Si chiamano Almog Meir Jan, Andrey Kozlov, Shlomi Ziv e Noa Argamani. Tre di loro hanno intorno ai vent’anni, uno è sulla quarantina. Sono stati tutti catturati al festival di musica elettronica Nova durante il sanguinoso attacco condotto il 7 ottobre da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi in Israele. Sono stati liberati l’8 giugno durante un’operazione israeliana nel campo di Nuseirat, che si trova nel centro della Striscia di Gaza. Si chiamano Almog, Andrey, Shlomi e Noa. Sono ebrei israeliani. Hanno nomi e volti. Hanno famiglie, amici e hobby. Come tutti gli esseri umani, possono provare una serie di emozioni: tristezza, paura, gioia, sollievo. Come la maggior parte degli esseri umani, amano i loro genitori, e sono ricambiati. Come tutti gli esseri umani, sono felici di riabbracciarli dopo aver pensato che non li avrebbero più rivisti. I mezzi d’informazione occidentali raccontano storie particolari che possono aspirare all’universale: tutti devono potersi identificare con queste persone, perché rappresentano l’umanità. Si chiamano Almog, Andrey, Shlomi e Noa. Avrebbero potuto essere rilasciati con un accordo tra Israele e Hamas, ma il primo ministro Benjamin Netanyahu e i suoi hanno voluto diversamente.

Duecentosettantaquattro: secondo il ministero della sanità di Gaza è il numero di palestinesi, in maggioranza civili, uccisi dall’esercito israeliano nei bombardamenti sul campo di Nuseirat. Stando a questa cifra, una vita israeliana vale 68,5 vite palestinesi. Non c’è neanche bisogno di arrotondare. I palestinesi sono abituati alla frammentazione: quella dei loro spazi, della loro nazione, dei loro corpi. Possono avere dei volti, ma restano anonimi. Figure urlanti o affrante che cercano i resti dei parenti sotto le macerie. Danni collaterali senza nome. Le loro passioni, i loro sogni, le loro speranze: non ne sapremo nulla perché non sono nulla. Le fosse comuni di bambini hanno un odore diverso a seconda dell’identità dell’uccisore. Il dolore cambia a seconda della nazionalità della vittima.

Quello che ci riguarda

Dopo l’annuncio della liberazione dei quattro ostaggi, Israele è piombato nell’euforia. “Continueremo ad agire con determinazione e forza, in conformità al nostro diritto a difenderci”, ha dichiarato il ministro degli esteri Israel Katz riferendosi ai 120 ostaggi ancora nel territorio palestinese. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha salutato l’operazione di salvataggio senza commentare il massacro dei palestinesi. Lo stesso hanno fatto il presidente francese Emmanuel Macron e il primo ministro britannico Rishi Sunak.

Questo silenzio non sorprende. Si spiega innanzitutto con l’identificazione di gran parte della classe politica e dei mezzi d’informazione occidentali con Israele. C’era già prima del 7 ottobre, ma si è rafforzata in seguito. È un fatto che riguarda sia le estreme destre, felici di trovare nello stato ebraico il laboratorio del futuro che immaginano per l’occidente – uno spazio in cui “l’altro” un tempo colonizzato rimane un nativo da sottomettere –, sia le correnti liberali “doc” che percepiscono Israele come il paese uscito dal loro grembo, il custode della civiltà e dell’illuminismo in una regione arabofona considerata oscurantista e arretrata. A questo si aggiungono le ferite causate dagli attacchi jihadisti compiuti dal gruppo Stato islamico (Is) contro i civili in diversi paesi europei, a partire dalla Francia. Molti cittadini si riconoscono nelle vittime dei massacri commessi il 7 ottobre perché pensano di poter essere uccisi nello stesso modo. Poco importa che siano contesti diversi e che Hamas e l’Is rispondano a logiche diverse. D’altra parte, questi stessi cittadini europei sanno che non moriranno mai nei bombardamenti, non vivranno assedi, non dovranno subire l’arbitrarietà di un sistema carcerario coloniale come quello israeliano. Spesso tendiamo a credere che quello che ci riguarda sia più grave di quello che riguarda gli altri. A volte pensiamo che quello che non ci tocca non esista.

Nel mondo di Biden, Macron e Sunak la violenza dei colonizzati non si spiega. È culturale. È patologica. La violenza dei colonizzatori, invece, ha cause razionali. Obiettivi specifici. E chi vi ricorre lo fa con riluttanza, perché non ha altra scelta. Il fatto che Israele massacri centinaia di civili per liberare quattro ostaggi detenuti nel territorio palestinese è, in fondo, un male a fin di bene. Che Hamas massacri centinaia di civili per liberare le migliaia di prigionieri politici che marciscono nelle carceri dell’occupante è una vergogna. Dal punto di vista occidentale dominante, è impensabile mettere sullo stesso piano ostaggi israeliani e prigionieri politici palestinesi.

Da sapere
Tensioni al confine con il Libano

◆ Gli scontri alla frontiera tra l’esercito israeliano e i miliziani di Hezbollah si sono intensificati. Il 12 giugno il gruppo sciita libanese ha lanciato circa 160 razzi su Israele per vendicare la morte di Taleb Sami Abdallah, un alto comandante militare ucciso il giorno prima in un attacco israeliano. A maggio Hezbollah ha colpito 325 volte (un record da ottobre) con droni e missili a corto raggio soprattutto basi militari e sistemi antiaerei fino a cinquanta chilometri all’interno del territorio israeliano, provocando gravi incendi. Israele ha intensificato gli attacchi contro i miliziani e le loro postazioni anche in zone più lontane dal confine. Più di otto mesi di violenze hanno provocato 455 morti in Libano, di cui circa novanta civili, mentre dal lato israeliano hanno perso la vita quindici soldati e undici civili.

Per il quotidiano di Beirut Al Modon il momento di uno scontro diretto tra Israele e Libano si sta avvicinando. Lo dimostrerebbe anche l’aumento degli attacchi d’Israele contro depositi di armi, rotte di rifornimento e postazioni legate all’Iran (che sostiene Hezbollah) in Siria. L’obiettivo di Tel Aviv sarebbe di “indebolire Hezbollah nelle sue basi siriane prima di attaccarlo sul territorio libanese”. Secondo Al Jazeera, invece, il gruppo libanese vuole solo mostrare a Israele “di avere la capacità d’infliggere gravi danni”. L’emittente qatariota sottolinea che nessuna delle due parti vuole portare avanti un’offensiva su larga scala: le tensioni servono a “ottenere più potere” in vista di negoziati per ripristinare la calma al confine.

Questi negoziati, una soluzione sostenuta anche da Francia e Stati Uniti, hanno però bisogno di una precondizione, commenta il quotidiano francese Le Monde, e cioè un accordo che metta fine alle ostilità a Gaza. Se le trattative condotte attualmente per arrivare a un accordo per un cessate il fuoco nel territorio palestinese dovessero naufragare, il conflitto alla frontiera libanese sarebbe condannato “a conservare il suo potenziale distruttivo”.


Dietro questo malinteso c’è un pregiudizio duro a morire sulla natura del regime sionista. Nella percezione di Washington, Parigi e Londra, Israele è uno stato di diritto. Il suo sistema giudiziario è forse imperfetto, ma non è arbitrario. Non è governato dalla crudeltà degli stati totalitari o autoritari. Eppure l’inferno delle prigioni israeliane modella la vita dei palestinesi. Dal 1967 quasi il 40 per cento degli uomini palestinesi è stato, in un momento o nell’altro, detenuto. Nei tribunali militari le confessioni sono usate come prova, ma sono ottenute senza un processo equo e facendo notevoli pressioni sugli accusati. Per non parlare della sistematicità dei maltrattamenti. Qualunque cosa pensino i suoi alleati liberali, Israele è guidato dalla stessa logica dei vicini regionali: i popoli arabi capiscono solo la forza. Devono essere controllati, schiacciati, e il loro potenziale rivoluzionario deve essere soffocato. La prigione permette d’impedire qualsiasi alternativa politica all’Autorità nazionale palestinese – i cui esponenti sono considerati dei collaborazionisti da molti palestinesi – e a Hamas.

La storia che si sta scrivendo a Gaza parla di vite. Di quelle che contano e di quelle che non contano. La linea oltranzista di Netanyahu racconta la storia del sionismo così come è sempre stato subìto dai palestinesi, anche se la sua brutalità oggi raggiunge livelli senza precedenti: perché alcuni si sentano al sicuro, gli altri devono sentire ogni giorno il fiato dell’occupazione e della colonizzazione sul collo. Perché alcuni possano vivere, gli altri devono morire. ◆ adg

Politica e diplomazia
La decisione di Benny Gantz

Il 9 giugno Benny Gantz, membro del gabinetto di guerra israeliano (che si è formato dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre), si è dimesso a causa delle divergenze con il primo ministro Benjamin Netanyahu sulla conduzione della guerra nella Striscia di Gaza. Gantz, che ha invitato Netanyahu a indire elezioni anticipate, gli aveva lanciato un ultimatum il 18 maggio, chiedendo che il gabinetto di guerra adottasse un “piano d’azione” per il dopoguerra a Gaza. Subito dopo l’annuncio di Gantz, che era considerato il moderato del gruppo, il ministro d’estrema destra Itamar Ben Gvir ha chiesto di prendere il suo posto. La decisione di Gantz non farà cadere il governo, commenta il Jerusalem Post, “ma renderà Netanyahu più dipendente dai suoi alleati di estrema destra, che sono disposti a pagare un prezzo militare più alto per la ‘vittoria’ e sono meno entusiasti a proposito di una soluzione diplomatica”.

Haaretz ricorda che Gantz, insieme a Gadi Eisenkot, un generale dell’esercito che faceva parte del gabinetto di guerra e si è dimesso con lui, ha avuto un ruolo fondamentale nel sostenere gli accordi per la liberazione degli ostaggi, “quello raggiunto a novembre e quello che è alla base della proposta” avanzata dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden il 31 maggio. Secondo il quotidiano israeliano i due si sono dimessi perché hanno capito che Netanyahu li ha usati per tenere a bada Ben Gvir e Bezalel Smotrich, altro alleato radicale, e “allontanare le critiche dell’estrema destra”, che vorrebbe colpire più duramente Rafah e inasprire la guerra alla frontiera nord, contro la milizia libanese Hezbollah.

L’11 giugno Hamas ha dato la sua risposta ufficiale a un piano per una tregua nella Striscia di Gaza che aveva ottenuto il sostegno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. I dettagli della risposta non sono stati resi noti, ma secondo alcune fonti il gruppo palestinese ha proposto delle modifiche, che il governo statunitense sta esaminando. ◆


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Questo articolo è uscito sul numero 1567 di Internazionale, a pagina 28. Compra questo numero | Abbonati