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Cosa aspettarsi dalle grandi manovre diplomatiche in Israele e in Palestina

Dopo un bombardamento israeliano a Deir al Balah, nel centro della Striscia di Gaza, il 12 febbraio 2024. (Majdi Fathi, NurPhoto/Getty Images)

Sui mezzi d’informazione internazionali e regionali in questi giorni traspare un cauto ottimismo sulla possibilità che i colloqui su un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza si concludano positivamente. La Bbc parla di “progressi” nei negoziati che si sono svolti nel fine settimana a Parigi. Per L’Orient-Le Jour si avanza “a grandi passi”. Il Times of Israel riporta la dichiarazione di un funzionario israeliano, secondo il quale l’accordo che sta emergendo rappresenta una “solida base di discussione”, mentre Asharq al Awsat riferisce di “segnali positivi”.

Nel fine settimana una delegazione israeliana guidata da David Barnea, capo del Mossad (i servizi segreti), ha incontrato i mediatori di Egitto, Qatar e Stati Uniti a Parigi. Il consigliere per la sicurezza nazionale statunitense, Jake Sullivan, ha detto alla Cnn che i quattro paesi hanno raggiunto un’intesa sul “quadro generale” dell’accordo per un cessate il fuoco di almeno sei settimane da imporre nella Striscia di Gaza prima dell’inizio del Ramadan, il 10 marzo. Varie fonti sostengono che potrebbero essere liberati tra duecento e trecento prigionieri palestinesi in cambio di una quarantina di ostaggi israeliani nelle mani di Hamas.

Il 25 febbraio il gabinetto di guerra israeliano ha acconsentito all’invio in Qatar, dove Hamas ha il suo ufficio politico, di una delegazione composta da funzionari militari e dell’intelligence, per lavorare sul possibile accordo. Una fonte ha detto alla Reuters che il gruppo ha l’obiettivo di creare un centro operativo per sostenere i negoziati. Secondo l’agenzia di stampa, questa missione suggerisce che i colloqui di pace sono avanzati a un punto che non era mai stato raggiunto da quando è stato avviato questo grande sforzo diplomatico, all’inizio del mese. I colloqui dovrebbero andare avanti per tutta la settimana in Qatar e proseguire poi in Egitto, dove si svolgeranno ulteriori discussioni per stabilire un calendario e il meccanismo di attuazione.

Il piano di Netanyahu

I rappresentanti di Israele e di Hamas non hanno ancora fatto dichiarazioni ufficiali e per ora non s’incontreranno faccia a faccia. Le posizioni pubbliche tra le parti restano lontane su alcuni punti importanti: il gruppo palestinese rifiuta di liberare gli ostaggi se Israele non promette un ritiro totale dalla Striscia di Gaza e la fine dei combattimenti. Tel Aviv ribadisce invece la sua intenzione di accettare solo una pausa temporanea delle ostilità per liberare gli ostaggi, ma di proseguire l’offensiva sul terreno fino a quando Hamas non sarà completamente sradicata, e vuole ottenere il controllo sulla sicurezza del territorio palestinese a tempo indeterminato.

Nonostante le manovre diplomatiche in corso, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è determinato a lanciare un’operazione di terra a Rafah, la città del sud della Striscia di Gaza dove centinaia di migliaia di sfollati vivono in condizioni disperate. Il 26 febbraio un comunicato dell’ufficio di Netanyahu ha reso pubblico che l’esercito ha presentato al gabinetto di guerra “un piano per l’evacuazione dei civili dalle zone di combattimento nella Striscia di Gaza e un piano per le operazioni a venire”, riferisce Le Monde. Non sono stati forniti però ulteriori dettagli.

Qualche giorno prima, il 23 febbraio, Netanyahu aveva fatto circolare tra i ministri del suo gabinetto di guerra e i giornalisti una proposta, la più dettagliata resa pubblica finora, per il post guerra nella Striscia di Gaza. In base al piano Israele manterrebbe il controllo militare e della sicurezza del territorio, mentre cederebbe l’amministrazione civile a un’entità palestinese senza legami con Hamas. Israele sarebbe responsabile di “demilitarizzare” Gaza, eliminando qualunque capacità operativa oltre quella necessaria per l’ordine pubblico. Il piano prevede anche di smantellare l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi, di ristrutturare i sistemi del welfare e dell’istruzione e di allestire delle zone cuscinetto lungo i confini con Israele e l’Egitto. Resta esclusa invece la questione fondamentale sulla possibilità di consentire ai coloni israeliani di ristabilirsi nella Striscia di Gaza.

Il New York Times commenta che il piano, se realizzato, “renderebbe quasi impossibile stabilire uno stato palestinese che comprenda Gaza e la Cisgiordania occupata, almeno sul breve periodo. Questo potrebbe accelerare uno scontro tra Israele e un numero crescente di partner stranieri, compresi gli Stati Uniti, che stanno spingendo per una sovranità palestinese dopo la fine della guerra”.

Diversi analisti hanno confermato al quotidiano statunitense che il piano sembra ideato appositamente “per rinviare decisioni a lungo termine sul destino di Gaza e per evitare diverbi irreversibili sia con gli alleati interni sia con i partner stranieri”. La proposta segnala alla base di destra di Netanyahu la sua intenzione di ignorare le pressioni internazionali e opporsi alla creazione dello stato palestinese; ma la “vaghezza della sua formulazione” segnala anche agli Stati Uniti e alle altre potenze straniere favorevoli alla sovranità palestinese che “c’è ancora margine di manovra”. I palestinesi hanno subito condannato il piano di Netanyahu. Per Nabil Abu Rudeineh, portavoce dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), il suo obiettivo è “perpetrare l’occupazione israeliana dei territori palestinesi e prevenire la creazione di uno stato palestinese”.

Intanto il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh il 26 febbraio ha presentato le dimissioni del suo governo al presidente Abu Mazen. Una mossa che secondo l’Associated Press potrebbe “spianare la strada a una ristrutturazione all’interno dell’Autorità nazionale palestinese, che gli Stati Uniti sperano possa alla fine svolgere un ruolo nella Gaza postbellica”. L’agenzia di stampa commenta che questa ristrutturazione potrebbe avviare le riforme richieste da Washington, favorendo così i progressi nei negoziati, e rafforzare la legittimità di Abu Mazen e dall’Anp, fortemente compromessa dalle accuse di cattiva gestione e corruzione.

Tahani Mustafa, ricercatrice all’International crisis group, conferma a L’Orient-Le Jour che “questo rimaneggiamento ministeriale significa che l’Anp è sotto pressione da parte dei suoi alleati regionali e internazionali per conformarsi ai piani del dopoguerra”. A guidare il nuovo esecutivo, che dovrebbe essere annunciato entro la fine della settimana, potrebbe essere Mohammad Mustafa, presidente del consiglio di amministrazione del Fondo d’investimento palestinese, vicino ad Al Fatah, il partito di Abu Mazen, ma considerato abbastanza neutrale da riuscire a tenere insieme le varie fazioni politiche.

Hamas sarà escluso dalla ristrutturazione, anche se secondo Al Araby al Jadid il gruppo avrebbe informato le altre fazioni palestinesi della sua intenzione di sostenere un governo di unità nazionale seguendo un programma specifico. Anche Sky News Arabia ha riferito che dopo i colloqui tenuti al Cairo a metà febbraio da vari gruppi palestinesi, il Qatar avrebbe informato Ramallah che Hamas sarebbe disposto ad accettare la formazione di un governo tecnico incaricato di ricostruire la Striscia di Gaza e di gestire la sicurezza nel dopoguerra. Ma una soluzione simile sarebbe sicuramente esclusa da Tel Aviv, commenta Tahani Mustafa a L’Orient-Le Jour: “È poco probabile che un cambiamento interno all’Anp sia sufficiente per il governo israeliano di estrema destra, che vorrebbe rioccupare Gaza e rifiuta lo stato palestinese”.

Alcuni esponenti del governo israeliano, come gli estremisti Betzalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, rispettivamente ministro delle finanze e della sicurezza nazionale, hanno già lasciato intendere che non sosterranno nessun risultato dei negoziati in corso in Qatar e in Egitto. Ma secondo Haaretz questo non significa necessariamente che abbandoneranno la coalizione di governo se sarà approvato un nuovo accordo per il rilascio degli ostaggi.

Anche perché, nota il quotidiano israeliano, a quattordici mesi dal suo insediamento il governo di estrema destra “ha completato con successo l’operazione” di penetrazione ai vertici del potere e di controllo sulla società. La polizia agisce come una milizia nella mani di Ben Gvir, sopprimendo ogni manifestazione di dissenso percepita come una minaccia politica alla coalizione. Haaretz si riferisce in particolare all’episodio del 24 febbraio, quando la polizia è intervenuta disperdendo con violenza un raduno organizzato a Tel Aviv a sostegno dei familiari degli ostaggi e contro il governo. “I manifestanti presenti dicono di non aver visto una violenza simile dallo scoppio della guerra il 7 ottobre e dalla ripresa delle proteste a dicembre”. Ventuno manifestanti sono stati fermati e in seguito rilasciati, mentre almeno quattro sono stati feriti.

Nell’editoriale del 26 febbraio Haaretz scrive: “Non è inconcepibile che i poliziotti stessero agendo nello spirito del ministro da cui dipendono, Itamar Ben Gvir. Il ministro cerca di infiammare gli animi come un modus operandi, perché è convinto che ovunque semini il caos guadagnerà più voti. Quindi non è inconcepibile che l’uomo che ha infiammato la Cisgiordania e il Monte del tempio faccia lo stesso con Tel Aviv”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Mediorientale.

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