Le immagini dell’ex presidente dell’Honduras Juan Orlando Hernández in manette e circondato da decine di poliziotti resteranno il simbolo indelebile della fine di un uomo che ha creduto di poter ingannare tutti e per sempre, che ha messo lo stato honduregno al servizio del narcotraffico e che ha fatto di tutto per restare al potere.

Non c’è da stupirsi per il suo arresto, avvenuto a Tegucigalpa il 15 febbraio, né per la sua più che probabile estradizione negli Stati Uniti, dove dovrà affrontare le accuse di narcotraffico davanti allo stesso tribunale che ha condannato il fratello e molti dei suoi vecchi soci. Hernández è stato arrestato molto prima di quanto alcuni di noi si sarebbero aspettati: fino a qualche settimana fa era ancora presidente del paese e apparentemente aveva un controllo così ferreo sul sistema che il suo allontanamento pacifico dal potere (questa volta senza trucchi) e il passaggio di consegne senza resistenze ai suoi rivali politici sembrava parte di un piano per salvarsi la pelle.

In fin dei conti se Hernández cade, molti possono cadere insieme a lui. In un narcostato – e l’Honduras lo è – il difficile è trovare qualcuno che possa scagliare la prima pietra.

La posta in gioco
Molti honduregni stanno festeggiando l’arresto di un presidente che aveva distribuito il territorio nazionale tra i soci come se fosse una sua proprietà e che ha sostituito le deboli istituzioni statali con la criminalità. Ci sono quindi ottime ragioni per gioire e infatti migliaia di persone lo stanno facendo.

Ma c’è un aspetto di questa storia che nessuno vuole vedere, perché è scomodo e potrebbe rovinare la festa: se, com’è da aspettarsi, l’arresto di Hernández in territorio honduregno porterà a un’estradizione negli Stati Uniti, ci troveremo davanti a un controsenso giuridico, peraltro comune nella regione. Gli Stati Uniti lo accusano di narcotraffico, un reato che, se confermato, l’ex presidente avrebbe commesso in territorio honduregno e con la complicità di altre autorità del paese. Insomma, Hernández dovrebbe essere processato per narcotraffico e per altre eventuali accuse di corruzione prima di tutto nel suo stesso paese.

Tutti hanno cospirato con Hernández durante gli otto anni del suo mandato e sono suoi complici

L’Honduras non lo processerà, perché non ha le capacità politiche o giudiziarie per organizzare un processo indipendente contro una figura di questa portata. La sua condanna avrebbe ripercussioni sui vertici dell’esercito e della polizia, su ex funzionari pubblici, grandi imprenditori, sindaci e parlamentari. Tutti hanno cospirato con Hernández durante gli otto anni del suo mandato e sono suoi complici. Alcuni sono stati chiamati in causa a New York e altri, tra cui il figlio dell’ex presidente Porfirio Lobo e il fratello di Juan Orlando Hernández, sono già in carcere. Anche l’ex presidente Manuel Zelaya, oggi marito della presidente Xiomara Castro, è stato chiamato in causa.

L’Honduras è un narcostato: non solo un luogo in cui molti vivono di narcotraffico, ma un paese in cui le istituzioni agiscono in funzione della criminalità. Juan Orlando Hernández è caduto, ma non può dirsi lo stesso per gli altri che hanno tratto vantaggi da questo sistema. È inimmaginabile che in Honduras possa tenersi un processo con alti standard e garanzie quando la posta in gioco è così alta per le persone più potenti del paese. Gli Stati Uniti vogliono l’ex presidente, e l’ex presidente sarà estradato.

Il principio di uguaglianza nelle relazioni diplomatiche e negli accordi internazionali, estradizione compresa, esiste solo sulla carta

Forse è giusto che qualcuno (anche se si tratta degli Stati Uniti) punisca i ladri, i saccheggiatori e i bugiardi che tanti danni hanno causato ai centroamericani. Purtroppo oggi non sembra che ci siano altri in grado di fare giustizia per noi. Ma le nostre aspirazioni dovrebbero essere diverse.

Un paradosso
Hernández sarà processato dalle autorità dello stesso paese che l’ha protetto per otto anni, che l’ha aiutato a mantenersi al potere anche quando questo significava violare la costituzione honduregna, quando era già sotto inchiesta per narcotraffico ed era noto che gestiva una delle reti criminali più grandi del continente. Non solo: un ex presidente di un paese sovrano sarà processato in un altro paese, gli Stati Uniti, che non permettono a nessun tribunale straniero di processare i suoi stessi ex funzionari (hello, signor Kissinger) e che non ha neanche voluto fare parte della Corte penale internazionale. Insomma: l’Honduras ha accettato che gli Stati Uniti mettano sotto processo un ex presidente honduregno, quando l’Honduras non potrebbe processare un ex funzionario statunitense. Il principio di uguaglianza nelle relazioni diplomatiche e negli accordi internazionali, estradizione compresa, esiste solo sulla carta.

C’è un paradosso che sembra irrisolvibile: se non è auspicabile che siano giudicati lì e se non possono essere processati qui, come possiamo ottenere giustizia? Come possiamo punire in modo esemplare i vari Hernández centroamericani in modo che chi verrà dopo di loro ci pensi due volte prima di imitarli? L’unica risposta possibile è la comunità internazionale. L’ha già fatto la Commissione internazionale contro l’impunità in Guatemala (Cicig): ha aiutato a ripulire il sistema giudiziario e a smantellare reti criminali e corrotte in Guatemala, portando all’arresto e a processo imprenditori e funzionari, tra cui anche il presidente Otto Pérez Molina quando era ancora in carica.

Ecco perché nel 2019 lo stato guatemalteco, corrotto, ha espulso la Cicig. Ecco perché Juan Orlando Hernández ha autorizzato la creazione della Missione per sostenere la lotta contro la corruzione e l’impunità in Honduras (Maccih) non sotto l’egida dell’Onu ma dell’Organizzazione degli stati americani (Oea), che ha meno potere, e poi l’ha smantellata; ecco perché il leader del Salvador Nayib Bukele ha accettato di istituire la commissione d’inchiesta contro la corruzione e l’impunità con l’Oea, ma l’ha smantellata anche se i risultati sono stati scarsi.

Bisogna insistere sulla necessità di ampliare la presenza della comunità internazionale, altrimenti resteremo in balia dell’impunità locale o della volontà politica degli Stati Uniti, un’eventualità da evitare anche quando i loro interessi coincidono con le nostre necessità, come nel caso dell’arresto di Hernández. In fin dei conti gli Stati Uniti sono stati complici della costruzione di uno stato militarizzato, autoritario e che ha violato i diritti umani.

Ma c’è un altro elemento ancora più importante: gli altri presidenti centroamericani affini a Hernández (Daniel Ortega, Nayib Bukele e Alejandro Giammattei) stanno seguendo con attenzione gli eventi in Honduras. Probabilmente stanno pensando che il modo migliore per evitare una sorte simile è mantenersi al potere, perché Hernández è caduto in disgrazia quando ha lasciato la presidenza. Anche in questo il Guatemala offre una grande lezione: solo la Cicig è stata capace di mettere alle corde un presidente in carica, con il sostegno e l’accordo di tutta la comunità internazionale. Per fare qualcosa del genere, però, ci vorrebbe troppo tempo, ed è evidente che oggi manca la volontà politica.

Per ora dovremo accontentarci della giustizia alla statunitense e, comunque sia, festeggiare: un popolo che ha subìto abusi ed è stato colpito e saccheggiato vedrà uno dei responsabili davanti a un tribunale.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

Quest’articolo è uscito su El Faro, un sito d’informazione salvadoregno indipendente.

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