La sfida per ogni fotogiornalista che segue una corsa alle presidenziali è capire come catturare l’essenza di un candidato in un ambiente molto rigido, mentre l’intera campagna mira a mantenere il controllo sulla sua immagine pubblica.

Nonostante questo, c’è spesso l’opportunità di catturare piccoli attimi rivelatori che accadono dietro le quinte. Tradizionalmente, questi sono momenti fondamentali mentre si segue una campagna, e ci permettono di raccontarla in maniera più ricca e originale. Ma nella campagna di Donald Trump momenti di questo tipo sono stati molto rari.

Fino a poco tempo fa, l’unico posto da cui abbiamo potuto fotografarlo è stata la press pen, un’area recintata nel retro della sala dove si svolgevano i suoi eventi, e da cui potevamo fotografarlo solo standogli davanti. Trump non ama farsi fotografare di spalle, di profilo o dal basso, ecco perché non abbiamo mai avuto molto accesso all’area vicina al palco.

I fotografi che hanno seguito la sua campagna hanno passato settimane senza vederlo interagire con i suoi sostenitori che affollavano i comizi. Nelle ultime settimane ci hanno spesso fatto uscire prima che finisse di parlare. A settembre, ha fatto il suo comizio in New Hampshire mentre i giornalisti erano ancora in viaggio per raggiungerlo, e compiacendosi di essere salito sul palco senza di noi.

Nonostante le tante restrizioni, ho provato a fare del mio meglio per comunicare l’atmosfera della sua campagna e dei suoi eventi, che spesso possono sembrare cupi, sia visivamente sia nel tono.

Aston, Pennsylvania, il 13 settembre 2016. (Damon Winter, The New York Times/Contrasto)

Ai comizi, i giornalisti erano sempre attaccati dai suoi sostenitori e insultati da lui. Ho sentito spesso commenti razzisti e violenti e visto ragazzini urlare slogan come “Rinchiudetela” – riferendosi a Hillary Clinton – davanti ai loro genitori. Vicino a Milwaukee un uomo si è avvicinato alla barriera di metallo che ci separava e mi ha sussurrato che se Clinton fosse stata lì l’avrebbero “fatta a pezzi”.

Trump è un soggetto visivamente molto affascinante. È subito riconoscibile da quasi ogni angolazione e distanza. I suoi capelli, che sono la sua firma, riflettono più luce di qualsiasi altra cosa intorno a lui, permettendogli di emergere in ogni situazione. E questo dà la possibilità di essere molto creativi nel modo di ritrarlo. È anche molto espressivo quando parla, e può essere una sfida: fa così tanti gesti che dopo un po’ perdono di senso e significato.

Per questo motivo, spesso mi è capitato di essere stato attratto dai suoi momenti più tranquilli. La prima volta che Trump ha usato un gobbo elettronico, l’ho ritratto attraverso il vetro trasparente. Dopo aver criticato per mesi la sua avversaria per averlo usato ed essersi messo nei guai con i suoi discorsi improvvisati, il candidato sembrava umiliato di doverlo usare.

Donald Trump durante un evento a Youngstown, Ohio, il 15 agosto 2016. (Damon Winter, The New York Times/Contrasto)

Nonostante i limiti della sua campagna, Trump ha accettato di farsi ritrarre da me in tre occasioni. Nelle sessioni fotografiche è stato sempre cordiale e per lo più accondiscendente, ma era molto chiaro su come voleva apparire. La mia sfida più grande è stata quella di andare oltre le solite pose e lo sguardo accigliato che sembrava preferire. Durante un servizio fotografico nel quartier generale della sua campagna, i membri dello staff gli davano la mano e si congratulavano con lui mentre nella stanza venivano lanciati coriandoli blu e rossi.

In una delle ultime foto che gli ho scattato, quando i festeggiamenti erano finiti e lui stava uscendo dalla scena passando sugli ultimi coriandoli rimasti, mi è sembrato di intravedere un po’ di quello che Trump prova quando i riflettori sono spenti e la festa è finita.

Donald Trump a Greensboro, North Carolina, il 14 giugno 2016. (Damon Winter, The New York Times/Contrasto)

Ho capito che un ritratto, per raccontare bene qualcuno, non deve necessariamente mostrarne il volto. Una delle foto più comunicative che gli ho scattato lo ritrae davanti a una bandiera americana poco illuminata, con il dito puntato e i suoi dorati capelli iconici ben visibili, a Greensboro, in North Carolina. È molto forte non solo per quello che si vede, ma anche per quello che è nascosto.

All’inizio non ero convinto di seguire un’altra elezione, ma ho capito subito che quest’anno sarebbe stato più importante di sempre stare lì fuori con uno sguardo vigile, riflessivo e critico. Man mano che le restrizioni per i giornalisti aumentavano, sentivo che era mio dovere in ogni momento possibile ribaltare la situazione e fare foto oneste e significative. Ogni situazione, non importa quanto controllata, artificiosa o mondana, sarebbe stata un’opportunità per raccontare qualcosa di vero.

So che non potrò mai raccontare le notizie nel modo in cui lo fanno gli scrittori, ma quello che posso fare è aiutare il lettore a capire cosa significa essere lì, e fare foto che vadano oltre l’oggetto inquadrato.

Il mio ruolo non è quello di far venire bene il candidato nelle foto o far sembrare che ci siano delle folle impressionanti. Il mio lavoro è raccontare la storia.

(Traduzione di Rosy Santella)

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano statunitense The NewYork Times.

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