Il 22 ottobre l’attivista curdoiraniana Maysoon Majidi è stata scarcerata dopo dieci mesi di reclusione: era stata arrestata il 31 dicembre 2023 con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, in seguito a uno sbarco di persone migranti partite dalla Turchia e arrivate in Calabria.
“Mi sento meglio, ma ci vuole tempo, non devo dimenticare. Io non mi sono sentita sola ma ci sono tantissime persone detenute. Vivono in celle chiuse, bisogna aiutarli, tutti. Chi è fuori deve aiutare chi è recluso ad avere giustizia. Il mio sogno è che tutti siano liberi”, ha detto Majidi, dopo la scarcerazione. Il tribunale di Crotone ha deciso di liberarla accogliendo l’istanza presentata dal suo avvocato, Giancarlo Liberati, sulla base delle dichiarazioni presentate da alcuni testimoni nel corso dell’udienza, che hanno fatto venire meno gli indizi di colpevolezza a carico dell’attivista.
L’udienza finale del processo è prevista il 27 novembre, quando l’attivista potrebbe essere assolta in maniera definitiva dall’accusa di essere una “scafista”. La vicenda dell’attivista è particolarmente emblematica ed è stata seguita con attenzione dalle associazioni che si occupano della difesa dei diritti umani, in particolare da A buon diritto. Majidi, infatti, è stata accusata di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, reato per cui è prevista una pena da sei a sedici anni di carcere in Italia, mentre, nel suo paese rischia la vita per la sua attività in favore delle donne e della minoranza curda.
All’inizio di gennaio 2024, Majidi è stata rinchiusa nel carcere di Castrovillari, accusata in base a due testimonianze raccolte da un interprete afgano, tra i più di settanta migranti a bordo dell’imbarcazione arrivata in Calabria. Secondo l’accusa, Majidi avrebbe aiutato il capitano, il turco Ufuk Akturk, che tuttavia ha negato il coinvolgimento della donna. Lo scorso luglio Majidi ha anche scritto una lettera al presidente della repubblica e ha intrapreso uno sciopero della fame per protestare contro la sua reclusione. “Il mio arresto e la mia detenzione credo che siano non solo un’ingiustizia, ma un’ombra sulla tutela di quei diritti umani che l’Italia ha sempre affermato”, ha scritto nella lettera.
“Quella di scafista è una categoria contestata e problematica da un punto di vista giuridico: nella maggior parte dei casi le persone che si trovano alla guida delle imbarcazioni sono semplici persone migranti in stato di necessità, ma vengono perseguite come se fossero trafficanti di esseri umani”, ha commentato in un comunicato l’associazione A buon diritto.
“L’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare nei confronti della donna è stata avanzata sulla base di testimonianze di persone che avevano effettuato l’ultimo tratto di viaggio in barca insieme a lei e che avevano riferito la partecipazione di Maysoon alla distribuzione di cibo e acqua a bordo. Tali testimoni sono stati interrogati nei concitati momenti dopo l’approdo, ma non è stato possibile un controesame delle loro affermazioni perché sono scomparsi poco dopo lo sbarco”, ha aggiunto l’associazione.
Per Richard Braude, attivista dell’Arci Porco rosso di Palermo, tra i curatori del rapporto “Dal mare al carcere”, il problema è il reato stesso di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, che in questi anni ha permesso di criminalizzare persone migranti, che non erano coinvolte nel traffico di esseri umani, ma anche soccorritori che aiutavano lungo le rotte.Ad agosto il ministro dell’interno Matteo Piantedosi ha annunciato che la polizia italiana ha fermato quaranta “scafisti” e 78 “trafficanti”.
“Come abbiamo detto altre volte, le categorie usate dalla polizia per raccontare la criminalizzazione sono imprecise e confusionarie. Il termine ‘trafficanti’ potrebbe facilmente includere le persone che compiono atti di solidarietà al confine. Questi atti rientrano nell’applicazione dell’articolo 12 del testo unico sull’immigrazione. Il numero di quaranta persone migranti fermate in seguito agli sbarchi corrisponde a grandi linee con il nostro monitoraggio dei fermi riportati dalla cronaca locale”, continua Braude.
“Grazie a un altro caso che risale al 2019, il caso Kinsa, l’articolo 12 del testo unico sull’immigrazione, che istituisce il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, è stato portato davanti alla corte di giustizia dell’Unione europea perché è accusato di non essere compatibile con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”, spiega Braude. Dietro al ricorso, presentato dalla penalista Francesca Cancellaro, c’è il caso di una donna congolese, O. B., accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
“Si tratta di un momento cruciale che finalmente mette in discussione l’intero impianto normativo che criminalizza la libertà di movimento. Insieme alla clinica legale dell’università Roma Tre abbiamo redatto un comunicato in cui esponiamo il caso, con la firma e il sostegno di altre venti organizzazioni e associazioni impegnate sul tema. Ci auguriamo che questo autunno la corte arrivi a una decisione che accolga le istanze presentate”, conclude Braude.
Questo articolo è tratto dalla newsletter Frontiere.
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