Il 9 novembre il Qatar ha sospeso la sua attività di mediatore nei colloqui tra Israele e Hamas per ottenere un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e il rilascio degli ostaggi israeliani, fino a quando le due parti non dimostreranno “la loro disponibilità” a negoziare per mettere fine alla guerra. Insieme agli Stati Uniti e all’Egitto, il Qatar ha avuto un ruolo molto importante nei vari cicli di colloqui che si sono susseguiti nello scorso anno, compreso quello che ha portato all’accordo per uno scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi alla fine di novembre del 2023. Ma da allora i fallimenti si sono accumulati. L’ultimo tentativo è naufragato all’inizio di questo mese, quando Hamas ha respinto una proposta di tregua a breve termine, ribadendo le sue condizioni: la fine dei combattimenti a Gaza e il ritiro delle truppe israeliane dal territorio palestinese.
Secondo L’Orient-Le Jour, il Qatar resta nella posizione migliore per favorire un esito positivo dei colloqui perché l’Egitto, l’altro mediatore in contatto con il movimento palestinese, ha appena sostituito il capo dei suoi servizi segreti e quello nuovo non ha con Hamas le stesse relazioni privilegiate che aveva il predecessore. Doha può anche contare su vari interlocutori all’interno della Striscia di Gaza, con cui comunica senza passare attraverso l’ufficio politico all’estero, ricomponendo così la frattura tra l’ala militare e quella politica del movimento islamista. Inoltre si presenta come il paese più neutrale tra i tre mediatori, dato che l’Egitto confina con la Striscia di Gaza, quindi può essere colpito direttamente dalle conseguenze della guerra, mentre gli Stati Uniti sono il principale alleato d’Israele.
Il piccolo paese del Golfo è un punto di riferimento strategico per Washington, che nel 2022 l’ha designato come il suo più grande alleato non membro della Nato. Ospita la più grande base aerea statunitense in Medio Oriente e ha gestito molte questioni delicate, compresi i colloqui con l’Iran, la Russia e i taliban. L’ufficio di Hamas ha aperto a Doha nel 2012, su richiesta dell’amministrazione Obama e per più di dieci anni ha garantito un fondamentale canale di comunicazione tra il gruppo palestinese e Washington. Ma negli ultimi mesi, di fronte allo stallo dei negoziati, sono cresciute le critiche nei confronti di Doha all’interno di Israele e tra alcuni esponenti politici statunitensi, soprattutto repubblicani.
Alcuni mezzi d’informazione avevano anche riferito l’intenzione del Qatar di chiudere l’ufficio di Hamas. Il 9 novembre il governo dell’emirato ha smentito la notizia, ma non è la prima volta che Doha cerca di riposizionarsi per proteggere la propria immagine a livello globale, aumentando allo stesso tempo le pressioni sui suoi interlocutori. Ad aprile le autorità avevano chiesto ai leader di Hamas di andarsene, dopo che alcune voci in Israele e negli Stati Uniti avevano accusato implicitamente Doha di sostenere il gruppo. Il primo ministro, Mohammed bin Abdulrahman al Thani, aveva annunciato una revisione del ruolo di mediazione del paese. I comandanti di Hamas si erano diretti in Turchia, ma poche settimane dopo Tel Aviv e Washington li avevano richiamati a Doha per intensificare i colloqui.
In un articolo su Haaretz, Zvi Barel commenta che il Qatar si è reso conto che il suo ruolo di mediatore stava diventando una minaccia per la propria posizione politica e regionale, soprattutto nei confronti di Washington: “Più Israele e l’amministrazione Biden presentavano Hamas come l’unico responsabile di ostacolare i negoziati, più il Qatar diventava il bersaglio indiretto di un attacco diplomatico, compromettendo la sua relazione con l’amministrazione Biden e in futuro con la prossima guidata da Donald Trump. I rapporti del Qatar con il primo governo Trump sono stati altalenanti. Ora Doha si deve preparare per il secondo”. La sua decisione di rinunciare ai colloqui riflette quindi non solo una profonda frustrazione, ma anche il desiderio di limitare i danni dal punto di vista politico.
Una situazione delicata
Anna Jacobs, ricercatrice dell’International crisis group, conferma a L’Orient-Le Jour che la decisione di Doha serve soprattutto a riposizionarsi nei confronti di Trump, che durante il suo primo mandato aveva sostenuto tacitamente il blocco imposto sul Qatar dai paesi vicini. “Doha probabilmente vuole proteggersi. E la sua relazione con Hamas è una vulnerabilità”, soprattutto in un momento in cui a Washington è vista sempre più male, in particolare tra i repubblicani, vincitori delle elezioni della settimana scorsa. Se il suo sostegno alla causa palestinese e la sua condanna dell’occupazione israeliana lo portassero in rotta di collisione con gli Stati Uniti, il Qatar potrebbe essere disposto a tagliare i suoi rapporti con Hamas. “È una situazione delicata, ma quando il Qatar sente una pressione internazionale troppo forte, soprattutto degli Stati Uniti, riguardo alla sua relazione con un gruppo non statale o con uno stato, generalmente è disposto ad apportare dei cambiamenti”, ribadisce Jacobs.
Hamas avrebbe già esplorato delle alternative per ricollocarsi altrove. Recentemente ha aperto un ufficio politico a Baghdad, in Iraq, mentre Iran, Algeria, Mauritania e Turchia potrebbero essere altre opzioni. Secondo la Bbc quest’ultima sarebbe la più plausibile, perché fa parte della Nato ed è uno stato a maggioranza sunnita, quindi potrebbe offrire al gruppo una base da cui operare in relativa sicurezza. Ankara potrebbe accogliere favorevolmente la decisione, sperando così di rafforzare il suo ruolo di mediatrice tra oriente e occidente.
In ogni caso, nota ancora Barel su Haaretz, il Qatar non sta solo cercando di districarsi dalla trappola diplomatica in cui rischia di cadere, ma anche di correggere l’interpretazione dei fatti imposta da Israele e Stati Uniti: “Vuole far ricadere la colpa equamente su entrambe le parti e costringere Washington a fare pressioni su Israele, proprio come questa ha preteso che il Qatar facesse con Hamas”. Il passo indietro di Doha è comunque “una notizia devastante” per gli ostaggi israeliani e le loro famiglie, conclude Barel, che ora “sono lasciati senza un mediatore e dipendenti da un governo e da un primo ministro che potrebbero cercare di dare tutta la colpa ad Hamas e al Qatar, sottraendosi alla responsabilità per il destino dei propri cari”.
Per non parlare dei due milioni di palestinesi nella Striscia di Gaza, che vedono scomparire qualunque illusione di una possibile tregua nel breve termine. I bombardamenti israeliani continuano senza sosta, soprattutto nel nord del territorio, dove il 10 novembre almeno 25 persone sono morte nel crollo di una casa colpita da una bomba nel campo profughi di Jabalia. Due giorni prima un nuovo rapporto dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani aveva denunciato che quasi il 70 per cento dei morti nella Striscia di Gaza tra novembre 2023 e aprile 2024 sono donne e bambini, dopo aver verificato minuziosamente un conteggio parziale delle vittime dell’offensiva israeliana. Il rapporto denunciava anche una vasta gamma di violazioni del diritto internazionale, molte delle quali potrebbero costituire crimini di guerra, crimini contro l’umanità e forse genocidio.
Anche i leader dei paesi arabi e musulmani, riuniti l’11 novembre a Riyadh, in Arabia Saudita, hanno condannato con forza l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza, che hanno definito un “genocidio”, denunciando in particolare le operazioni condotte nel nord del territorio nelle ultime settimane. I partecipanti al vertice congiunto della Lega araba e dell’Organizzazione della cooperazione islamica hanno affermato che non potrà esserci pace in Medio Oriente finché Israele non si ritirerà dai territori occupati e hanno ribadito la necessità di creare uno stato palestinese con capitale Gerusalemme Est.
Inoltre hanno invitato la comunità internazionale a “sospendere l’esportazione o il trasferimento di armi e munizioni a Israele”, e hanno contestato “i continui attacchi delle autorità israeliane contro le Nazioni Unite”. I bombardamenti israeliani sono proseguiti anche in Libano: l’11 novembre hanno ucciso almeno otto persone nella regione di Akkar, nel nord del paese, e il giorno dopo hanno colpito la periferia sud di Beirut.
Questo testo è tratto dalla newsletter Mediorientale.
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