Non servono a fermare le persone, producono sofferenze inaudite e spingono migranti e trafficanti ad aprire altre rotte, ma nonostante questo l’Europa sta entrando in una nuova epoca dei muri. L’ha inaugurata l’ungherese Viktor Orbán che, nel mezzo della crisi migratoria del 2015, ha deciso la costruzione di una recinzione al confine tra l’Ungheria e la Serbia per impedire ai profughi – nella maggior parte dei casi siriani e afgani che percorrevano la rotta balcanica – di entrare nel paese per raggiungere altri paesi dell’Unione europea.

Era sembrato un brusco ritorno al passato, a un’Europa di divisioni che pensavamo superata dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989. In effetti la decisione di Orbán ha segnato un passaggio irreversibile: da quel momento il blocco dei paesi dell’Europa orientale, il cosiddetto gruppo di Visegrád (Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Slovacchia) si è opposto in maniera compatta alla riforma del sistema di asilo europeo (il sistema Dublino) e ha imposto un approccio nazionalista alla gestione dei flussi migratori.

Sei anni dopo, davanti alla possibilità di una nuova ondata di profughi in particolare provenienti dall’Afghanistan, dodici paesi europei (Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Grecia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Polonia e Slovacchia) hanno chiesto a Bruxelles di finanziare con fondi europei la costruzione di muri alle loro frontiere. La Lituania, uno dei paesi firmatari della lettera, ha già deciso di costruire una recinzione lunga 508 chilometri al confine con la Bielorussia per fermare l’arrivo di migranti soprattutto iracheni. Anche la vicina Lettonia ha da poco annunciato che costruirà un recinto di filo spinato lungo 134 chilometri al confine con la Bielorussia.

Il cinismo di Lukašenko
La commissaria agli affari interni dell’Unione europea, Ylva Johansson, per ora ha dichiarato che non finanzierà i muri contro i migranti, ma ha espresso anche comprensione per i paesi che hanno inoltrato la richiesta a Bruxelles. Il Patto sull’immigrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione europea un anno fa, va nella direzione del rafforzamento delle frontiere esterne: esternalizzazioni e rimpatri sono i due pilastri su cui si fonda il documento programmatico della commissione annunciato nel settembre 2020 a pochi giorni dall’incendio che ha distrutto il campo profughi di Moria, in Grecia.

Quest’ultima crisi ha la sua origine in un atto unilaterale del presidente della Bielorussia Aleksandr Lukašenko, che sta usando i migranti per ricattare l’Unione europea. Bruxelles, infatti, aveva minacciato di sanzionare Minsk per la violenta repressione dell’opposizione avvenuta nell’agosto 2020, quando i bielorussi sono scesi in piazza per protestare contro le elezioni presidenziali, denunciando brogli e chiedendo le dimissioni del presidente in carica dal 1994.

I due paesi europei che si sono schierati a favore delle proteste sono stati soprattutto la Lituania e la Polonia: entrambi i governi, in particolare quello lituano, hanno spinto l’Unione europea a imporre sanzioni contro il governo bielorusso. Per fare pressione sull’Europa allora Lukašenko ha usato la vecchia tecnica del libico Muammar Gheddafi e del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan: ha concesso il visto ai migranti iracheni per arrivare a Minsk in aereo, poi ha portato i profughi in autobus ai confini della Lituania e della Polonia. Nel giro di poche settimane, si è aperta una nuova rotta: Lituania, Lettonia e Polonia hanno minacciato di costruire muri e recinzioni di filo spinato per impedire ai migranti di passare. Le organizzazioni non governative hanno denunciato gravi violazioni dei diritti umani da parte delle guardie di frontiera di Lituania, Lettonia e Polonia e cinque profughi hanno perso la vita nelle ultime settimane perché dormivano all’addiaccio al confine. È cominciata una nuova epoca di muri in Europa, che dimostra tutta la fragilità del progetto europeo in questo momento.

Bruxelles, invece di combattere questo approccio, e dotarsi di una politica comune sull’immigrazione e l’asilo sta cercando un compromesso: da una parte non condanna in maniera ferma la costruzione di muri e i trattamenti inumani a cui sono sottoposti i migranti a tutte le frontiere esterne dell’Unione e dall’altra continua a rafforzare e finanziare politiche di esternalizzazione delle frontiere, nonostante dalla fine degli anni novanta questo tipo di politiche si sia dimostrato poco efficace.

Bruxelles paga i governi degli stati confinanti per fermare i migranti con militari, centri di detenzione, recinzioni. Lo ha fatto nel 2016 con la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan per fermare i profughi siriani, poi nel 2017 con il governo di Tripoli per bloccare e respingere le imbarcazioni di migranti dirette in Europa dalla Libia, infine con la Tunisia e l’Egitto o con il Marocco per interrompere il flusso di persone lungo la rotta delle Canarie. Ma si tratta di una politica di corto respiro che ha come unico effetto quello di rafforzare i leader autoritari dei governi confinanti e mettere nelle loro mani una potente arma di ricatto: la vita di migliaia di persone usate come moneta di scambio, senza alcun rispetto dei loro diritti e nessuna attenzione per la loro sicurezza.

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