Dietro alla stazione centrale di Milano, sotto i bastioni grigi e imponenti sui quali passa la ferrovia, il 7 maggio un ragazzo maliano di 31 anni si è impiccato. È salito sul muretto, in via Ferrante Aporti, si è messo un cappio al collo e si è lasciato scivolare. Se ne sono accorti i passeggeri di un treno, che hanno visto il ragazzo infilarsi un laccio intorno alla testa. Ma soprattutto se n’è accorto un passante che a mezzogiorno stava andando a prendere la sua auto parcheggiata al bordo della strada e ha dato l’allarme.

I soccorritori hanno portato il ragazzo in fin di vita all’ospedale Niguarda. Alle 12.50 del 7 maggio è stato dichiarato morto. Non aveva documenti con sé, ma dalle impronte digitali i carabinieri di Porta Manforte sono riusciti a risalire alla sua identità: avevano diffuso la sua fotografia a tutti i responsabili dei centri di accoglienza di Milano, ma non erano riusciti a raccogliere informazioni su di lui. Si trovava in Italia da un anno e mezzo, era un richiedente asilo, non era residente in nessun centro di accoglienza milanese, era stato registrato nei servizi di accoglienza di Modena. È tutto quello che sappiamo. Il nome dell’uomo non è stato diffuso.

Per Pietro Massarotto, avvocato e presidente dell’associazione Naga di Milano,”il ragazzo probabilmente dormiva per strada, come tanti richiedenti asilo che hanno perso il diritto di essere assistiti dal sistema di accoglienza italiano”. Nell’ultimo anno e mezzo, continua Massarotto, in seguito al ripristino dei controlli alle frontiere settentrionali italiane da parte della Svizzera e degli altri paesi europei, a Milano è stato registrato un aumento dei migranti in città, molti dei quali senza fissa dimora.

Un problema di degrado?
“Quando si analizza quello che sta succedendo intorno alla stazione centrale”, spiega Massarotto, “si deve considerare che per anni Milano è stata una tappa fondamentale dei viaggi dei migranti dall’Italia verso il Nordeuropa e che ora la situazione è cambiata a causa delle politiche europee dell’immigrazione con ricadute inevitabili anche sulla città”. Il transito di centinaia di migliaia di persone intorno alla stazione centrale aveva portato all’apertura di un hub – un centro di prima accoglienza per transitanti – nell’ottobre del 2013 prima all’interno della stazione, poi in via Tonale e quindi, dal maggio del 2016, in via Sammartini.

Come ha raccontato la giornalista Marina Petrillo su Open Migration, dopo l’entrata in vigore dell’Agenda europea dell’immigrazione, nel maggio del 2015, “a Milano si è formato una specie di tappo e tutti i posti letto sparsi per la città che prima erano riservati ai transitanti adesso sono occupati dai dublinanti”, cioè dai richiedenti asilo che vengono rimandati in Italia dopo aver provato a passare la frontiera. Per questo, nonostante un numero stabile degli arrivi, sono aumentate le richieste d’asilo sul territorio nazionale, ma anche i dinieghi da parte delle commissioni territoriali, le autorità amministrative che hanno il compito di esaminare le richieste d’asilo.

In Lombardia la percentuale di migranti a cui è negato lo status di rifugiato è più alta della media nazionale. Nel 2016 le due commissioni territoriali di Milano hanno bocciato il 52 per cento delle domande: una su due. A Brescia i dinieghi sono stati il 70 per cento e a Monza il 73 per cento. I posti nei centri di accoglienza a Milano sono 3.600, di cui un migliaio nei centri del Servizio per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) e gli altri nei centri di accoglienza straordinaria che dipendono dalla prefettura (Cas). “I centri di accoglienza sono al collasso, anche perché non si riesce a investire sui centri Sprar e c’è un modello di accoglienza ancora basato sull’idea che questi flussi migratori siano un’emergenza”, dice Massarotto. E questo, secondo il presidente del Naga, ha determinato un aumento delle persone che dormono per strada o che passano la giornata nel piazzale e nel giardino davanti alla stazione, in una situazione di marginalità.

La stazione è stata al centro di una campagna contro l’immigrazione per il decoro e la sicurezza

Per il presidente del Naga questa situazione può essere risolta solo con politiche sociali efficaci e con più posti letto messi a disposizione dal comune di Milano nell’accoglienza diffusa. Ma in Lombardia hanno aderito al progetto Sprar solo 41 comuni su 1.527. Nelle ultime settimane, poi, la stazione centrale e il centro per migranti di via Sammartini sono diventati il simbolo di una campagna “per il decoro e la sicurezza”, organizzata dalla Lega nord che ha definito “insostenibile” e “da terzo mondo” la situazione.

Il presidente del secondo municipio, Samuele Piscina della Lega nord, su Facebook ha costituito un Comitato per la sicurezza e la legalità, e ha organizzato una serie di proteste per chiedere la chiusura del centro. “I cittadini sono esasperati dalla situazione di degrado dell’area e il sicuro arrivo di nuovi migranti non farà altro che peggiorare la situazione”, ha dichiarato in un comunicato, dopo che il 27 aprile l’assessore ai servizi sociali Pierfrancesco Majorino aveva annunciato di voler spostare una parte dei migranti da via Sammartino a via Aporti, nel Centro di aiuto stazione centrale (Casc), nella stessa strada dove il 7 maggio il ragazzo del Mali si è tolto la vita. Il quotidiano il Giornale il 9 maggio ha titolato: “Un impiccato in stazione e sesso per strada. Il degrado invade pure il centro di Milano”, associando il tragico suicidio ad altri episodi da “girone infernale”.

L’assessore ai servizi sociali del comune di Milano, Pierfrancesco Majorino, su Facebook, parlando della morte dell’uomo, ha attaccato la destra cittadina: “Quando guardavo l’immagine di quel corpo mi dicevo una cosa ‘speriamo almeno che nessun avvoltoio ci speculi sopra’. Ovviamente non è andata così: esponenti della destra affermano che quella morte sia colpa del sistema di accoglienza di Milano”. Sempre commentando la morte del ragazzo, Majorino, che è un esponente del Partito democratico vicino al ministro della giustizia Andrea Orlando, ha criticato anche il governo guidato da Paolo Gentiloni, responsabile di aver redatto i decreti Minniti-Orlando sull’immigrazione e la sicurezza, trasformati in legge dal parlamento a metà aprile. “Questa terribile vicenda racconta la disastrosa situazione in cui siamo. Con un sistema nazionale completamente da riorganizzare. Il governo dovrebbe occuparsi di questo mettendo al centro la vita di questi ragazzi, invece di occuparsi di decreti che limitano il loro diritto alla difesa o che danno messaggi ambigui sul piano culturale”, ha scritto Majorino.

Un blitz contro gli irregolari
Negli ultimi anni si è parlato di un “modello Milano” dell’accoglienza degli immigrati, in particolare per l’apertura nel 2013 dell’hub per i transitanti, una struttura innovativa attraverso la quale la giunta guidata da Giuliano Pisapia era riuscita a gestire l’arrivo e il passaggio in città di decine di migliaia di persone, coinvolgendo cittadini e associazioni. Per rilanciare questo modello di inclusione, l’assessore Majorino ha convocato per il 20 maggio una marcia “senza muri”, su imitazione di quella organizzata a Barcellona dalla sindaca Ada Colau, lo scorso 18 febbraio. Ma mentre l’assessore chiamava a raccolta volontari e cittadini, il 2 maggio il questore della città ordinava un blitz delle forze dell’ordine contro l’immigrazione irregolare alla stazione centrale con decine di agenti in tenuta antisommossa, un elicottero e poliziotti a cavallo.

“Per il dispiegamento di forze e la chiusura della stazione centrale” abbiamo inizialmente pensato che si trattasse di “un intervento contro il terrorismo”, racconta il giornalista di Radio Popolare Roberto Maggioni, che ha assistito al blitz. Invece la questura ha comunicato che era un intervento contro il degrado e l’immigrazione irregolare. “I cancelli della stazione centrale erano chiusi e davanti alla stazione, a piazza Duca d’Aosta, c’erano numerosi agenti della polizia in tenuta antisommossa che circondavano un centinaio di migranti fermi, seduti per terra”, racconta Maggioni. “I migranti sono stati perquisiti e successivamente sono stati fatti salire su dei pullman e portati in questura”.

Durante il blitz alla stazione centrale di Milano, 2 maggio 2017. (Miguel Medina, Afp)

La retata è cominciata intorno alle 15.30 ed è durata un paio d’ore, sono state portate in questura per accertamenti sui documenti 52 persone, tre di loro sono state incriminate per detenzione di sostanze stupefacenti, mentre sette sono state raggiunte da un decreto di espulsione e quattro richiedenti asilo hanno scoperto negli uffici della questura di aver ottenuto la protezione internazionale, che non gli era ancora stata notificata per ritardi burocratici. La maggior parte dei fermati era in possesso di un permesso di soggiorno regolare. Il sindaco Giuseppe Sala, il giorno successivo, ha detto di essere stato informato della retata solo all’ultimo momento e ha chiesto spiegazioni al questore sulle modalità dell’operazione di polizia.

Quando il giornalista di Radio Popolare Maggioni è arrivato in stazione, il leader della Lega nord, Matteo Salvini, era in diretta streaming su Facebook con il suo cellulare, circondato da giornalisti, fotografi e cameraman. Salvini ha commentato l’operazione in corso dicendo: “Dopo tante denunce finalmente un blitz, un po’ di soddisfazione”. Il leader della Lega nord è stato contestato da alcuni immigrati e operatori sociali che erano presenti e lo hanno accusato di fare campagna elettorale sulla pelle delle persone. “Sei venuto a fare campagna elettorale adesso che ci sono le telecamere? Queste persone scappano da guerre e violenze, dovresti vergognarti”, lo ha apostrofato Francesco, un educatore che lavora tutti i giorni vicino alla stazione centrale di Milano con i minori stranieri non accompagnati.

“Operazioni di questo tipo sono inutili e dannose”, commenta Francesco. “Dal punto di vista giudiziario la retata non ha portato a nessun risultato. Gli elementi di insicurezza che sono presenti in stazione da trent’anni, tipo lo spaccio di stupefacenti, ci sono ancora”, spiega Francesco. Mentre “azioni come queste vanificano l’efficacia degli interventi quotidiani di inclusione, creando una situazione di sospetto e tensione nella quale gli operatori faticano a lavorare”. Secondo l’operatore, quello che viene chiamato “degrado” è invece una situazione di bisogno sociale. “Non è un caso che questo sia successo a pochi giorni dalla riduzione dei posti letto in accoglienza nel centro di via Sammartini”, dice Francesco. “Il 2 maggio, dopo aver discusso con Salvini, per la prima volta ho dovuto dire ai ragazzi che ospitiamo nel centro diurno per minori in cui lavoro che dovevo chiudere il centro e li ho lasciati a dormire per strada. Si tratta di ragazzi di 15 e 16 anni che secondo la legge italiana hanno diritto di essere assistiti”.

Per Roberto Maggioni di Radio Popolare, questo tipo di intervento non è giustificato “da fatti di cronaca, da un allarme sicurezza vero, sorretto da numeri, in stazione centrale. È più un problema di sicurezza percepita, o strumentalizzata dalle forze politiche”.

Un problema politico
In un comunicato stampa 18 organizzazioni milanesi che operano nell’accoglienza hanno denunciato “un grave passo in avanti nel processo di criminalizzazione dell’immigrazione”. Secondo le associazioni, alcune persone sono state portate in questura in base al colore della pelle: “I quattro quinti dei fermati avevano un regolare permesso di soggiorno, ci chiediamo secondo quale criterio siano stati fermati, se non per il colore della loro pelle”. Pietro Massarotto del Naga parla addirittura di “rastrellamenti” e chiede di scendere in piazza il 20 maggio, nel corteo convocato dall’amministrazione comunale “Insieme senza muri”, ma intorno alla piattaforma “Nessuna persona è illegale”.

Esplode una questione politica: gli operatori accusano l’amministrazione comunale di aver prestato il fianco alle campagne della destra e di non voler entrare in contrasto con il governo nazionale, guidato dal Partito democratico, che ha appena approvato le nuove leggi sull’immigrazione e la sicurezza urbana. Il Partito democratico, da parte sua, non aderisce alla marcia del 20 maggio.

La filosofa Tamar Pitch, autrice del libro Contro il decoro, ha definito i decreti sicurezza un classico esempio di “soluzione che produce il problema”. “I politici diventano imprenditori della paura per cercare consensi da un ceto medio impoverito e reso insicuro da disoccupazione e precarietà”, scrive Pitch. “Non resta, allora, che utilizzare un vecchio metodo: produrre legame sociale tramite la paura, sollecitando una divisione tra ‘noi’ e ‘loro’, i buoni cittadini e tutti gli altri (migranti, tossici, e così via)”.

In una lettera aperta pubblicata sul Manifesto il 13 maggio alcuni gruppi di attivisti chiedono al sindaco della città Beppe Sala, all’assessore Pierfrancesco Majorino e a tutte le personalità che hanno aderito alla marcia “Insieme senza muri” di prendere le distanze dai decreti Minniti-Orlando. “Battersi per l’accoglienza dei migranti vuol dire opporsi alle leggi Minniti-Orlando in materia di immigrazione e sicurezza urbana”, è scritto nella lettera.

Per operatori e associazioni queste leggi “rappresentano una giustificazione per azioni che criminalizzano i migranti e in generale tutte le persone indigenti che vivono ai margini nelle nostre città”. Ma non aiutano ad affrontare in maniera pragmatica la sfida dell’immigrazione, anzi alimentano tensioni e stereotipi e allontanano la possibilità di trovare delle soluzioni di lungo periodo. “Questi decreti hanno una valenza simbolica, rinforzano un quadro culturale e cognitivo razzista e discriminatorio”, conclude Massarotto.

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