Questo articolo è stato pubblicato il 24 novembre 2006 sul numero 669 di Internazionale.
Pat Shapiro è una donna di settant’anni piena di vita: aria elegante, capelli color argento e occhi azzurri molto vivaci. Vive con il marito Don in una casa coloniale a Dover, nel Massachusetts. Dopo 56 anni di matrimonio, la memoria a breve termine di Pat non è più quella di una volta. “La sua memoria a lungo termine, però, è molto precisa”, afferma Don. “Riesce a ricordare dettagli dei nostri viaggi in Europa di tanti anni fa che io non riesco più a ricordare”.
Ma circa un anno fa è successa una cosa strana. Pat Shapiro era in macchina davanti a un negozio con la figlia Susan, mentre l’altra figlia, Allison, era scesa a comprare qualcosa. Pat notò una donna e un bambino, che le sembravano molto familiari, salire sulla macchina posteggiata lì accanto. “Li ho visti anche l’ultima volta che sono stata qui”, osservò Pat, “Il bambino ha fatto esattamente gli stessi gesti”. Susan alzò gli occhi al cielo, trovando strana l’osservazione e anche che sua madre fosse stata in quel negozio di recente. Poi Pat notò un’altra donna, che fumava e parlava al cellulare. “C’era anche quella signora con la sciarpa, che fumava”, disse.
Questa volta Susan protestò. “Mamma, è improbabile che quella donna stia sempre qui nel parcheggio a fumare”. “No, erano qui anche l’altra volta”, insistette Pat. Non riusciva a ricordare esattamente quando era stata lì, ma era sicura di aver visto quelle persone. Sua figlia Allison tornò e mentre stavano ripartendo Pat notò due suore sul marciapiede: “Anche loro erano lì l’altra volta”, disse. “Mamma, ti senti bene?”, chiese Susan. “Sto benissimo”, rispose Pat. Più tardi Susan chiamò il padre per sapere se a Pat fosse già successo di riconoscere persone e posti che non aveva mai visto. “Oh, sì, ogni tanto succede”, rispose lui. Susan gli chiese se la cosa lo preoccupava. “Solo quando vuole convincermi che le cose sono andate in un certo modo”, disse lui.
In seguito Pat confessò a Susan di provare diverse volte al giorno una sensazione che a Susan sembrò simile a un déjà vu: una familiarità con un posto o una situazione nella quale non poteva essersi già trovata. Sosteneva di riconoscere i particolari di ristoranti in cui non era mai stata, e di tanto in tanto salutava dei perfetti estranei come se li conoscesse. Ma in quei momenti, Pat non aveva la sensazione di déjà vu. Le sembrava un ricordo vero e proprio. Qualcosa di reale.
Informazioni distorte
Fermatevi un attimo a ricordare quello che vi è successo ieri. Immagini e suoni cominciano a scorrere nella mente: le persone con cui avete parlato, i posti dove siete stati, quello che avete mangiato. Mentre ripercorrete la giornata, una scena si collega a un’altra e innesca una serie di immagini vivide. Come fate a essere sicuri che state ricordando le cose così come sono successe, senza alterare o inventare niente? Può sembrare una domanda stupida: in fondo voi c’eravate. Ma che cosa rende quelle immagini reali ai vostri occhi? Provate a inserire nella vostra giornata un ricordo completamente falso, magari quello di aver incontrato una persona famosa. Certo, riuscite a immaginarlo, ma non vi sembra reale. Come mai? Quando funziona bene tendiamo a non far caso alla nostra memoria. È solo quando ci viene a mancare o ci tradisce che cominciamo a riflettere sui suoi meccanismi. Il funzionamento della memoria è da secoli uno dei misteri inafferrabili della psicologia umana.
Un tempo la scienza vedeva la memoria come una specie di schedario nel quale i ricordi erano incasellati ordinatamente. Potevano essere ritrovati in qualsiasi momento e di tanto in tanto finivano fuori posto. Ma le ricerche degli ultimi trent’anni hanno superato questa metafora. Lo psicologo cognitivo canadese Endel Tulving, negli anni settanta, elaborò una distinzione tra memoria episodica – i ricordi delle nostre esperienze personali – e semantica, relativa cioè a fatti e concetti. Sapere qual è la capitale della Francia rientra nella memoria semantica; ricordare un viaggio a Parigi in quella episodica. Quando accediamo alla memoria episodica, osservava Tulving, non evochiamo solo informazioni, ma riviviamo gli eventi stessi, ed è questa sensazione a dirci che il ricordo è reale. Tulving e un gruppo di colleghi cognitivisti – aiutati dalle nuove tecniche di neuroimaging (che consentono di vedere il cervello in azione) – cominciarono ad analizzare il rapporto tra memoria e coscienza. Dimostrarono che i ricordi episodici sono il frutto di una complessa rete di segnali, sparsi in tutto il cervello e poi riassemblati, ad hoc, nel momento in cui servono. Oggi si pensa che alcuni di quei segnali, concentrati nella zona dei lobi temporali del cervello detta ippocampo, siano fondamentali per creare il tipo di esperienza descritta da Tulving.
Sempre negli anni settanta gli psicologi cominciarono a dimostrare tutti i possibili malfunzionamenti della memoria – non solo quando non ricordiamo, ma anche quando inseriamo informazioni false o distorte. Negli anni novanta Elizabeth Loftus portò avanti, all’università della California a Irvine, una serie di studi dopo un’ondata di casi di molestie sui minori. Erano basati sulla “memoria recuperata”, e dimostravano che nei soggetti studiati era possibile indurre falsi ricordi. Nel 1995, i ricercatori della Washington University di St. Louis dimostrarono che le persone a cui veniva letta una lista di parole come letto, riposo, sveglio, sogno, veglia e dormire, quando poi venivano interrogate spesso ricordavano senza ombra di dubbio di aver sentito la parola sonno. Ma come è possibile che ci lasciamo ingannare dai falsi ricordi? La risposta non va cercata nel loro contenuto ma nel processo che adottiamo per riassemblarli e richiamarli alla mente.
La figlia di Pat, Susan, cominciò a cercare su internet delle informazioni sugli episodi di déjà vu di cui soffriva sua madre. Si imbatté nelle ricerche di Chris Moulin, un neuropsicologo dell’università di Leeds, in Gran Bretagna. Moulin e altri suoi colleghi avevano pubblicato due saggi scientifici in cui descrivevano quello che chiamavano déjà vécu: tradotto letteralmente, la sensazione di aver “già vissuto” qualcosa. I casi riportati sembravano molto simili a quello di Pat, così Susan scrisse un’email a Moulin per chiedergli aiuto.
Chris Moulin è uno dei pochissimi scienziati a studiare il déjà vu, ma come molti, un tempo pensava che si trattasse solo di uno strano fenomeno occasionale. Il déjà vu, che tradotto letteralmente dal francese significa “già visto”, per alcune persone può essere un’esperienza strana e inquietante; per altre, una sensazione eccitante e spirituale.
Si verifica nei momenti più impensati, dura da pochi secondi a qualche minuto e spesso è accompagnato da un senso di premonizione. Non solo la situazione appare familiare, ma sembra anche che dietro di essa si nasconda a livello inconscio una visione del futuro.
La clinica della memoria
La definizione scientifica ufficiale di déjà vu, proposta nel 1983 dallo psichiatra Vernon Neppe, è: “Qualsiasi sensazione soggettiva di falsa familiarità che porta a identificare l’esperienza attuale con un’altra che si colloca in un passato imprecisato”. Al di là della definizione, tuttavia, la comprensione scientifica di questa “falsa familiarità” rimane piuttosto vaga. Anche la religione e la parapsicologia hanno provato a darne una spiegazione, citando il déjà vu come prova di tutto, dalla chiaroveggenza alla reincarnazione. Ma poiché il fenomeno è difficile da riprodurre in laboratorio, se non impossibile, i ricercatori come Moulin dispongono di pochi strumenti per smentire i falsi miti.
Nel dicembre del 2000 Moulin stava seguendo un corso di specializzazione in neuroscienza all’università di Bristol e lavorava presso la clinica della memoria del vicino ospedale di Bath, quando ricevette una strana lettera da un medico del posto. Il collega gli parlava di un immigrato polacco di ottant’anni che soffriva di “frequenti sensazioni di déjà vu”. Il medico aveva consigliato all’uomo – un ex ingegnere, le cui iniziali erano A.K.P. – di fissare un appuntamento alla clinica della memoria. A.K.P. aveva risposto di esserci già stato e di non vedere il motivo per tornarci. Il problema era che, come il medico sapeva, in realtà l’uomo non c’era mai stato.
Incuriosito, Moulin cominciò a incontrare A.K.P. e sua moglie. “Era molto spiritoso e abile con le parole, perfettamente in grado di badare a se stesso”, ricorda Moulin. Ma la moglie era irritata dai suoi déjà vu e aveva notato altri problemi: dimenticava le cose, confondeva l’immaginazione con il ricordo, e inconsciamente inventava storie per coprire i suoi vuoti di memoria. Gli episodi di déjà vu sembravano “praticamente costanti”, come scrissero Moulin e i suoi colleghi in un articolo del 2005 per la rivista Neuropsychologia. Il paziente si rifiutava di leggere i giornali e di guardare la televisione perché diceva di averli già visti. Ma si rendeva conto delle sue difficoltà; quando diceva di aver già visto un programma e la moglie gli chiedeva che cosa sarebbe successo dopo, rispondeva: “Come faccio a saperlo, non ho memoria”.
Secondo i ricercatori, gli episodi di déjà vu non si verificano prima degli otto o nove anni
Cercando nella letteratura scientifica contemporanea, Moulin trovò un caso che somigliava a quello di A.K.P., si trattava di una donna di 87 anni che sosteneva di rivivere continuamente il passato e di avere la sensazione che una buona parte di quello che le succedeva quotidianamente fosse già accaduto. Il maestro di Moulin, Martin Conway, un pioniere della ricerca sulla memoria episodica, ricordava anche un articolo dello psicologo di Harvard Daniel Schacter della metà degli anni novanta. Schacter aveva raccontato la storia di B.G., un uomo sulla sessantina, che sosteneva di riconoscere persone e situazioni in realtà mai viste.
Quei racconti convinsero Moulin che il caso di A.K.P. andava approfondito. Alla clinica della memoria arrivarono molti pazienti che soffrivano di disturbi simili. Un mese dopo Moulin ricevette una lettera di presentazione per M.A., una donna di settant’anni che secondo il suo medico soffriva di una forma frequente di déjà vu. Anche lei aveva quasi sempre l’impressione di aver già letto i giornali e visto la tv, e aveva addirittura smesso di giocare a tennis perché sosteneva di conoscere il risultato di ogni partita. Moulin scoprì quasi subito che, diversamente da quanto accade normalmente nel déjà vu, in cui si ha immediatamente la sensazione che qualcosa non va, né A.K.P. né M.A. avevano l’impressione che stesse succedendo qualcosa di strano. Per loro quelli erano solo ricordi. Trovavano intere situazioni più che familiari, erano convinti di ricordarle sul serio, tanto che inventavano dei ricordi per giustificare quella convinzione.
La storia del déjà vu ha appassionato, oltre alla scienza, anche la letteratura. Scrittori e poeti si sono spesso dimostrati osservatori più acuti degli scienziati, e gli accenni a sensazioni simili al déjà vu risalgono a Sant’Agostino, che già nel 400 d.C. scriveva di falsae memoriae. Walter Scott descriveva questo fenomeno come “un senso di pre-esistenza” e anche Dickens, Tolstoj e Proust ne parlano nei loro romanzi. Tra gli scienziati, il déjà vu ha viaggiato sotto vari nomi, compreso quello di “paramnesia” e di “fantasmi della memoria”. La prima ondata di ricerche sull’argomento partì dalla Francia intorno al 1890, quando gli psicologi cominciarono a discutere sulle differenze tra i vari tipi di paramnesia. Durante un convegno scientifico, nel 1896, il neurologo F.L. Arnaud propose ai suoi colleghi di unificare le loro definizioni sotto il termine unico di déjà vu.
Due terzi della popolazione
Nel ventesimo secolo, con la nascita del comportamentismo, le ricerche sul déjà vu vennero accantonate. Freud ipotizzò che la sensazione fosse causata dalla somiglianza tra la situazione presente e una fantasia repressa ma concluse che il fenomeno era troppo vago per essere analizzato. I pochi studi svolti finora si basano su questionari relativi a esperienze di déjà vu passate. Le ricerche dimostrano che dal 30 al 90 per cento delle persone hanno avuto un déjà vu nel corso della loro vita. Alan Brown, uno psicologo della Southern methodist university autore di The déjà vu experience, il testo più esauriente sull’argomento, fissa la percentuale di persone che hanno già provato questa sensazione a circa due terzi della popolazione.
I ricercatori ipotizzano che gli episodi di déjà vu non si verifichino prima degli otto o nove anni, il che indica che forse per sperimentare o descrivere il fenomeno sia necessario un certo livello di sviluppo cerebrale. Ma una volta che comincia a verificarsi, diventa frequente durante tutta l’adolescenza fino ai trent’anni, ed è più facile che accada quando siamo stanchi o stressati. Alcuni studi dimostrano che gli episodi diminuiscono con il passare degli anni, anche se gli scienziati non sanno esattamente perché. In realtà però l’esperienza dei pazienti di Moulin prova che a volte accade il contrario. Nel suo libro, Brown individua trenta spiegazioni scientifiche del fenomeno, divise in teorie basate sul “doppio processo”, sulla “neurologia”, sulla “memoria” e sulla “doppia percezione”. Le spiegazioni che si basano sul doppio processo affermano che in un dato momento vengono attivati contemporaneamente due processi mentali normalmente separati. Immaginate due testine di un registratore, una che registra i ricordi e una che li riproduce. Se il cervello comincia a riprodurre mentre sta registrando, il presente può sembrare un ricordo. Le spiegazioni neurologiche si basano sul malfunzionamento di piccoli segnali elettrici: se ci sono due segnali che portano informazioni dai sensi al cervello, un ritardo del secondo segnale potrebbe dare la sensazione che si tratti di un ricordo.
La donna ha restituito la tessera della biblioteca perché aveva la sensazione di aver letto tutti i libri
Le spiegazioni basate sulla memoria sostengono che il cervello interpreti male la somiglianza tra la situazione presente e un vero ricordo. Vedere una poltrona che somiglia a quella che c’era nel salotto di nostra nonna, per esempio, potrebbe generare in noi la sensazione che un luogo sconosciuto ci sia familiare.
Secondo le spiegazioni basate sulla doppia percezione, infine, il cervello si distrae momentaneamente dopo aver già assimilato alcuni particolari di una scena. Quando, qualche secondo dopo, l’attenzione riprende ha la sensazione che si tratti di un ricordo.
Non è detto che tutti gli episodi di déjà vu abbiano la stessa causa, infatti alcune delle categorie di Brown in parte si sovrappongono. A suo parere “i meccanismi scatenanti potrebbero essere quattro o cinque”. Lo scopo principale della teoria del déjà vu è cercare di spiegare cosa provoca questa sensazione. Dopotutto, il déjà vu non si può spiegare solo con la familiarità. “Probabilmente, quando è entrato nel mio studio avrà pensato: ho già visto una lampada come quella”, mi ha detto Moulin. “Ma questo non le ha dato una sensazione di déjà vu. Ha solo pensato: Ah, sì, ha l’aria familiare. Ma non è rimasto sorpreso”.
Era esattamente quell’impressione di sorpresa a mancare a M.A e A.K.P. Per questo motivo Moulin e Conway arrivarono alla conclusione che i due pazienti non dovevano avere comuni sensazioni di déjà vu, ma soffrire di quello che i ricercatori chiamano déjà vécu persistente. La loro ipotesi si basava sul fatto, stabilito in seguito alle ricerche di Tulving, che i ricordi episodici sono costituiti da due parti: un contenuto informativo, o “traccia di memoria” , accompagnato dalla sensazione del ricordo. È questa sensazione, un pezzetto di coscienza attaccato al ricordo, che ci fa capire che stiamo richiamando qualcosa dal passato. “Chi la vive continuamente, senza che a essa sia associata alcuna traccia di memoria”, dice Conway, “ha l’impressione di ricordare il presente”. In altre parole, di averlo “già vissuto”. Moulin ha organizzato una serie di esperimenti per verificare la sua teoria. In uno di questi, ha fatto vedere ad A.K.P e M.A., e ad altre 19 persone che non hanno questi problemi, una serie di foto, alcune di persone qualsiasi, altre di personaggi famosi. Più tardi ha mostrato allo stesso gruppo un’altra serie in cui erano mescolate foto vecchie e nuove e gli ha chiesto di dire per ogni foto se ritraesse una persona famosa o qualcuno che avevano visto prima.
In un altro esperimento, ai soggetti veniva letto un elenco di parole, seguito da un miscuglio delle stesse con parole nuove, e poi si chiedeva loro quali avessero già sentito. I risultati sono stati quelli che Moulin prevedeva: M.A e A.K.P. si sono confusi molto più delle altre 19 persone. Sostenevano quasi sempre di riconoscere facce e parole che non avevano mai visto o sentito. Ma soprattutto, non solo le immagini e le parole sembravano loro familiari ma ricordavano di averle viste e sentite veramente. A volte inventavano delle storie per giustificare quei ricordi. A.K.P. era convinto che la faccia di uno sconosciuto fosse quella di un pittore del posto.
Difetto neurologico
La scansione cerebrale ha rivelato in entrambi i pazienti un livello anomalo di atrofia, o morte cellulare, nei lobi temporali. Moulin sapeva che gli epilettici, i cui attacchi partono dai lobi temporali, spesso prima di un attacco rimangono per qualche minuto in uno “stato sognante” simile al déjà vu. Quindi Moulin e Conway sono giunti alla conclusione che anche il déjà vécu dei loro pazienti sia collocato nei lobi temporali, in un circuito che regola la memoria. Se il circuito è sempre attivo, può inviare al cervello la sensazione di ricordare, anche se a quella sensazione non è associato nessun vero ricordo. È possibile allora che il comune déjà vu sia una versione più semplice del déjà vécu, una breve attivazione in uno dei circuiti del lobo temporale che fa scattare la sensazione del ricordo? “Le persone come A.K.P. dimostrano che questa sensazione separata dalla memoria esiste”, dice Moulin. “Se in tutti noi quel fenomeno è momentaneo, in lui può essere cronico”.
Moulin riceve regolarmente email da persone che provano qualcosa di simile al déjà vécu, o dai loro parenti. Tutte le loro storie si somigliano: c’è la donna che ha restituito la tessera della biblioteca perché aveva la sensazione di aver letto tutti i libri che erano sugli scaffali, e l’uomo che durante il suo primo viaggio a Parigi ha avuto la sensazione di aver già visto tutta la città. Moulin dice che probabilmente ci sono molte altre persone che soffrono di déjà vécu persistente, ma non hanno il coraggio di dirlo al loro medico per timore di essere considerate pazze. Quando però si tratta di mettere in relazione le esperienze di questi pazienti con i normali fenomeni di déjà vu, il lavoro di Moulin incontra una serie di obiezioni da parte della piccola comunità di ricercatori che si interessa da tempo all’argomento.
Lo psichiatra Vernon Neppe, fondatore del Pacific neuropsychiatric institute, è convinto che quello dei pazienti di Moulin non sia veramente un déjà vécu, perché non corrisponde alla definizione di déjà vu, di cui il déjà vécu è una sottocategoria. “La ricerca di Moulin è difficile, perché i pazienti fantasticano troppo. È un tipo diverso di falsa familiarità”, sostiene Neppe.
Immagini inventate
Moulin si è pentito di aver usato inizialmente il termine déjà vu per descrivere il problema dei suoi pazienti, piuttosto che déjà vécu, che si riferisce alla sensazione continua e cronica. Tuttavia, spiega: “È questo che dicono i pazienti quando vanno dal dottore, che i loro mariti o le loro mogli hanno questi continui déjà vu”. Se si riuscirà a stabilire con certezza che tipo di esperienza vivono i suoi pazienti, afferma, sarà possibile gettare le basi teoriche per spiegare il déjà vu – indipendentemente dal fatto che si tratti di un vero frammento di memoria o che sia scatenato da un semplice difetto neurologico. Un’altra obiezione gli viene da Art Funkhouser, uno psicologo svizzero che conduce ricerche sul déjà vu e che ha preso in prestito da Moulin e Conway il termine déjà vécu. Lo psicologo, che attualmente sta analizzando i dati di un migliaio di persone che hanno risposto a un questionario online, sostiene che se Moulin usa il termine cronico, il déjà vu verrà etichettato come una malattia piuttosto che come un vezzo della mente. “Le persone che sta studiando sono affette da varie forme di demenza”, dice. “Vorrei solo che stesse più attento a come ne parla, per non dare l’impressione che tutti quelli che ne soffrono siano considerati dei malati”.
Moulin e Conway sostengono che l’impressione di ricordare che il déjà vécu riassume così bene sia solo una delle tante sensazioni cognitive che ci aiutano a stabilire delle priorità e ad agire in base a quello che pensiamo. Quando quelle sensazioni sono distorte, producono strani effetti. I suoi ultimi esperimenti sono stati concepiti allo scopo di indurre il jamais vu, letteralmente “mai visto”, la sensazione che qualcosa di familiare ci sia estraneo. Conway sta anche studiando il disturbo post-traumatico da stress (Ptsd), in cui i pazienti sono torturati da ricordi traumatici che possono contenere particolari non veri che aggravano il senso di colpa e di impotenza. Le vittime di incidenti a volte ricordano distintamente un momento in cui avrebbero potuto sterzare leggermente a sinistra ed evitare uno scontro, anche se quel momento non c’è mai stato. “L’esperienza del ricordo è il collante che tiene tutto insieme”, afferma Moulin. “Le persone non pensano che stanno inventando quelle immagini. Pensano di ricordarle”. Cercando di comprendere che tipo di esperienza rappresenti il déjà vécu, la terapia cognitivista potrebbe riuscire a convincere i pazienti che molti di quei ricordi negativi non sono reali.
Salman Rushdie una volta ha detto che la memoria ha “il suo speciale tipo” di verità. “Seleziona, elimina, altera, esagera, minimizza, abbellisce e imbruttisce”, ha scritto nel romanzo I figli della mezzanotte, “ma alla fine crea la propria realtà, la sua versione eterogenea ma di solito coerente dei fatti; e nessun essere umano sano di mente si fida della versione di un altro più che della sua”. Non è chiaro fino a che punto il déjà vécu persistente costituisca un pericolo per la sanità mentale di una persona, o può essere considerato una malattia. A.K.P. e M.A. si sono isolati dal mondo: hanno smesso di guardare la televisione e di uscire di casa. Ma soffrivano anche di altri disturbi cognitivi legati all’età. Moulin sta ancora cercando una cura efficace per questo tipo di pazienti, perché sia i farmaci per l’Alzheimer sia quelli antipsicotici non producono alcun effetto. Sospetta che sarebbe possibile aiutarli con alcune tecniche terapeutiche. Se le persone che soffrono di déjà vécu fossero preparate ad affrontare le nuove situazioni in cui stanno per trovarsi, spiega, forse si potrebbe ridurre la sensazione di averle già vissute.
La foto del nipote
Il comune déjà vu non è una malattia, e anche i casi di déjà vécu non sono tutti della stessa gravità. “Penso che il déjà vu continuo e persistente che Moulin sta studiando si verifichi in persone che hanno una mente che funziona normalmente”, afferma Alan Brown. A quanto sembra, Pat Shapiro è una di queste persone. Vive una vita intensa, la sua mente è intatta, e sostiene di non essere preoccupata per il suo disturbo. La figlia Susan teme che durante questi episodi sua madre si affatichi troppo nel tentativo di capire quando sia già stata in un posto o abbia conosciuto qualcuno. Ma di solito, la famiglia ride di questi incidenti. “È una fortuna che riesca a scherzarci sopra”, dichiara Susan.
Un pomeriggio, mentre mi stava raccontando le sue esperienze di déjà vu, Pat Shapiro si è tolta gli occhiali e mi ha guardato intensamente. “Devo dire che somiglia molto a mio nipote”, ha detto. “Lui ha i capelli un po’ più lunghi, ma vi somigliate molto. Quando l’ho vista scendere dalla macchina sono rimasta sorpresa”. “Un momento”, le ho chiesto, “non potrebbe essere stato un déjà vu?” “No, è solo che lei gli somiglia”, ha detto. La mia espressione deve aver tradito un pizzico di scetticismo perché ha subito cambiato discorso.
Poco dopo è entrato suo marito Don, mi ha fissato e mi detto: “Lei somiglia molto a nostro nipote, è incredibile”. Ho guardato Pat, che mi ha sorriso con aria soddisfatta. Più tardi la figlia Susan mi ha fatto vedere la foto del nipote in questione. È stato come vedere un’immagine di me stesso.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è stato pubblicato il 30 dicembre 2004 sul numero 572 di Internazionale. Era uscito sul New York Times Magazine.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it