La riforma del voto di condotta nelle scuole italiane; l’uso diffuso dell’intelligenza artificiale; i valori promossi dai partiti populisti; la crescita di fondamentalismi di ogni genere; la decisione se far salire o meno una passeggera in aereo con un pavone come animale per il “sostegno emotivo”; il fenomeno degli hikikomori (le persone, spesso giovani, che in Giappone vivono recluse nelle loro stanze); il jihadismo. Questi, secondo il politologo francese Olivier Roy, sono tutti sintomi – o meglio conseguenze – “dell’appiattimento del nostro mondo”, o della crisi della cultura e del dominio della norma, come si legge nel sottotitolo del suo ultimo saggio, pubblicato in Italia da Feltrinelli.
Il ragionamento di Roy parte da un paradosso, spiega quando lo raggiungo a Firenze, dove insegna allo European university institute: “Mi sono chiesto come mai nelle società occidentali, che si definiscono liberali, da circa cinquant’anni l’ampliamento delle libertà – politica, sessuale, economica, artistica – si traduce in una moltiplicazione di norme”.
Nella sua carriera di ricercatore, dopo lo studio di un paese come l’Afghanistan, Roy ha proseguito indagando gli effetti dello scollamento tra religione e cultura d’origine, concentrandosi in particolare sull’islam in libri come L’échec de l’islam politique (Il fallimento dell’islam politico, uscito nel 1992) e Global muslim. Le radici occidentali del nuovo Islam (Feltrinelli 2003). I suoi interventi sulla radicalizzazione e sul jihadismo ruotano intorno a una sua celebre riflessione: non assistiamo a una “radicalizzazione dell’islam”, ma piuttosto a un’“islamizzazione della radicalità”.
La svolta storica di Ennahda
Nel saggio La santa ignoranza (Feltrinelli 2009), racconta Roy, ha riflettuto su quanto sia difficile essere credenti quando non ci sono più segni di quella credenza nella cultura: “Da tempo cattolici e musulmani si sono resi conto che la loro pratica religiosa è scollegata dalla cultura in cui vivono”. L’indagine è proseguita nel libro successivo L’Europa è ancora cristiana? Cosa resta delle nostre radici religiose (Feltrinelli 2019), in cui evidenzia le contraddizioni dell’idea di “cultura europea”: è cristiana? Liberale? Settantottina? Conservatrice?
“È stato talmente difficile accordarsi sulla definizione di cultura all’interno dell’Unione europea che alla fine hanno nominato un commissario degli stili di vita, piuttosto che uno della cultura europea”, ironizza Roy. Oggi il presunto “ritorno delle religioni”, scrive nell’Appiattimento del nostro mondo, “in realtà ha fallito l’obiettivo della riconquista delle società e si concentra sulla dimensione della salvezza individuale. Il millenarismo si trasforma in apocalisse. La lotta contro il cambiamento climatico non è per nulla un’utopia ma si presenta come un tentativo di frenare un’apocalisse a venire che altri si attendono sotto altri nomi”.
Non sono le culture nazionali o locali a essere in crisi, ma il concetto stesso di cultura
Roy intraprende quindi una riflessione sul nostro rapporto con la cultura e sull’idea stessa di cultura. I suoi interventi nel corso degli anni per confutare le teorie di Samuel P. Huntington sullo “scontro di civiltà” si arricchiscono di uno sguardo più ampio. Roy adotta un approccio filosofico per far emergere uno schema generale utile a spiegare diversi fenomeni, dai più risibili (come la disputa legale scatenata dal tentativo di una donna di portare un pavone in aereo) ai più tragici e violenti, come il fondamentalismo e il jihadismo. Lungo il percorso, respinge con decisione i discorsi nostalgici di chi afferma “si stava meglio prima” o “il livello della scuola è peggiorato”, e archivia il dibattito decennale su “scontri di civiltà” e “guerre culturali”.
Non sono le culture nazionali o locali a essere in crisi, sostiene Roy, ma il concetto stesso di cultura – nel suo senso antropologico – come insieme di rappresentazioni condivise che accomunano gli appartenenti a uno stesso gruppo sociale. La cultura implicita comune, cioè quello che ogni appartenente a una società capisce senza bisogno di spiegazioni aggiuntive, si sta atrofizzando portando alla cancellazione dell’universale, avverte. Di conseguenza il rapporto con se stessi e con gli altri sta cambiando, in uno spazio pubblico che è sempre più ristretto. La scomparsa dell’implicito nei rapporti sociali ha come conseguenza il fatto che questi rapporti debbano essere regolati, esplicitati e, se necessario, sanzionati con delle norme.
Il matrimonio omosessuale, per esempio, non è la causa della crisi della famiglia, come affermano conservatori e populisti di destra, ma ne è una conseguenza. Allo stesso modo il fondamentalismo religioso è conseguenza della crisi delle vocazioni religiose e dello svuotamento della religione dalla sua cultura, non il risultato di semplici questioni socioculturali, come sostengono i partiti di sinistra.
La perfetta illustrazione della perdita della cultura implicita comune è la diffusione degli emoticon, usati sulla copertina dell’edizione francese del libro. La comunicazione con gli strumenti digitali ha eliminato l’implicito e ci costringe a esplicitare tutto, a usare simboli standardizzati e chiari per evitare incomprensioni, aggiungendo per esempio una faccina sorridente quando vogliamo indicare che stiamo scherzando. L’uso generalizzato del globish (un inglese semplificato, con meno di 1.500 parole, non accompagnato da una cultura comune) ci permette di comunicare, ma elimina tutta una serie di contenuti impliciti necessari per capirsi, scherzare, empatizzare.
La scomparsa dell’implicito non sarebbe grave se non fosse accompagnata da episodi di violenza e da una pedagogia autoritaria, sia a destra sia a sinistra, in cui Roy fa rientrare la laicità imposta dallo stato francese e il movimento MeToo. A differenza dei movimenti femministi del passato che ponevano la questione in termini politici, osserva Roy, il MeToo usa termini pedagogici.
Di fronte all’uniformizzazione e all’appiattimento, emergono lotte feroci per i particolarismi e le piccole differenze. Roy sottolinea la violenza della polarizzazione: “Anatemi, minacce, denunce, notizie false, censura. Tutto questo riduce le relazioni sociali a processi morali o giudiziari”. È l’estensione dell’ambito della normatività.
Spesso l’autore analizza i fenomeni partendo da un’intuizione, e non lo nasconde. Roy ha sempre diffidato delle analisi quantitative, non per disprezzo verso quella scienza, ma perché il quantitativo lavora sui fatti e poi costruisce delle teorie: “Crea delle scatole e poi non accetta di averle create. Non s’interroga sull’uso delle parole, ma costruisce le categorie a partire dalle parole che ha scelto”. Roy critica anche l’importanza data all’intelligenza artificiale e agli algoritmi, che ha portato a una disumanizzazione della conoscenza: il mondo accademico, ma anche politico, ha fatto l’errore di concentrarsi sulle ricerche quantitative a scapito di quelle qualitative, che attraverso l’interazione umana e il dialogo offrono una comprensione più profonda.
Questo squilibrio ha favorito un approccio alla conoscenza basato sui dati, che rischia di perdere il contatto con l’esperienza umana e la riflessione critica. Anche il mondo accademico vive una crisi di relazione con il sapere, poiché l’intelligenza artificiale non può sostituire la capacità umana di farsi domande e rimettere in discussione concetti fondamentali.
Roy non offre soluzioni concrete e definitive al problema, ma sottolinea l’importanza del pensiero critico e della riflessione filosofica. In un mondo che cerca risposte rapide e precise, il valore è nella continua esplorazione, nel fare domande e mettere tutto in discussione, cosa che l’intelligenza artificiale non può fare.
L’autore combina la curiosità intellettuale, l’umiltà del pensiero scientifico – consapevole di non poter spiegare tutto – e una grande ambizione: spiegare il nostro mondo. E così facendo, apre nuovi spazi alla riflessione.
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