La “Costa Azzurra del Medio Oriente”. Questo dovrebbe diventare la Striscia di Gaza nei piani del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, annunciati il 4 febbraio durante una conferenza stampa al fianco di un gongolante primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, in visita alla Casa Bianca. “Gli Stati Uniti assumeranno il controllo della Striscia di Gaza”, ha chiarito Trump. “A quel punto elimineremo tutte le bombe e le armi, rimuoveremo le macerie e garantiremo lo sviluppo economico del territorio”. Gli abitanti saranno trasferiti in modo permanente altrove, in particolare in Giordania e in Egitto. “Sarebbero felicissimi di farlo”, ha assicurato Trump.
Queste affermazioni hanno scatenato la condanna della comunità internazionale e in particolare dei paesi arabi, con l’Arabia Saudita che ha ribadito la sua determinazione a favore della creazione di uno stato palestinese altrimenti “non normalizzerà le relazioni diplomatiche con Israele”. Le reazioni sulla stampa regionale e internazionale sono state subito numerose, e altre ne seguiranno nei prossimi giorni. Quelle più a caldo hanno sottolineato l’assurdità della proposta, ma anche le sue pericolose implicazioni.
Al Jazeera raccoglie le dichiarazioni di diversi esperti per la difesa dei diritti umani. Secondo Abed Ayoub, direttore dell’American-Arab anti-discrimination committee, la proposta di Trump è “folle” ma non dovrebbe essere presa alla leggera, perché il piano di Israele è sempre stato realizzare una pulizia etnica nella Striscia di Gaza. Ayoub ricorda che trasferire un’intera popolazione andrebbe contro “tutte le norme e il diritto internazionale”, ma sottolinea anche che nell’ultimo anno e mezzo la comunità internazionale non sembra averli tenuti in grande considerazione. Infine avverte del rischio di “un grave contraccolpo nei paesi arabi” che “getterebbe l’intera regione ancora più nel caos”.
Secondo l’opinionista del Guardian Martin Kettle “sarebbe un errore pensare che Trump non sia, in qualche modo, serio”. Innanzitutto perché “non si dovrebbe sottovalutare l’importanza del bluff e della distrazione nella bufera di annunci fatti da Trump su vari argomenti per sconvolgere e terrorizzare”. E poi perché “la serietà può arrivare in forme diverse”: Trump può anche non volere occupare davvero la Striscia di Gaza, ma “il fatto che abbia detto che potrebbe farlo è di per sé qualcosa che ridisegna altre realtà, in Medio Oriente e nella politica interna degli Stati Uniti”.
Haaretz sottolinea “l’ironia” di Trump che definisce Gaza un “inferno”: “Chi pensa che abbia reso inabitabili tutti gli edifici di Gaza e sia quindi responsabile del loro necessario sfollamento?”. Sul quotidiano israeliano l’inviato a Washington Ben Samuels critica il fatto che invece di usare la sua autorità su Netanyahu in un momento cruciale, “Trump e la sua squadra sono stati compiacenti gettando acqua fredda sulla possibilità di successo dell’accordo” per il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. E commenta: “Anche se Trump considera questa promessa una leva da usare su Netanyahu per mettere fine alla guerra, rimane del tutto oscuro come pensa che possa andare a finire, data la forte opposizione dei suoi principali alleati arabi nel mondo”.
Trump, conclude Samuels, ha dato a Netanyahu “tutto quello che sperava di ottenere dalla sua visita” a Washington. Il primo ministro israeliano può tornare a casa vantandosi di un’alleanza più solida che mai con gli Stati Uniti e di un piano, “non importa quanto infattibile e irrealizzabile” che può sventolare davanti ai suoi alleati di estrema destra dai quali dipende il suo futuro politico. In realtà Trump non ha appoggiato l’idea cara all’estrema destra israeliana di un ritorno dei coloni nella Striscia di Gaza. “Non credo che succederà. È troppo pericoloso per le persone. Nessuno ci vuole andare”, ha detto.
Posizioni divergenti
Trump non ha fornito molti dettagli del suo progetto, ma alcuni analisti evidenziano il fatto che in fondo le posizioni del presidente statunitense e di Netanyahu divergono su vari temi. In un’analisi su L’Orient-Le Jour, Mounir Rabih suggerisce che Netanyahu ha l’obiettivo di “ridefinire, insieme al suo alleato più prezioso, i contorni di un nuovo Medio Oriente”. Questo implica ottenere il sostegno di Washington per colpire l’Iran e il suo programma nucleare o almeno diminuire la sua influenza regionale. E soprattutto ottenere il via libera dell’alleato statunitense “per l’espansione delle colonie in Cisgiordania e per la deportazione dei palestinesi di Gaza”.
Trump però è ancora deciso a concludere una normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele per completare gli accordi di Abramo che aveva avviato durante il suo primo mandato. Come ricorda Pierre Haski nel suo intervento di lunedì sul sito di Internazionale, Trump “è un presidente che fa di testa sua, ha un approccio mercantile e non rispetta né amici né alleati”. E in questo senso è possibile che il suo programma non combaci con quello del primo ministro israeliano.
Netanyahu non esclude la ripresa della guerra una volta conclusa la prima fase del cessate il fuoco, come chiede l’ala più estremista della sua coalizione di governo. E non è detto neanche che completi il ritiro dell’esercito dal sud del Libano, previsto dall’accordo di tregua con Hezbollah (la scadenza è stata prolungata al 18 febbraio). Né ci sono segnali verso una distensione in Cisgiordania, dove l’operazione dell’esercito israeliano a Jenin si fa sempre più violenta e da metà gennaio ha causato la morte di più di cinquanta persone.
Sul New York Times Patrick Kingsley suggerisce che l’obiettivo di Trump sia semplicemente costringere Hamas e i leader arabi a scendere a compromessi. Di fronte alla possibilità del trasferimento della popolazione di Gaza il gruppo estremista potrebbe accettare di cedere il controllo del territorio palestinese, mentre l’Arabia Saudita potrebbe decidere di normalizzare le relazioni con Israele come male minore. Dall’altro lato Trump ha dato agli esponenti della destra israeliana un motivo per sostenere l’estensione del cessate il fuoco, perché grazie alla prospettiva che in futuro Gaza sarà svuotata dei suoi abitanti “saranno più pazienti”.
Il 4 febbraio sono ripresi i negoziati per definire i dettagli della seconda fase della tregua tra Israele e Hamas, e Trump ha chiarito che “un accordo si può fare”, ma non è detto che “regga”. Quale sarà dunque il destino del cessate il fuoco a Gaza? Il giornalista palestinese Muhammad Shehada azzarda alcune ipotesi su The New Arab. Il primo scenario prevede il collasso dell’accordo. In base a questa prospettiva, il governo di Netanyahu ha sfruttato la pausa nei combattimenti per placare Trump, ridurre la pressione dell’opinione pubblica e concedere un po’ di sollievo ai riservisti dell’esercito. Ma soprattutto per costringere alle dimissioni i vertici militari che avevano sfidato Netanyahu durante la guerra. Nel secondo scenario invece l’accordo terrà, perché il presidente statunitense ha già presentato a Netanyahu il suo “pacco regalo”, tra cui il trasferimento forzato della popolazione di Gaza.
In un’altra analisi su Haaretz, Alon Pinkas nota però che al di là delle dichiarazioni roboanti, Netanyahu ha ottenuto poco dalla visita a Washington perché non ha risolto il suo dilemma, cioè andare avanti con la seconda fase dell’accordo e perdere il sostegno dei suoi alleati di estrema destra o riprendere la guerra e opporsi alla volontà di Trump. L’accordo stabilisce che le discussioni sulla seconda fase si devono concludere prima della fine della quinta settimana dall’entrata in vigore del cessate il fuoco, vale a dire intorno al 22 febbraio.
Pinkas sottolinea tutte le assurdità della proposta di Trump. “Non c’è alcun riferimento a questioni legali: con quale potere e autorità gli Stati Uniti possono prendere il controllo di Gaza? Logistiche: come trasferire due milioni di persone, la maggior parte delle quali potrebbe non volerlo? Politiche: chi gestirà questo processo? Finanziarie: chi darà i fondi per questa impresa monumentale? Regionali: la maggior parte dei paesi arabi ha già respinto con veemenza l’idea”. Ma Trump, prosegue Pinkas, è “un agente del caos” e quello che vuole è distrarre e “instillare disaccordo, confusione, controversie e incertezze”.
Quanto a Netanyahu invece può contare solo su “qualche giorno di sollievo per la sua coalizione”, durante i quali può persuadere i suoi alleati che Trump gli ha dato il via libera per riprendere la guerra a Gaza. “Ma Trump lo ha fatto? No”.
Comunque Netanyahu, che è atterrato a Washington il 2 febbraio, resterà negli Stati Uniti fino a sabato, quindi potranno esserci altre sorprese. In effetti per essere un ricercato della Corte penale internazionale (Cpi), il primo ministro si muove con una certa disinvoltura.
Era stato negli Stati Uniti già a luglio, quando aveva sponsorizzato le sue guerre a Gaza e in Libano davanti al congresso, e a settembre, quando aveva presentato all’assemblea generale delle Nazioni Unite, a New York, il suo progetto per rimodellare la regione.
Come Israele, gli Stati Uniti non hanno firmato lo statuto di Roma e quindi non riconoscono la giurisdizione della Corte penale internazionale. Per questo Netanyahu è al sicuro dai mandati di arresto emessi nei suoi confronti dalla Cpi a novembre per crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nella Striscia di Gaza.
Questo testo è tratto dalla newsletter Mediorientale.
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