre Maccalli e Nicola Chiacchio – poco dopo la liberazione di Luca Tacchetto ed Edith Blais –, però sembra suggerire la volontà dei loro carcerieri di accelerare (o riaprire?) i negoziati per il loro rilascio.
Intanto, oltre ai due italiani, in ostaggio ai gruppi jihadisti del Sahel restano altri cittadini stranieri, altrettanto dimenticati dai mezzi d’informazione e dall’opinione pubblica internazionale: la suora colombiana Gloria Cecilia Narváez Argoti, rapita nel febbraio 2017 in Mali; Sophie Pétronin, cooperante francese sequestrata la vigilia di Natale 2016 nello stesso paese; la missionaria svizzera della chiesa metodista Béatrice Stockly scomparsa, sempre in Mali, i primi di gennaio del 2016; l’operatore umanitario statunitense Jeffery Ray Woodke, sequestrato in Niger nel 2016; il cooperante tedesco Jörg Lange, catturato nello stesso paese nell’aprile 2018; il medico australiano Arthur Kenneth Elliott, scomparso nel 2016 in Burkina Faso. Solo per citarne alcuni.
Nell’asimmetrica guerra contro il terrorismo saheliano, è doveroso annoverare anche decine di soldati degli eserciti locali africani che vengono fatti prigionieri ogni settimana, nel silenzio generale. Il 25 marzo la stessa sorte è toccata perfino al capofila dell’opposizione maliana, il politico di lungo corso Soumaila Cissé, prelevato da uomini armati mentre era impegnato in una campagna elettorale nella zona di Mopti e tuttora nelle mani dei jihadisti. “Quando un pescatore prende un grosso pesce lo pesa e cerca di venderlo al miglior prezzo”, è stato il commento sarcastico dei suoi carcerieri della Katiba Macina, gruppo legato al Gsim e attivo nel centro del Mali, in un audio divulgato per rivendicarne il rapimento.
Al di là di tale fitta rete di misteri e notizie sfocate, appare chiaro quanto, ieri come oggi, quella dei sequestri resti una delle frecce più affilate nella faretra dei gruppi terroristici attivi nel Sahel. Attraverso questa assodata tecnica, infatti, negli anni queste sigle sono riuscite a ottenere la scarcerazione di molti leader detenuti nelle prigioni di Bamako, oltre che denaro frusciante per finanziare la propria “guerra santa”.
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