Con le tensioni crescenti tra Israele e i palestinesi nelle ultime settimane, è emersa una percezione accentuata e piuttosto circoscritta di ciò che costituisce una minaccia per la sicurezza nazionale di Israele. Non si tratta più delle proteste dei palestinesi, dei lanciatori di pietre, e neppure dei razzi di Hamas. Oggi il simbolo stesso dell’identità nazionale palestinese è diventato una minaccia. Si tratta della sua bandiera rossa, verde, nera e bianca.

Durante il funerale della giornalista Shireen Abu Akleh, decine di agenti di polizia israeliani hanno assalito il corteo tentando con violenza di impedire alle persone in lutto di marciare davanti all’ospedale, facendo quasi cadere la bara trasportata in spalla da diverse persone. Uno dei bersagli principali di quella forza erano le bandiere palestinesi. La polizia ha attaccato chiunque la sventolasse, arrivando a rompere il finestrino del carro funebre per rimuoverne una deposta all’interno. Il fatto è avvenuto dopo che le autorità israeliane avevano fatto irruzione nella casa della famiglia di Abu Akleh, rimuovendo tutte le bandiere sull’edificio. L’ordine sarebbe arrivato da un capo della polizia distrettuale per fare in modo che i colori palestinesi non fossero mostrati all’evento.

Qualche giorno dopo, in occasione del 74º anniversario della nakba, centinaia di studenti palestinesi con cittadinanza israeliana che sventolavano bandiere palestinesi alle università di Ben Gurion e Tel Aviv sono stati interrotti da attivisti ebrei di destra. L’incidente, poi, è sfociato nella violenza tra le due fazioni e ha portato all’arresto di tre palestinesi da parte della polizia israeliana.

Frenetica campagna di rimozione
La vista delle bandiere palestinesi ha fatto infuriare il ministro delle finanze Avigdor Liberman, che ha minacciato di tagliare il bilancio dell’Università di Ben Gurion. Nel frattempo, la ministra dell’istruzione Yifat Sasha-Biton ha affermato che le immagini provenienti dall’ateneo sono inaccettabili, promettendo di esaminare la questione e verificare se i fatti rientrino nella categoria di “istigazione, violenza o danno ai simboli dello stato”.

Tutto ciò è avvenuto sullo sfondo di una frenetica campagna di rimozione delle bandiere da parte delle forze di occupazione israeliane, della polizia israeliana e dei coloni in Israele e nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme Est. Ci sono prove che mostrano che nel villaggio di Huwwara, nella Cisgiordania amministrata dall’Autorità palestinese, l’esercito israeliano ha rimosso le bandiere palestinesi dai lampioni, e ha difeso i coloni che facevano lo stesso. Gli israeliani hanno postato online i video delle loro azioni. In altre scene, invece, sempre postate sui social, si vedono i palestinesi che appendono di nuovo le bandiere.

La collera israeliana per le bandiere esposte nelle università è arrivata fino alla knesset, dove il Likud dell’ex premier Netanyahu ha presentato un disegno di legge che bandisce la bandiera palestinese dalle istituzioni finanziate dallo stato, comprese le università. La proposta ha superato la lettura preliminare con 63 voti favorevoli e 16 contrari, e i deputati dei partiti di destra della coalizione, Tikva hadasha, Yisrael eitenu e Yamina, compreso il premier Bennett, hanno votato insieme all’opposizione. I partiti centristi della coalizione, quello laburista, l’Alleanza blu e bianco e lo Yesh atid del ministro degli esteri Yair Lapid, si sono tutti astenuti. Solo il partito arabo Raam e il partito di sinistra Meretz hanno votato contro. La bozza deve superare tre letture per diventare legge.

La frattura nella knesset
La frattura etnica e ideologica nel voto è stata sorprendente. Da una parte si è schierata la maggioranza ebraica, che considera la bandiera palestinese una “bandiera nemica” e il fatto di sventolarla come una usurpazione dei simboli dello stato israeliano. Dall’altra, i deputati della minoranza araba, che hanno sfidato il disegno di legge, considerandolo un attacco deliberato alla loro identità nazionale in quanto etnicamente palestinesi.

Probabilmente la frattura ha manifestato anche la natura gerarchica della “democrazia etnica” di Israele, che dà precedenza all’ebraismo rispetto ai diritti fondamentali per tutti. Questo significa che solo gli ebrei hanno il pieno potere o il diritto di appropriarsi dello stato e farne uno strumento per far avanzare i propri interessi nazionali.

Anche se il sistema concede ai cittadini palestinesi di Israele il diritto alla rappresentanza, li priva tuttavia degli strumenti necessari per rafforzare i loro diritti politici nei confronti della controparte ebrea. La faccenda si fa particolarmente spinosa quando questi diritti hanno a che fare con la loro identità etnica e nazionale, per lo più considerata antitetica al quadro di riferimento sionista che guida e definisce lo stato. La bandiera palestinese è una delle questioni di scontro.

Era quasi inevitabile che la seduta della knesset evolvesse in una lite furibonda tra i deputati ebrei e quelli palestinesi. Il parlamentare del Likud Eli Cohen, che ha presentato il disegno di legge, ha attaccato la Lista araba unita, affermando che “coloro che vogliono essere palestinesi possono trasferirsi a Gaza o in Giordania”. Citando l’ex primo ministro Yitzhak Shamir, Cohen ha dichiarato: “Gli arabi sono sempre i vecchi arabi, e il mare è sempre il mare”. Il messaggio era che gli “arabi” non cambieranno mai e che il loro scopo resterà sempre quello di spingere gli ebrei in mare. La bandiera palestinese, che lui ha chiamato “la bandiera dell’Olp”, è solo uno strumento per raggiungere questo obiettivo. “Se non vivessero in Israele, vivrebbero nella paura in Libano, in povertà o massacrati a Gaza”, ha continuato Cohen, mentre i deputati palestinesi indignati venivano scortati uno a uno fuori dall’assemblea.

La questione dell’identità
Secondo Adalah, organizzazione per i diritti dei palestinesi israeliani, in base alla legge israeliana, sventolare la bandiera palestinese non è un reato. Un’ordinanza di polizia concede ai funzionari il diritto di confiscare una bandiera solo se questa “comporta una turbativa dell’ordine pubblico o una violazione della pace”. Che cosa costituisca una “turbativa” o una “violazione della pace” tuttavia dipende della valutazione della polizia e dell’esercito israeliani. E come hanno dimostrato i recenti avvenimenti, soprattutto a Gerusalemme Est, “violare la pace” può semplicemente significare contestare l’ordine imposto dall’occupazione o esporre simboli nazionali palestinesi, che è anche un atto di ribellione contro questo ordine.

La fobia della bandiera palestinese non riguarda l’imposizione della sovranità israeliana, ma la cancellazione dell’identità palestinese

Da questo punto di vista, spiega Orly Noy, del comitato esecutivo dell’associazione B’Tselem, le azioni repressive contro la bandiera palestinese potrebbero essere interpretate come parte della logica sionista di difesa della sovranità ebraica. Eppure la campagna di rimozione delle bandiere viene condotta anche nei Territori occupati nel 1967, dove Israele non rivendica ufficialmente la sovranità. Inoltre, la campagna ha preso di mira anche la sfera privata dei palestinesi, come la casa di Shireen Abu Akleh, e non semplicemente istituzioni pubbliche o strade considerate simboli dello stato.

Secondo i palestinesi, questa “mania della bandiera” di Israele, o come l’ha definita il deputato palestinese Ahmad Tibi la “bandierafobia-P”, la fobia della bandiera palestinese, non riguarda tanto l’imposizione della sovranità israeliana quanto la soppressione e la cancellazione dell’identità e della coscienza nazionale palestinese.

Hussam Zomlot, ambasciatore palestinese nel Regno Unito, ha spiegato che attaccare la bandiera palestinese rappresenta una “negazione totale dei diritti individuali e collettivi palestinesi e una prosecuzione della cancellazione della demografia e dell’identità palestinese in corso dal 1948”. Jehad Malaka, ricercatore esperto di affari politici e relazioni internazionali che vive a Gaza, ha dichiarato che la paura della bandiera palestinese è diventata quasi “un male cronico della società occupante, che innesca una continua irrazionalità politica. L’ossessione per la bandiera è parzialmente dovuta al fatto che rappresenta la legittimità e la rappresentazione statuale della Palestina, come tale riconosciuta dalla comunità internazionale”.

Ma soprattutto, aggiunge Malaka, “la bandiera unisce i palestinesi in tutto il mondo, come un popolo e un’identità che condividono lo stesso destino e le stesse aspirazioni nazionali. Pertanto, è un fastidioso richiamo che ricorda agli ebrei israeliani il peccato dell’occupazione e il peccato originale della nakba del 1948. Dopotutto, i simboli nazionali palestinesi confutano la negazione sionista dell’esistenza dei palestinesi in quanto popolo e identità unici, separati dal più ampio contesto arabo”.

La voce della ragione è svanita
Anche se l’attacco israeliano ai simboli nazionali palestinesi è la norma dal 1948, l’intensità di questa recente ondata è senza precedenti. Malaka la attribuisce soprattutto alla crisi politica interna di Israele. Il sistema politico israeliano si è ridotto a una rivalità faziosa tra la destra e l’estrema destra, e tra queste e i partiti di centro e di sinistra, ciascuno impegnato a fare di tutto per dimostrare la propria lealtà e la propria dedizione allo stato a spese della stabilità del paese e dei diritti palestinesi. “La voce della ragione, tradizionalmente rappresentata dalla sinistra, è svanita. Quel che resta è un governo debole e instabile, sull’orlo del collasso, e la possibilità di un’elezione generale, la quarta in tre anni, è molto realistica”, sostiene Malaka, “Il risultato è un maggiore senso di insicurezza per il futuro dello stato, che quindi porta l’opinione pubblica e le istituzioni statali a essere ipersensibili a minacce o fastidi altrimenti marginali, come la bandiera palestinese”.

La crisi ha infatti spinto diversi funzionari israeliani, compreso l’ex primo ministro Ehud Barak e l’attuale premier Naftali Bennett, a lanciare l’allarme che l’esistenza di Israele potrebbe essere in pericolo. Suonare le campane della catastrofe potrebbe essere una mossa tattica per spaventare il fronte interno spingendolo all’unità. Tuttavia, l’intensificazione delle misure antipalestinesi, i violenti tentativi di “dimostrare” la sovranità israeliana su Gerusalemme Est, e le costanti minacce all’Iran e ai paesi vicini, potrebbero far pensare che il sistema politico israeliano e la fiducia in se stessi in quanto nazione siano allo sbando.

La tendenza emerge da un recente sondaggio, secondo il quale il 69 per cento degli ebrei israeliani è preoccupato per il futuro dello stato ebraico. Un altro motivo di preoccupazione per lo stato israeliano, che potrebbe ulteriormente spiegare la campagna sulla bandiera, è la crescita del nazionalismo palestinese tra i cittadini palestinesi di Israele. Nella stessa rilevazione, il 75 per cento di questi ha dichiarato di non ritenere che gli ebrei abbiano il diritto alla sovranità in Israele.

I palestinesi di Israele hanno raggiunto i massimi livelli in diversi settori, diventando anche per la prima volta parte di una coalizione di governo, ma il divario socioeconomico tra loro e gli israeliani ebrei è ancora significativo. I loro diritti nazionali e politici in particolare sono diminuiti negli ultimi vent’anni, parallelamente a una vertiginosa crescita del nazionalismo di destra israeliano. A questo si è aggiunta una serie di ulteriori leggi discriminatorie per sopprimere la loro identificazione nazionale ed etnica.

Progressivamente, e in parte come reazione alle politiche israeliane, le espressioni del nazionalismo palestinese tra i palestinesi israeliani si sono fatte più visibili, soprattutto in seguito all’attacco a Gaza del maggio 2021. Hanno cominciato sfidando e modificando la terminologia, da “arabi israeliani” a “palestinesi cittadini di Israele”, passando per una maggiore partecipazione alle cerimonie di commemorazione della nakba, fino a normalizzare provocatoriamente l’atto di alzare la bandiera palestinese nelle città arabe di Israele.

In casi estremi, come è accaduto all’inizio di quest’anno, i palestinesi israeliani sono stati coinvolti in attacchi armati contro le autorità israeliane. Nel corso dei recenti fatti di Al Aqsa, i violenti scontri tra la polizia e i giovani con la bandiera palestinese sono diventati quasi la norma nelle città arabe di Israele come Nazareth e Um al Fahm. È per questo che ora c’è il timore che la decisione di Bennet di formare una “guardia civile nazionale”, in teoria per contrastare gli attacchi palestinesi in Israele, sia anche mirata ai palestinesi di Israele, in previsione di un’implosione interna che potrebbe portare a scontri tra la maggioranza ebraica e la minoranza palestinese.

(Traduzione di Francesco De Lellis)

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