La presidente del consiglio Giorgia Meloni è sotto inchiesta con l’accusa di peculato e favoreggiamento per la scarcerazione del capo della polizia giudiziaria libica Njeem Osama Almasri Habish, accusato di crimini di guerra e contro l’umanità dalla Corte penale internazionale (Cpi). Sono indagati anche il ministro della giustizia Carlo Nordio, il ministro dell’interno Matteo Piantedosi e il sottosegretario alla presidenza del consiglio Alfredo Mantovano. Ne ha dato notizia Meloni stessa in un video diffuso sui social network il 28 gennaio.

Nel video, la presidente del consiglio muove il sospetto che ci sia un piano ai suoi danni da parte del procuratore di Roma Francesco Lo Voi, lo stesso che aveva gestito a Palermo l’indagine per sequestro di persona contro l’ex ministro dell’interno e attuale vicepremier Matteo Salvini nel caso Open Arms. Per questo, Meloni sottolinea di non “essere ricattabile”, ma soprattutto che non si farà intimidire.

L’Associazione nazionale magistrati (Anm) ha però chiarito che l’indagine è un atto dovuto in seguito alla denuncia dell’avvocato Luigi Li Gotti. “Si segnala, al fine di fare chiarezza, il totale fraintendimento da parte di numerosi esponenti politici dell’attività svolta dalla procura di Roma, la quale non ha emesso, come è stato detto da più parti impropriamente, un avviso di garanzia nei confronti della presidente Meloni e dei ministri Nordio e Piantedosi, ma una comunicazione di iscrizione che è in sé un atto dovuto”, è scritto in una nota.

Il procedimento nasce da un esposto presentato da Luigi Li Gotti, avvocato ed ex militante del Movimento sociale italiano (Msi) e di Alleanza nazionale (An), poi sottosegretario nel governo guidato da Romano Prodi tra il 2006 e il 2008, infine senatore dell’Italia dei valori (Idv). Nella denuncia, presentata il 23 gennaio, si chiede ai pm che vengano “svolte indagini sulle decisioni adottate e favoreggiatrici di Almasri, nonché sulla decisione di utilizzare un aereo di stato per prelevare il catturato (e liberato) a Torino e condurlo in Libia”.

“Io ho fatto una denuncia ipotizzando dei reati e ora come atto dovuto, non è certo un fatto anomalo, la procura di Roma ha iscritto nel registro la premier e i ministri. Ora la procura dovrà fare le sue valutazioni e decidere come proseguire, se individuare altre fattispecie o inviare tutto al tribunale dei ministri”, ha commentato Li Gotti, dopo la pubblicazione del video da parte di Meloni.

La procura di Roma dovrà inoltrare il fascicolo al tribunale dei ministri, che si occuperà del procedimento contro la presidente del consiglio e i ministri. Per proseguire, dovrebbe esserci infine l’autorizzazione del parlamento, dove la presidente del consiglio però gode di una solida maggioranza. È molto difficile dunque che l’indagine porti a un processo.

L’arresto di Almasri

La Corte penale internazionale aveva spiccato un mandato di arresto contro Njeem Osama Almasri Habish il 18 gennaio. Per questo l’uomo – in Europa dal 6 gennaio – era stato arrestato a Torino nelle prime ore del 19 gennaio, dopo avere assistito a una partita di calcio. Due giorni dopo, però, la corte di appello di Roma non ha convalidato il suo trattenimento, rilevando un vizio di forma nella procedura dell’arresto. Nel frattempo, il ministro dell’interno Matteo Piantedosi ha firmato un decreto di espulsione, seguito da un volo di stato che ha rimpatriato Almasri in Libia, dove è stato accolto da festeggiamenti.

Riferendo al parlamento, Piantedosi ha dichiarato che l’uomo è stato espulso e rimpatriato velocemente, perché considerato “pericoloso”. Ma le polemiche e le critiche non si sono fermate, anche da parte della Cpi, che accusa l’Italia di non avere rispettato gli obblighi di cooperazione che derivano dallo statuto di Roma. Almasri, che è il leader della milizia Rada, è anche il capo della polizia giudiziaria di Tripoli ed è stato il responsabile della gestione di diversi centri di detenzione e prigioni tra cui il carcere di Mitiga, la zona vicino a Tripoli in cui si trova anche l’aeroporto civile della città.

“Nel carcere di Almasri si sono verificati 34 omicidi e un bimbo è stato stuprato”, è scritto nel fascicolo dell’indagine della Cpi. Secondo i giudici, Almasri “ha picchiato, torturato, sparato, aggredito sessualmente e ucciso personalmente detenuti, nonché ha ordinato alle guardie di picchiarli e torturarli”.

I crimini di guerra e contro l’umanità sono stati commessi dallo stesso Almasri e dai miliziani delle Forse speciali di deterrenza, anche conosciute come Rada, un gruppo armato nato nel 2011 per combattere l’esercito di Muammar Gheddafi e che nel 2012 ha costruito un centro di detenzione a Mitiga, diventato la più grande prigione della Libia occidentale, dove sono state incarcerate tra febbraio 2015 e marzo 2024 almeno 5.140 persone.

Le testimonianze delle violenze

Le accuse della Corte penale sono state formulate a partire dalle testimonianze raccolte, molte delle persone che hanno subìto torture e abusi nel carcere di Mitiga sono ora in Europa.

Lam Magok Biel Ruei è uno di loro, ha 32 anni, viene dal Sud Sudan. Nel febbraio 2020 è stato rinchiuso per tre mesi nel carcere di Al Jedida, a Tripoli, e per nove in quello gestito da Almasri, vicino all’aeroporto. “La prima cosa che dobbiamo chiarire è che si tratta di prigioni ufficiali, non di centri di detenzione, e che sono gestiti da questi gruppi armati”, sottolinea Biel Ruei, che ha ottenuto lo status di rifugiato e si trova a Roma, aiutato dall’associazione Baobab experience.

“Ho provato ad attraversare il mare sei volte e sono stato riportato indietro, in Libia tutti gli stranieri sono considerati criminali e rischiano l’arresto. Nelle prigioni ci sono veri criminali, ma anche migranti”, racconta. “Eravamo bendati, ci hanno dato dei numeri e ci hanno fatto delle foto per identificarci. Quindi ci hanno picchiato con dei bastoni, anche in testa. Mentre ci colpivano, ci insultavano”, racconta.

Da Al Jedida, Biel Ruei è stato poi trasferito a Mitiga per essere rimpatriato, ma in realtà è stato forzato a lavorare nella base militare, per costruire edifici, ma anche per sotterrare i cadaveri delle persone uccise. “Quando alcuni di noi hanno tentato di fuggire, siamo stati picchiati, presi a sprangate, alcuni portati in isolamento e torturati”, racconta l’uomo, che si sente preso in giro dal governo italiano dopo la scarcerazione di Almasri. “Molte persone che lo hanno denunciato, ora hanno paura di parlare, stiamo perdendo fiducia nelle autorità. Sono stato in quella prigione, non posso accettare che lo abbiano lasciato andare. Significa che tornerà a uccidere e torturare altre persone in Libia. Non lo posso accettare”, conclude.

Gli elementi da chiarire

Il primo elemento su cui fare luce nel caso Almarsi è il motivo dell’inattività del ministero della giustizia di fronte alla notizia dell’arresto del cittadino libico: in effetti, dal 18 al 21 gennaio, il ministro Carlo Nordio non ha dato indicazioni sulla custodia cautelare del generale nonostante gli fossero state richieste dalla corte di appello di Roma. Inoltre, non ha successivamente informato la Cpi della scarcerazione dell’uomo come sarebbe stato obbligato a fare.

Secondo molti giuristi, si tratterebbe di una violazione dell’obbligo d’intervenire previsto dall’articolo 59 della legge 232/1999, che ha ratificato l’adesione allo statuto di Roma da parte dell’Italia. L’accordo stabilisce che lo stato che ha ricevuto una richiesta di fermo, di arresto o di consegna prende “immediatamente” provvedimenti per fermare la persona su cui pende il mandato di arresto. L’indugio, quindi, sarebbe una violazione, perché le norme sanciscono un obbligo di decisione immediata.

Il vizio di forma che ha motivato la scarcerazione di Almasri è dovuto al fatto che il ministro della giustizia non fosse stato consultato dalle forze di polizia, prima di procedere all’arresto del libico. Infatti il ministro della giustizia italiano è il responsabile della cooperazione con la Corte penale internazionale.

La legge prevede infatti che sia necessaria “un’interlocuzione tra il ministro della giustizia e la procura generale della corte d’appello di Roma”, prima dell’arresto. La corte d’appello di Roma ha rilevato l’irregolarità della procedura e ha chiesto chiarimenti: il procuratore generale ha ritenuto l’arresto “irrituale”, ma non illegittimo, e ha chiesto a Nordio come procedere, ma il ministro della giustizia non ha mai risposto. Questa inazione ha portato alla scarcerazione di Almasri il 21 gennaio. Nordio avrebbe potuto risolvere la questione autorizzando il proseguimento dell’arresto, in base alla richiesta della corte.

Con un comunicato diffuso il 22 gennaio la Corte penale internazionale ha smentito la ricostruzione fornita del governo italiano, dicendo che Roma sapeva del mandato di arresto per Almasri.

Il mandato d’arresto emesso dalla corte il 18 gennaio era stato inoltrato lo stesso giorno a sei stati che hanno sottoscritto lo statuto di Roma, tra cui l’Italia. La richiesta di arresto della corte “è stata trasmessa attraverso i canali designati da ciascuno stato ed è stata preceduta dalla consultazione e dal coordinamento con ciascuno stato per assicurare l’adeguata ricezione e la successiva implementazione della richiesta”.

Contemporaneamente, la Corte penale internazionale ha condiviso con gli stati le informazioni sui possibili movimenti di Almasri e ha diramato un’allerta attraverso l’Interpol, che ha portato al suo arresto a Torino nelle prime ore del 19 gennaio. Il rilascio di Almasri da parte delle autorità italiane e il suo rimpatrio in Libia non sono stati preceduti da alcun preavviso alla Cpi.

Ma c’è un altro punto su cui fare luce: con una nota del 21 gennaio 2025 il ministero della giustizia ha confermato di aver ricevuto la richiesta di arresto del libico, dichiarando che “considerato il complesso carteggio”, stava valutando “la trasmissione formale della richiesta della Cpi al procuratore generale di Roma”. Ma, come ha documentato il giornalista di Radio radicale Sergio Scandura, in quel momento era già partito dall’aeroporto di Ciampino, a Roma, un aereo usato di solito dall’intelligence italiana (un Falcon 9oo) diretto all’aeroporto di Torino Caselle, lo stesso aereo che in serata avrebbe riportato Almasri a Tripoli. La sequenza temporale farebbe pensare che l’espulsione e il rimpatrio del libico erano stati già programmati, mentre Nordio trasmetteva la nota interlocutoria alla corte di appello in cui dichiarava che stava valutando il caso.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it