Divisioni in Israele e fallimenti a Gaza
“Quando un cessate il fuoco non è un cessate il fuoco? Secondo l’esercito israeliano, quando è una ‘pausa locale e tattica dell’attività militare per scopi umanitari’”. Così la Bbc commenta l’annuncio fatto il 16 giugno dall’esercito israeliano di voler fermare temporaneamente le sue operazioni in una zona del sud della Striscia di Gaza per facilitare la consegna degli aiuti umanitari. La decisione è stata resa pubblica all’indomani della morte di undici soldati israeliani, di cui otto nell’esplosione di una bomba nella Striscia.
L’esercito ha detto che la pausa sarà osservata tutti i giorni tra le 8 e le 19 (ora locale) “fino a nuovo ordine” lungo la strada che collega Kerem Shalom – il valico di frontiera tra la Striscia e il sud d’Israele – con la via Salah al Din, che attraversa il territorio da nord a sud, fino alla periferia orientale di Rafah e a nord verso l’area di Khan Yunis. L’annuncio è stato subito criticato dai ministri di estrema destra del governo di Benjamin Netanyahu, cosa che ha portato l’esercito a chiarire che i combattimenti nel sud della Striscia non sono sospesi e che non ci saranno cambiamenti nell’ingresso degli aiuti umanitari.
Secondo la Bbc “il fatto che questo annuncio si è dimostrato così esplosivo evidenzia la situazione sempre più difficile del primo ministro israeliano, schiacciato tra i costi dei suoi finora vaghi e irrealizzabili obiettivi militari di smantellare Hamas e portare a casa gli ostaggi, e gli alleati politici sui quali fa affidamento per restare al potere”.
Anshel Pfeffer su Haaretz conferma che i disaccordi tra Netanyahu e l’esercito sulla gestione della guerra a Gaza si stanno intensificando. E le spaccature non riguardano solo i vertici militari e politici, ma l’intera società israeliana, come dimostrano le migliaia di persone scese in piazza a Gerusalemme la sera del 17 giugno per chiedere elezioni anticipate e protestare contro la gestione della guerra di Netanyahu e la sua incapacità di liberare decine di ostaggi ancora nelle mani di Hamas.
Secondo alcuni analisti politici, anche lo scioglimento del gabinetto di guerra, confermato il 17 giugno da un portavoce dell’ufficio di Netanyahu, avrebbe lo scopo di mettere i bastoni tra le ruote ai ministri d’estrema destra Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, che puntavano a farne parte fin dall’inizio del conflitto. Il gabinetto era stato costituito dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, ma, ha precisato il portavoce, “non ha più ragion d’essere” dopo le dimissioni del centrista Benny Gantz, in polemica con Netanyahu sulla conduzione della guerra. D’ora in poi a prendere le decisioni sulle questioni relative alla guerra sarà il gabinetto di sicurezza, formato da nove ministri oltre a Netanyahu.
Il Times of Israel sottolinea l’aumento delle pressioni internazionali su Israele per accelerare la consegna degli aiuti nella Striscia dove secondo le Nazioni Unite si è raggiunto il livello di carestia. Le organizzazioni per la difesa dei diritti umani denunciano che il nord del territorio, dove è cominciata l’offensiva israeliana, è particolarmente difficile da raggiungere. Attualmente tre valichi sono usati per trasferire gli aiuti umanitari da Israele agli abitanti del nord della Striscia: Western Erez ed Eastern Erez, aperti all’inizio di maggio, e Gate 96, un passaggio militare verso il corridoio Netzarim, nel centro della Striscia, usato per la prima volta a marzo per consegnare gli aiuti.
Nel sud del territorio palestinese oltre al valico di Kerem Shalom c’è quello di Nitzana con l’Egitto, usato per ispezionare alcuni camion. Il valico di Rafah, tra la Striscia e l’Egitto, l’ingresso principale per gli aiuti dall’inizio dell’offensiva, è ancora chiuso dal 7 maggio, quando l’esercito israeliano ha preso il controllo del lato palestinese.
Un fiasco inverosimile
Oltre ai valichi terrestri, negli ultimi mesi gli aiuti alla popolazione palestinese sono stati paracadutati dal cielo da alcune nazioni, mentre gli Stati Uniti hanno deciso di costruire un molo temporaneo che lo storico e arabista Jean-Pierre Filiu in un articolo su Le Monde definisce un “fiasco inverosimile”. Presentato il 7 marzo dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden come una soluzione per aggirare i divieti israeliani (i carichi sarebbero arrivati via mare da Cipro) e costato trecento milioni di euro, il molo è stato operativo una decina di giorni in tutto, consentendo l’arrivo di una quantità di beni di prima necessità che copre appena una giornata dei bisogni umanitari degli abitanti di Gaza.
A causa di ritardi e intoppi nella costruzione, il molo è entrato in funzione solo il 17 maggio. Subito si è dovuto affrontare il problema del saccheggio dei carichi durante il trasporto verso i depositi del Programma alimentare mondiale, incaricato dall’Onu della distribuzione alla popolazione. Poi il molo è stato messo fuori uso da una mareggiata il 25 maggio. Tornato operativo l’8 giugno, meno di una settimana dopo è stato trasferito di nuovo in un porto israeliano per “danni strutturali”.
Questo fallimento dimostra che solo l’apertura dei valichi da parte d’Israele e la distribuzione degli aiuti via terra possono evitare la diffusione della fame e delle epidemie, come hanno denunciato fin dall’inizio le organizzazioni umanitarie. Inoltre, commenta Filiu, s’inserisce nella logica “antiterroristica” con cui gli Stati Uniti affrontano le operazioni all’estero, come già successo in Afghanistan e Iraq, in base alla quale “gli aspetti ‘civili’ si accompagnano a lucrosi contratti per le aziende statunitensi, senza alcun beneficio per le popolazioni locali”.
La “pausa” giornaliera a Gaza è stata annunciata dall’esercito israeliano il 16 giugno, in coincidenza con il primo giorno della festa musulmana dell’Eid al adha. Seconda festività religiosa più importante dell’islam dopo l’Eid al fitr, che segna la fine del Ramadan, l’Eid al adha si celebra il terzo giorno dell’hajj, il pellegrinaggio annuale verso La Mecca. Dura tre giorni, durante i quali le famiglie macellano un animale in ricordo del sacrificio di Abramo.
Di solito nella Striscia di Gaza, come nel resto della Palestina e della regione, in occasione di questa ricorrenza le famiglie si riuniscono per banchettare insieme e, secondo la tradizione, condividono il pasto a base di carne con le persone bisognose, mentre i bambini ricevono vestiti nuovi e regali.
Quest’anno però per gli abitanti del territorio sotto attacco israeliano da nove mesi “non c’è gioia, ce l’hanno rubata”, come ha detto all’Afp Malakiya Salman, una sfollata di 57 anni che vive in una tenda a Khan Yunis, nel sud della Striscia. In molti si sono riuniti per la preghiera mattutina nel cortile della storica moschea Omari, nella città di Gaza, gravemente danneggiata da un bombardamento israeliano, srotolando i tappetini accanto ai cumuli di macerie.
In varie aree del territorio, si legge nel reportage dell’Afp, alcuni venditori di profumi e altri prodotti hanno percorso le strade fiancheggiate da edifici distrutti, proteggendosi dal sole cocente con gli ombrelli. Ma i clienti erano pochi: i prezzi dei generi alimentari e di altri beni sono anche quintuplicati negli ultimi mesi. Inoltre le famiglie sono divise dalla guerra, i parenti sono sfollati in luoghi diversi e alcuni sono morti o feriti. C’è chi ha trascorso la giornata di festa al cimitero o nei luoghi di sepoltura improvvisati, dove le tombe sono indicate da assi di legno. “Trovo conforto qui”, ha detto Khalil Diab Essbiah davanti alle tombe dei suoi due figli.
A Gerusalemme i militari israeliani hanno imposto severe restrizioni all’accesso dei fedeli che volevano celebrare l’Eid al adha nella moschea Al Aqsa, aggredendo alcuni di loro. Al Jazeera scrive che 40mila persone sono riuscite a pregare all’interno del luogo sacro, ma molte altre sono state costrette a restare fuori. Le forze israeliane hanno inoltre impedito la libera circolazione dei palestinesi in molte zone della Cisgiordania, compresa Ramallah, allestendo checkpoint e fermando i veicoli.
La tragedia di Gaza ha segnato il pellegrinaggio di molti dei fedeli che sono andati nei luoghi sacri in Arabia Saudita per l’hajj, che quest’anno secondo le autorità di Riyadh ha attirato circa 1,8 milioni di musulmani, di cui 1,6 milioni dall’estero. Per mostrare la sua compassione nei confronti della situazione a Gaza, la monarchia saudita ha offerto il pellegrinaggio a duemila abitanti del territorio palestinese. Il ministro dell’hajj, Tawfiq al Rabiah, ha però chiarito che durante l’evento non sarebbero state tollerate manifestazioni politiche di nessun tipo.
A caratterizzare l’hajj di quest’anno è stata anche un’ondata di caldo eccezionale che secondo alcuni diplomatici ha provocato la morte di almeno 550 persone. Il 16 giugno sono stati registrati più di 2.700 casi di ipertermia (i cosiddetti colpi di calore), ha affermato il ministero della salute. Il servizio meteorologico saudita ha precisato sul social network X che il 17 giugno le temperature alla Mecca hanno raggiunto i 51,8 gradi.
Questo testo è tratto dalla newsletter Mediorientale.
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