Non ci sono molti aspetti positivi nella pandemia di covid-19, ma uno di questi è l’apparente ritorno della natura dovuto al rallentamento del frenetico ritmo della vita moderna. Abbiamo visto gli uccelli selvatici tornare nelle acque della laguna di Venezia di nuovo limpide, i cinghiali aggirarsi nelle strade di Bergamo e le ormai famose capre di montagna di Llandudno, in Galles.

Nel Regno Unito la natura sembra prepararsi a una primavera e a un’estate rigogliose. Meno auto sulle strade significa meno animali investiti. Molti uccelli e roditori saranno risparmiati perché i gatti domestici saranno tenuti in casa dai loro padroni. Nelle città i fiori di campo prospereranno, perché le amministrazioni si renderanno conto che tosare parchi e aiuole non è un’attività essenziale. La natura, a quanto pare, è di ritorno.

Sfortunatamente questa è solo una parte della verità, e riguarda soltanto i paesi industrializzati, che sono una minoranza. Gran parte della biodiversità mondiale si trova nei paesi poveri e nelle economie emergenti del sud del pianeta. Ed è probabile che in questi luoghi gli effetti economici della pandemia saranno devastanti per la natura.

Biodiversità ancora più a rischio
La differenza sta nel modo in cui le persone rispondono al trauma economico dovuto alla perdita dei mezzi di sostentamento. Molti paesi industrializzati dispongono di reti di sicurezza che evitano ai più poveri e vulnerabili di sprofondare nell’indigenza, e l’importanza dello stato sociale non è mai stata evidente come durante questa pandemia. Nel Regno Unito, per esempio, i sussidi del governo permettono alle persone che non possono lavorare di ricevere l’80 per cento del proprio reddito. Ma i cittadini di molti paesi poveri non hanno nessun sostegno dai loro governi, il che li rende incredibilmente vulnerabili. Per molti di loro saranno l’oceano e la foresta a fornire una rete di protezione.

Quando le persone non hanno più niente, possono sempre trovare nella foresta qualcosa da mangiare o da vendere

Per i più poveri sfruttare le risorse naturali è spesso l’unica soluzione. Gli animali selvatici, i pesci e gli alberi delle foreste di solito non appartengono a nessuno, e si trovano in aree rurali dov’è difficile far rispettare le leggi. Inoltre non ci sono grossi limiti tecnici al loro sfruttamento: non serve una laurea per maneggiare un’ascia. E così, quando le persone non hanno più niente, possono sempre trovare nella foresta qualcosa da mangiare o da vendere.

L’ho visto con i miei occhi vivendo per dieci anni in Madagascar, un paese ricco di lemuri e altre creature uniche, ma anche una delle nazioni più povere al mondo. Le mie ricerche dimostrano che quando i malgasci perdono le loro fonti di reddito a causa dei disastri provocati dai cambiamenti climatici, spesso ricorrono alle risorse naturali per sbarcare il lunario.

Allevatori e coltivatori colpiti dalla siccità possono decidere di sfruttare la foresta per produrre carbone, o di praticare un’agricoltura slash and burn (taglia e brucia). Altri si dirigono verso le coste per pescare, ma dato che non hanno le capacità e gli strumenti necessari fanno ricorso a tecniche distruttive come la pesca con il veleno. Le ricadute sulla biodiversità possono essere devastanti.

Naturalmente per queste persone la pandemia di covid-19 è una minaccia più grave dei cambiamenti climatici, almeno a breve termine. Dopo la crisi finanziaria del 2008, i camerunesi che avevano perso il lavoro si sono dati alla caccia e alla pesca di frodo e alla deforestazione, nel disperato tentativo di mantenere il proprio reddito, ed è possibile che ora succeda qualcosa di simile in tutto il mondo. In India milioni di persone hanno perso il lavoro nelle città e sono tornate a vivere con le loro famiglie nei villaggi d’origine, un movimento di massa mai visto dai tempi della partizione del paese nel 1947.

Sorveglianza indebolita
Qualcosa di simile è accaduto anche in Madagascar, in altri paesi africani e probabilmente in buona parte di quelli tropicali. Nessuno può prevedere l’impatto di questo esodo rurale senza precedenti, ma è chiaro che molte più persone si ritroveranno più povere, più affamate e più vicine a delle risorse naturali sfruttabili di quanto non lo fossero poche settimane fa. Allo stesso tempo la sorveglianza e la gestione di preziose riserve naturali si sono indebolite. Comprensibilmente, i governi si preoccupano della salute pubblica e nelle zone di campagna la presenza delle forze dell’ordine si è ridotta. Nel frattempo lo stop del turismo globale ha improvvisamente lasciato senza fondi migliaia di aree protette, cancellando le entrate necessarie per finanziare attività come la lotta al bracconaggio.

Quel che è peggio, un calo a lungo termine dei proventi del turismo potrebbe radicalmente cambiare i calcoli delle persone che vivono vicino alla flora e alla fauna selvatica. Ai margini dei parchi e delle riserve africane milioni di persone convivono con gli animali, non sempre in armonia. Gli animali selvatici possono distruggere i raccolti, attaccare il bestiame e perfino uccidere le persone. I proventi del turismo hanno controbilanciato parte dei costi che gli abitanti del luogo devono sopportare e sono stati un’incentivo alla conservazione della natura. Ma questa fragile coesistenza potrebbe non durare se i turisti non torneranno presto.

Nelle città occidentali il ritorno della natura ha portato un po’ di gioia in questi tempi difficili e ci ricorda piacevolmente quanto essa sia resiliente, ma il temporaneo rallentamento dell’economia non basterà a salvare la flora e la fauna selvatiche del nostro pianeta. Per riuscirci dovremo fare in modo che la tutela ambientale sia una delle priorità nel mondo che uscirà dalla pandemia.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito su The Conversation.

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